Banda larga per tutti, al resto ci pensiamo
“noi”
di Mario Sechi*
da Ideazione di luglio-agosto 2006
Avvertenza per il lettore: qui non si fa nessun piagnisteo. Non scriverò
che la politica culturale del centrodestra non esiste. Non batterò i
pugni sul tavolo per chiedere ai leader politici di svegliarsi e
guardare l’orizzonte. Non farò alcun appello alla buona volontà del
Palazzo. Parafrasando il Rett Butler che si rivolge a Rossella O’ Hara:
francamente, me ne infischio. Ideazione mi ha chiesto di riassumere in
tre punti quali cose dovrebbe fare il centrodestra. E io mi sono
chiesto: ma perché mai offrire a questa classe dirigente delle idee?
Hanno governato per cinque anni e hanno ignorato allegramente tutti noi.
Quando uso questa parola, “noi”, intendo il gruppo di Ideazione, i
blogger di TocqueVille, i non pochi cani sciolti del mondo delle lettere
e delle arti, i giornalisti non ancora fagocitati dal pensiero a una
dimensione, quelli di “noi” che hanno un libro nel cassetto e forse mai
avranno un editore.
Ecco, in questo “noi” che ricorda Lord Jim e l’avventura di Conrad c’è
la nostra cifra stilistica, la distanza siderale che ci separa da “quel”
mondo. Mentre “noi” surfiamo su Internet e navighiamo nel mare della
contemporaneità, il centrodestra ha buttato all’aria la sua occasione
per creare un’onda lunga, uno tsunami culturale in un paese dominato
dalla cupola delle lettere e delle arti. Ha preferito le Veline. Nessuna
idea per chi ha fallito nella sfida più importante, coraggiosa, utile
per il futuro. Nessuna idea per chi non ha né i titoli né la dimensione
intellettuale per capire. Non è più il loro turno. È invece il momento
di quelli che in questi anni hanno continuato in splendida solitudine a
elaborare idee, scrivere, viaggiare, creare contatti, relazioni,
guardare il mondo sempre con gli occhi stupiti di un bimbo ma con il
realismo dei saggi. È il momento giusto per “noi” e non per “loro”.
Nessuna contrapposizione. Si tratta solo di ricambiare con una
consapevole e fiera indifferenza all’ignorante indifferenza del
centrodestra e dei suoi leader. Regolate le cose con il mondo politico,
resta invece da capire che cosa fare per continuare a esprimere le
proprie idee in un’Italia che è entrata in una ammorbante stagione di
conformismo culturale.
Uno. Internet
Negli Stati Uniti sta succedendo ora: la gerarchia tra le fonti si sta
rivoluzionando. Internet sta per diventare la fonte primaria di
informazione e questa ondata presto travolgerà il tradizionale sistema
dei mainstream media anche in Europa. Qualsiasi progetto politico
culturale dunque deve cominciare dalla Rete e dai blog. Bisogna dunque
incoraggiare la liberalizzazione di Internet e stare attenti a qualsiasi
progetto che mini la facilità, velocità, economicità d’accesso. In
passato era fondamentale l’accesso all’istruzione, oggi invece devi
essere connesso. Gli esempi di rovesciamento della gerarchia delle
notizie oltre Oceano si sprecano, uno degli esperimenti più interessanti
è quello di Pajamas media. Un gruppo di blogger che copre il notiziario
planetario in tempo reale ed è ormai in grado di dare le notizie prima e
meglio dei mezzi tradizionali di informazione. È questa politica
culturale? Certamente. Perché se il sistema a voce monocorde
dell’informazione espone solo una visione del mondo (e vi lasciamo
immaginare quale) ecco che sono necessarie navi corsare. Tocqueville in
questo senso è un modello sempre più interessante. Al suo primo anno di
vita, questo laboratorio digitale dell’area liberal-conservatrice
rappresenta il meglio del pensiero politico sulla Rete e un modello per
chiunque nel nostro paese voglia intraprendere questo cammino. Quando la
massa delle connessioni a larga banda in Italia raggiungerà tutti i
centri abitati, quando il pervasive computing sarà capace di agganciare
qualsiasi utente in modo facile e veloce, allora la propagazione delle
idee non dipenderà più né dalla televisione né dai giornali. Escludo la
radio, strumento che occuperà il secondo capitolo.
Politica culturale è dunque sostenere la liberalizzazione del mercato
delle telecomunicazioni, smantellare gli oligopoli del cavo, spingere la
politica a introdurre cultura digitale nelle scuole e nelle università.
L’ultimo rapporto dell’Ibm e dell’Economist Intelligence Unit sul
digital divide nel mondo mette in luce le lacune del nostro paese:
occupa il 25° posto nella classifica globale, perde una posizione
rispetto al 2005 ed è indietro rispetto a tutti i paesi Ue avanzati,
escludendo dunque Grecia, Portogallo e i nuovi Stati dell’Est che hanno
fatto ingresso in Europa con l’allargamento. La politicasi occupi di far
costruire autostrade digitali a pedaggio ridotto, saranno altri a far
camminare le idee. Politica culturale è banda larga per tutti.
