John Locke, responsabilità di
scegliere
di Paola Liberace
da Ideazione di novembre-dicembre 2006
Ogni vera scelta è
condizionata dall’esercizio di una effettiva libertà. Impossibile,
altrimenti, assumersi l’onere delle conseguenze, disporsi a rispondere
dei risultati, appropriarsi degli effetti e riconoscersi in essi. La
responsabilità, al pari della libertà, accompagna e caratterizza l’atto
della scelta: tanto più quando l’opzione coinvolge in maniera più o meno
diretta la storia e le prospettive di altri individui.
Cosa accade quando questi individui sono i nostri figli: bambini,
ragazzi, giovani? Parlare di scelta educativa comporta il riconoscimento
delle due componenti: l’apertura delle opportunità e il peso
dell’incertezza, e l’accettazione di entrambe su di sé. Risiede forse
qui la massima parte delle difficoltà a riconoscere l’educazione come
un’azione consapevole, invece che un processo automatico, quasi
meccanico, impersonale: nel quale gli educatori e gli educandi non sono
protagonisti, ma componenti – parti, non partecipi. La differenza tra
l’uno e l’altro approccio non riguarda solo l’interpretazione del ruolo
svolto da pedagoghi, allievi, istituzioni, o dello scopo
dell’educazione. Ha invece a che fare con la nozione stessa dell’uomo:
un essere raziocinante cosciente di se stesso, padrone delle proprie
azioni. Per concepire l’educazione come scelta piena, libera e insieme
onerosa, è necessario considerare la ragionevolezza autocosciente come
il dato caratteristico della persona umana. Questo accade nel pensiero
di un filosofo liberale come John Locke, in cui la visione dell’io come
libero, ragionevole, consapevole agente morale è il correlativo di una
pedagogia fortemente orientata alla responsabilità personale: tanto
degli educatori, quanto degli educandi.
La responsabilità dei genitori
Nei paragrafi centrali della
sua opera pedagogica, i Pensieri sull’educazione, Locke mostra una
particolare preoccupazione per il contesto educativo dei bambini.
Sottolineando l’importanza di affidarli nelle mani giuste, mette in
guardia i genitori circa il grave danno che ai bambini potrebbe derivare
dal trovarsi in cattive compagnie. Il riferimento è duplice. Da un lato,
servitori «maleducati o corrotti» possono trasmettere loro cattivi
esempi, tanto più perniciosi in quanto «i fanciulli […] operano per lo
più secondo gli esempi», molto più efficaci di qualsiasi regola,
punizione o esemplare ramanzina. Ai domestici «difficilmente si può
impedire di intralciare i disegni del padre e della madre»: sono loro a
infondere nei bambini paure immotivate, nate da infelici invenzioni come
quelle dei fantasmi o dei mostri, che per distogliere da «alcuni loro
piccoli falli» danneggiano equilibrio e serenità. Dall’altro,
frequentando le scuole pubbliche, c’è il pericolo che i bambini possano
incontrare compagni «maleducati e cattivi», che oltre alla disinvoltura
e all’abilità insegnerebbero loro anche la turbolenza e il vizio. In una
scuola affollata è materialmente impossibile per un maestro, per quanto
diligente e accorto, dedicarsi pienamente all’educazione di ciascuno
degli alunni: diventa quindi giocoforza limitarsi alla pura trasmissione
delle materie d’insegnamento, abbandonando a se stesso l’allievo per
tutto il resto. All’argomento che un’istruzione pubblica renderebbe il
fanciullo «più ardito e più capace di muoversi e di sbrogliarsi tra gli
altri ragazzi della sua età», Locke risponde decisamente, paragonando il
presunto beneficio, caro a padri «felici di vedere i loro figli
impertinenti e arditi di buon’ora», al danno permanente che ne
deriverebbe: «Se la disinvoltura e la scaltrezza arrivano una volta ad
associarsi al vizio e ad aiutare i suoi traviamenti, egli sarà
sicuramente perduto: e voi dovrete disfar da capo e strappargli tutto
quanto ha assorbito dai compagni, o abbandonarlo alla rovina».