Due. Radio
In regime di par condicio la politica ha riscoperto la radio. Conclusa
la campagna elettorale quel vecchio apparecchio caro ai nostri genitori,
quel suono così bello che accompagna la nostra vita, è stato rimesso in
soffitta. Errore. Oggi la radio è potenzialmente il mezzo migliore, più
efficace e penetrante, per agitare il mare della cultura e della
politica, per diffondere idee tra i giovani e i meno giovani. Si
obietterà che le frequenze costano ed è vero. Ma questa obiezione è
figlia di un modo di pensare obsoleto, chi ragiona in termini di etere è
letteralmente cieco e sordo. Non vede che cosa sta succedendo nel mondo
reale. La radio oggi è tecnologicamente qualcosa di più completo e
complesso rispetto al passato. Radio è streaming di musica e notizie su
Internet, radio è trasmissione satellitare (sulla quale si sta
lavorando, con non poche difficoltà,in Europa per giungere ad un unico
standard di trasmissione), radio è la rivoluzione del podcasting che
consente di scaricare il file audio-video su un dispositivo portatile.
La radio è in casa, in ufficio, in macchina, in aereo, in treno, nelle
tue tasche, tra poco al polso e nel telefono. Apple è già al lavoro per
mettere in commercio un Ipod-telefono. La radio è ovunque, abbatte le
barriere dello spazio, del tempo e delle generazioni. Figurarsi quelle
della politica e della cultura. In questo caso si tratta solo e soltanto
di cominciare a mettere in posa i mattoni per costruire una radio che
sappia fondere entertainment musicale e informazione. Stando dall’altra
parte della barricata e infrangendo rumorosamente il totem e il tabù
della sinistra che crede di avere il monopolio del microfono.
Tre. Televisione (e cinema)
Siamo arrivati al tubo catodico e al grande schermo. Ci si dibatte
inutilmente sulla questione del duopolio mentre pochi si sono resi conto
che il digitale e il satellite sono a portata di mano. La tv generalista
ha un futuro ristretto, la tv on demand e tematica ha un orizzonte
vastissimo. La differenziazione del pubblico sarà sempre meno per fasce
orarie e canali e sempre più per contenuti e facilità di visione. Chi
rende file video disponibili su Ipod avrà un avvenire certo, chi produce
programmi rivolti a un pubblico specifico sarà premiato, chi lascia
perdere i reality show e si imbarca per fare la traversata con i citizen
journalist che raccontano la realtà avrà una prateria da cavalcare. In
questo caso, chi fa politica culturale deve lavorare per potenziare le
piattaforme alternative e ridurre i costi di accesso. Le idee più
semplici sono quelle migliori. Si è parlato a lungo di Michael Moore e
del suo documentario sull’11 settembre 2001. Bene, bravo, non ci
interessa il bis. Su questo piano, sarà interessante l’impatto sul
pubblico della brillante idea della regista americana Deborah Scranton
che ha fatto la cosa più semplice: ha messo una telecamera digitale in
mano a tre soldati della Guardia Nazionale in missione in Iraq per un
anno. Il risultato, a giudicare dal trailer e dalle recensioni negli
Stati Uniti, è eccezionale. C’è chi parla di pietra miliare del
giornalismo e non stentiamo a crederlo. La guerra nel triangolo sunnita
vista dall’occhio dei soldati, il mondo reale contro la cultura del
reality, il citizen soldier che diventa citizen journalist.
Che questo sia stato possibile realizzarlo con i soldati degli Stati
Uniti e non, per esempio, con gli italiani presenti a Nassiriya, la dice
lunga sul giornalismo televisivo e sul cinema del nostro paese, nonché
sull’arcaica cultura che domina i vertici delle Forze Armate. Il costo
di realizzazione di War Tapes non è quello finanziario, ma quello
personale. Dietro c’è il rischio della vita. In questo momento in Iraq
non c’è neanche un giornalista italiano, presto non ci saranno neppure i
soldati. È incredibile come nessun documentarista abbia sentito il
bisogno di girare qualcosa di diverso dalla propaganda anti-guerra, che
nessuno abbia avuto l’idea di girare un film con l’occhio di chi la
guerra la combatte, un primo piano sulla trincea e non sulle bandiere
arcobaleno che sventolano dal balcone delle comode case in centro.
Produrre e offrire al pubblico una visione del mondo diversa da quella a
una dimensione che ci viene spacciata oggi per cultura non è poi così
difficile in un mondo che sta rivoluzionando gli antichi canoni. Non è
il momento di piangersi addosso o di fare appelli. È il momento,
semplicemente, del pensare e del fare. Chi ha idee e forza di volontà
può superare i molti ostacoli e ignorare tranquillamente il mondo della
politica. Nessuna idea per chi non apprezza quel bene scarso che si
chiama intelligenza. Lasciamo che il treno della politica viaggi sul suo
binario. È un binario morto.
30 agosto 2006
* vicedirettore de il Giornale, si occupa di politica interna ed estera
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