Domestici e bambini
indisciplinati rappresentano i pericoli di un’educazione scorretta, che
guasta i bambini «sia dando l’esempio di modi scostumati, sia prodigando
loro le due cose che non dovrebbero mai avere: i piaceri scorretti e la
lode». In entrambi i casi, il rimedio risiede secondo Locke
nell’educazione in famiglia e nella compagnia dei genitori. Lo scopo
dell’educazione non è la dimestichezza con gli “usi del mondo”, ma
l’acquisizione della virtù: «perciò non posso fare a meno di preferire
per un giovane gentiluomo l’educazione domestica, sotto gli occhi del
padre e di un buon precettore; come quella che, se è possibile e
opportunamente ordinata, è la via migliore e più sicura per giungere al
grande e principalissimo fine dell’educazione». Ai genitori tocca il
compito di scegliere bene l’istitutore, che – come vedremo – prima
ancora che il latino o il greco deve trasferire al bambino i principii
di giustizia, generosità e temperanza. A questo scopo, Locke invita a
non lesinare mezzi: se è vero che un buon precettore rappresenta una
spesa significativa, è altrettanto vero che non sarà mai troppo grande a
paragone del beneficio che potrà apportare al fanciullo. L’investimento
nell’educazione è il maggiore e il più importante che si possa compiere
per il bene dei figli: facilmente si può condividere la meraviglia di
Locke per coloro che, più che solleciti nel procurare ai figli abiti di
lusso, cibi e alloggi sontuosi (e diremmo oggi: cellulari, consolle per
videogiochi e corredi scolastici griffati), si mostrano poi parsimoniosi
nelle spese per la formazione dello spirito e l’istruzione (lamentando
l’alto costo dei precettori ieri, e oggi il prezzo dei libri di scuola,
che pure nel complesso eguaglia quello di un cellulare di media fascia).
Se l’istitutore rappresenta una figura importante per l’educazione, non
per questo può usurpare il ruolo genitoriale: i genitori possono
all’occorrenza sostituire i maestri, mentre questi possono tutt’al più
farne le veci, sempre tuttavia sotto il vigile occhio paterno. Nel caso
in cui il patrimonio familiare non consenta di assumere un precettore,
Locke preferisce in ogni caso alle scuole pubbliche l’educazione dei
genitori, ai quali trasferisce le raccomandazioni profuse. Le stesse
madri – donne di buona società, che hanno appreso le lingue attraverso
la sola pratica – possono insegnare il latino ai figli meglio di tanti
maestri di campagna, versatissimi in manuali di logica e di retorica, ma
difficilmente in possesso dei requisiti necessari per assicurare una
buona educazione.
La responsabilità
ultima di condurre i figli alla virtù resta dunque del padre e della
madre: «il padre che educa il proprio figlio in casa, ha la possibilità
di averlo accanto a sé, di dargli gli incoraggiamenti che stima
opportuni, e di tenerlo lontano dal contatto dei servi e della gente di
volgare condizione, più di quanto gli riuscirebbe possibile se lo avesse
fuori di casa. Ma ciò che andrà fatto in questo caso, va lasciato
decidere in massima ai genitori, secondo le convenienze e le
circostanze». È significativo che, per avvalorare la tesi che
l’educazione dei figli spetti in ultima istanza ai genitori, Locke
inserisca in questo contesto l’unica annotazione di tutta l’opera, per
chiamare a suoi testimoni tre illustri autori antichi (Svetonio,
Plutarco e Diodoro Siculo). Una simile enfasi dovrebbe sembrare, a chi
legga l’opera, persino più anomala dell’assenza quasi totale di
riferimenti all’educazione femminile, o del sospetto verso la servitù,
che vanno necessariamente contestualizzati. L’insistenza sull’intervento
in prima persona di padre e madre nella crescita dei figli richiama una
dimensione del percorso educativo assai più comprensiva di quella alla
quale siamo abituati. Nel corso dei Pensieri, il padre è via via
istitutore, psicologo, amico e guida del figlio in società: fonte del
suo primo sapere, attento studioso dell’indole del bambino, autorevole,
ma mai autoritario, degno di rispetto, non di cieca obbedienza.
Impossibile immaginare una simile dedizione di tempo e di energie nella
nostra epoca, per cui la delega dei vari aspetti educativi è diventata
una regola. Gli spazi che Locke si preoccupa di affidare ai genitori
sono oggi occupati, su incarico degli stessi genitori, da professionisti
numerosi e diversi, le cui competenze sono in qualche modo il risultato
della specializzazione progressiva delle discipline. Ma tra tutti questi
manca la figura responsabile della «difficile e importante parte
dell’educazione cui si deve mirare [...] il bene, solido e sostanziale,
di cui gli educatori non soltanto debbono parlare o leggere, ma di cui
debbono arricchire gil animi con la fatica e con l’arte
dell’educazione»: manca, in altre parole, chi si assuma la
responsabilità di insegnare ai nostri figli la virtù.
La responsabilità di chi insegna
Il primato della virtù sulla
cultura trova puntuale riscontro nei tratti distintivi del precettore
ideale, descrivendo il quale Locke ribadisce la priorità da assegnare
alle buone qualità rispetto agli studi seguiti. Direttiva, questa, di
rado tenuta presente tra i suoi contemporanei, che ritengono sufficienti
buona reputazione, serietà e istruzione: «ma quando un tal precettore
avrà scaricato nel suo allievo tutto il latino e tutta la logica che
egli ha portato con sé dall’Università, questa imbottitura basterà forse
a fare di lui un gentiluomo distinto?». Locke ha ben presenti le
obiezioni che una simile posizione è destinata a suscitare: affermando
più oltre che l’istruzione è davvero «l’ultima parte dell’educazione»,
precisa che leggere, scrivere e sapere sono certo necessari, ma non la
cosa più importante. Fatte le dovute differenze, la situazione nella
quale «un giovane gentiluomo debba essere messo nel branco e guidato con
lo scudiscio, come se dovesse passare sotto la frusta attraverso le
varie classi, ad capiendum ingenii cultum» non dovrebbe suonare estranea
anche alle nostre orecchie, di rado abituate a sentir mettere in
discussione l’intoccabilità di dettagliatissimi programmi scolastici.
Il compito che spetta
a un istitutore è niente meno che quello di «educare e plasmare l’anima
di un giovane gentiluomo»: una volta effettuata la scelta, come per una
moglie, non si può cambiare, pena il grave danno sia per il genitore sia
soprattutto per il bambino. Una similitudine utile per comprendere la
natura dell’onere che, secondo Locke, chi insegna si assume: il
precettore ha il dovere di mostrare il mondo al suo allievo, di fargli
conoscere gli uomini, né peggiori né migliori di quanto siano, in modo
che sia preparato quando, completata la sua educazione, entrerà a
contatto con la realtà. Si tratta – e le parole di Locke sono
volutamente enfatiche – di accompagnare l’allievo nel suo passaggio più
difficile, quello da fanciullo a uomo: un errore qui sarebbe fatale, ed
esporrebbe il ragazzo al rischio di rigettare tutto quanto appreso in
famiglia per darsi alla dissolutezza e al vizio. Come in altri luoghi,
anche in questo caso Locke si pronuncia contro un’educazione
eccessivamente e inutilmente rigida, che agisce spesso da sostitutivo
dell’attenzione e della dedizione che devono caratterizzare la
responsabilità educativa: «so che si dice spesso che il rivelare a un
giovanotto i vizi del suo tempo è insegnarglieli. Ciò, riconosco, è in
gran parte vero: ma dipende dal modo che si segue nel farlo: perciò
occorre un uomo prudente e di talento, che conosca il mondo e sappia
giudicare il temperamento, le inclinazioni e il lato debole del suo
allievo». Al contrario, la severità gratuita conduce il ragazzo a
cercare, appena possibile, di svincolarsi dalle regole ricevute: e a
questo punto non solo di dissipare i beni paterni si tratterebbe, ma –
agli occhi di Locke – di un pericolo ancora maggiore, quello di
fraintendere il concetto di libertà e di contravvenire alla ragione.
Qualche nozione aggiuntiva di latino, o i rudimenti di qualche
disciplina in più, specialmente se trasmessi con la coercizione, nulla
valgono a paragone di questo rischio che mette a repentaglio la
formazione dell’uomo.
Non di “riempire le
teste degli alunni” si tratta, ma di far crescere delle persone: proprio
per questo le caratteristiche personali del precettore – prudenza,
calma, saggezza, buona educazione e conoscenza del mondo – sono così
imprescindibili. Nel rapporto tra l’educatore e l’educando entrambi
mettono in gioco tutta la loro umanità: non si può pensare di obliterare
semplicemente una delle due, nascondendosi dietro il pretesto della
specificità professionale, o peggio ancora dietro una fraintesa
concezione di “vita privata”, che solleverebbe dall’obbligo di attenersi
a quello che si pretende di insegnare. Locke ribadisce qui con la
massima chiarezza la convinzione, difesa in tutta l’opera, che più di
ogni cosa, nell’educazione, contino la pratica e gli esempi: «[…]
l’esempio dell’istitutore deve guidare il bambino a fare ciò che si
vuole sia fatto da lui. La sua condotta non deve assolutamente mai
essere in contrasto coi suoi precetti, a meno che non voglia mettere
l’alunno sulla cattiva strada. E non gioverà affatto che il precettore
parli di freni da imporsi alle passioni, se egli darà libero sfogo alle
proprie; come pure tenterà invano di reprimere qualche difetto o
sconvenienza dell’allievo, se vi indulgerà per proprio conto». A chi
insegna sono richieste non solo una buona cultura e un’abilità
specifica, ma soprattutto una responsabilità personale: la capacità di
assumere su di sé la crescita di un altro essere umano, e di riconoscere
– in un coinvolgimento totale nel compito educativo – i frutti della
relazione instaurata. “Responsabilità” è il concetto chiave che permette
di definire questa stessa relazione come una relazione tra persone:
nella quale l’allievo viene guidato da un maestro razionale e
consapevole alla piena razionalità e alla consapevolezza delle proprie
azioni.
La responsabilità di chi impara
Trattando di educazione,
Locke utilizza più volte il termine person of quality oppure of
condition, per citare le esperienze educative di “persone di riguardo” –
e, quindi, degne di fede. Altrove, “persona” descrive gli individui
destinati alla compagnia del bambino, e in particolare il precettore. È
a John W. Yolton che si deve un’analisi piuttosto approfondita nel
contesto pedagogico del significato di questo termine, che nel resto
dell’opera filosofica lockiana mantiene quasi sempre un’accezione di
tipo giuridico: “persona” nell’Essay è riferito alle azioni, intendendo
chi ne è responsabile di fronte alle leggi. Il tratto distintivo della
persona è quella che Yolton chiama la «consapevolezza appropriante»,
ossia la capacità di riconoscere le azioni compiute come proprie, base
della responsabilità morale. Per Locke, afferma Yolton, una persona «è
questo essere razionale, intelligente, preoccupato, ossequioso a delle
regole, che agisce nel mondo e che è conscio che certe azioni sono le
sue». Sebbene nei Pensieri sull’educazione Locke non utilizzi mai il
termine in questo senso riferendolo al bambino, è a questa meta che il
processo di crescita lo conduce, partendo dalla pratica assidua della
virtù, fino al riconoscimento che la virtù stessa è conforme alla
propria ragione.
Il nesso tra ragione
e virtù si allarga nel percorso educativo ai concetti di natura e di
libertà, intimamente legati in tutto il pensiero lockiano. Non esiste in
Locke un’opposizione tra natura e ragione: persino nel passaggio dallo
stato di natura a quello civile manca la costrizione hobbesiana che fa
perno sul timore della violenza irrazionale. Così nell’opera pedagogica,
la natura non è vista come elemento da reprimere o da negare, ma
piuttosto da direzionare: tanto nei genitori, «cui la Natura saggiamente
ordinò di amare i propri figli»; quanto nei figli, nei quali
l’inclinazione naturale va studiata, assecondata e diretta verso la
migliore riuscita. Allo stesso modo, la “naturale libertà” che i bambini
esprimono nei loro svaghi va adoperata per rendere loro piacevoli anche
le attività meno gradite, come lo studio; per il resto, non c’è ragione
di sottrargliela se non nella misura in cui venga diretta al male. Le
fattispecie di questo errato utilizzo sono soprattutto legate alla
sregolatezza cui si abbandonano i ragazzi, troppo presto sottratti alla
tutela del precettore, nei primi contatti con il mondo esterno. Un
malinteso senso di libertà, consistente «nell’abbandonarsi al pieno
godimento di tutto ciò che fino allora fu a loro vietato», prende allora
il posto del significato più vero: così, il precettore appare al
fanciullo come «il nemico della sua libertà», mentre gli ammonimenti di
questo sono tutt’uno con i «consigli della sua stessa ragione». Il modo
per mostrare ai ragazzi la libertà vera resta dunque quello di
richiamarli all’ascolto della ragione, che in Locke concorda con la
legge – prima tra tutte, quella di natura – e ne costituisce anzi il
fondamento.
Il bambino è un
essere ragionevole sin dal principio, e come tale va considerato anche
dai suoi educatori: lo scopo è condurlo a prenderne gradualmente atto,
contrastando le intemperanze della volontà, fino a che egli non sia in
grado di identificare pienamente la vera libertà con la ragione. Locke
non si illude circa le effettive tendenze e inclinazioni dei fanciulli:
«più sono piccoli e meno si dovrebbero soddisfare i loro irragionevoli e
disordinati desideri; meno giudizio hanno, e più dovrebbero
sottomettersi all’assoluto potere e freno di coloro cui sono affidati».
Tuttavia, ciò non significa che i bambini siano privi di ragione; al
contrario, poiché «il bene e il male, il premio e la punizione sono i
soli motori per una creatura ragionevole […] debbono essere usati anche
coi bambini». Proprio per questo motivo, essi non possono identificarsi
con effimere ricompense o con severe punizioni; Locke propone invece di
fare leva su uno degli istinti razionali – non si tratta di un ossimoro
– più forti nell’uomo, l’amore per la buona reputazione, prospettando al
bambino la stima di tutti per i suoi comportamenti corretti, e
rispettivamente la riprovazione generale verso le sue mancanze. Mentre
scappellotti e contentini, divenuti abituali, perdono di ogni efficacia,
la lode o la disistima conservano un influsso profondissimo sul
carattere dei bambini. Pur non coincidendo con la virtù, la reputazione
è «ciò che maggiormente le si avvicina»: «la buona reputazione, essendo
la prova del plauso che gli uomini concedono per comune consenso alle
azioni virtuose e rette, è la guida opportuna e il giusto incitamento
per i bambini, fino a quando saranno capaci di giudicare da soli e di
scoprire con il proprio raziocinio ciò che è giusto». Lo stesso metodo è
da utilizzare nel caso delle due mancanze che Locke, generalmente
tollerante verso le comuni leggerezze infantili, considera più gravi:
l’ostinazione e la menzogna, frutti di una cattiva piega della volontà.
Nel primo caso giunge ad ammettere l’uso delle correzioni fisiche: ma
sempre mirando, più che a infliggere dolore, a suscitare la vergogna
della «ripetuta e volontaria negligenza». Nel secondo caso gli educatori
sono esortati a presentare il vizio al bambino con parole insolitamente
dure, per suscitare in lui il più vivo disprezzo. Bugie e scuse, spesso
utilizzate dai bambini per coprire i propri falli, sono proprio per
questo colpe inammissibili agli occhi di Locke: è significativo che qui
il filosofo inviti a perdonare immediatamente qualsiasi marachella,
purché il bambino abbia il coraggio di dire la verità al riguardo.
L’assunzione di responsabilità supera la qualità delle azioni, purché
vengano riconosciute come proprie.
Il corto circuito tra
natura, libertà, ragione e virtù si realizza così pienamente nella
responsabilità, che contraddistingue la persona: un uomo morale, libero
agente consapevole del proprio agire, in grado di risponderne di fronte
alla legge – anzitutto quella naturale, conoscibile attraverso la stessa
ragione umana.
14 novembre 2006
Paola Liberace, giornalista, è direttore generale della Fondazione
Ideazione
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