Centrodestra alla lavagna
di Giovanni Orsina*
da Ideazione di luglio-agosto 2006

Le difficoltà che lo schieramento di centrodestra italiano incontra ogniqualvolta tenta di muoversi sul terreno della cultura non sono generate da vera e propria debolezza culturale. Ossia, non derivano da mancanza di idee, e nemmeno dal fatto che le idee presenti siano invecchiate, irrigidite, elettoralmente impresentabili. Al contrario, mi pare che proprio in questi ultimi anni, finalmente, la Casa delle Libertà abbia trovato una propria collocazione ideologica: una collocazione assai precisa, discutibile certo ma tutt’altro che anacronistica, e tale che, se la si vende bene, la maggioranza dei cittadini italiani potrebbe pure comprarsela. No, le difficoltà culturali del centrodestra non sono propriamente culturali. Sono politiche. E soprattutto sono sociologiche. Derivano cioè dalla debolezza delle istituzioni sulle cui gambe quelle idee dovrebbero camminare; dalla scarsa integrazione che quelle istituzioni hanno coi centri decisionali politici, ossia dalla scarsa influenza che hanno su di essi e dallo scarso aiuto che ne ottengono; e, forse più che da ogni altra causa, dall’esiguità numerica e – diciamolo pure chiaramente – sovente mediocrità intellettuale del ceto dirigente nazionale e ancor più locale della Casa delle Libertà.

Detto più chiaramente: le idee ci sono e funzionano; i consiglieri del principe sono pochi, hanno poche risorse e sono largamente inascoltati; soprattutto, il principe è debole e incapace di avvantaggiarsi fino in fondo dei suoi consiglieri e delle loro idee. Ma andiamo con ordine. Ci sono voluti più di dieci anni perché il centrodestra arrivasse a elaborare un proprio profilo ideologico ragionevolmente omogeneo, ma mi pare che infine, anche sulla spinta dell’11 settembre, la meta sia stata più o meno raggiunta. Questa stessa rivista, Ideazione, è stata testimone e protagonista almeno di alcuni dei passaggi che si sono resi necessari perché l’obiettivo fosse conseguito. Alla metà degli anni Novanta era il modello anglosassone a dare sostanza ideologica alla parte più innovativa dell’allora nascente centrodestra italiano: un sistema politico bipolare e maggioritario, una politica economica liberale e liberista, una politica sociale individualistica quando non libertaria. A questa linea ideologica se ne intrecciavano altre, e in particolare se ne intrecciava una (poco esplicitata in termini culturali perché tradizionalmente scarsa di legittimità, ma robusta a livello di mentalità) assai meno liberale-anglosassone e assai più conservatrice-nazionale: non tanto sul versante istituzionale, quanto piuttosto sul versante economico – nella forma dello statalismo – e su quello sociale, oltre che nel suo preminente interesse intellettuale per la questione dell’identità italiana, in tutte le sue forme, piuttosto che per l’importazione nella Penisola di modelli politici stranieri.

Negli anni questa scissione si è senz’altro attenuata. Se da un lato rimane indubbio che l’Italia continui ad avere bisogno – disperato bisogno, e urgente – di emendare i propri corporativismi, il proprio carattere gerontocratico, di abbattere le rigidità e le barriere che ne ostacolano la competitività – ovvero se da un lato rimane indubbio che c’è ancora tanto lavoro liberista da fare – dall’altro lato è sempre più evidente che lo sviluppo economico e la capacità di competere sul mercato mondiale non rappresentano l’unico terreno sul quale si giocano le partite di quest’inizio millennio. L’11 settembre, come accennavo sopra, ha fatto molto per riportare al centro dell’attenzione questioni più specificamente politiche, nella forma della politica identitaria da un lato e della politica internazionale dall’altro. Ossia nella forma dell’identità e dell’interesse nazionali. Non più coniugati tuttavia, come spesso è accaduto nel passato in un modo alquanto impolverato e nostalgico, quasi si trattasse di una tarda “rivincita” del patriottismo tradizionale, gravemente vulnerato con la fine del fascismo e poi definitivamente affossato dalla svolta culturale degli anni Sessanta. Ma inseriti all’interno di un più vasto quadro culturale occidentale: identità e interesse nazionale italiani come elementi fondamentali dell’identità e dell’interesse dell’Occidente, e bisognosi di tutela poiché l’intera area europeo-occidentale e nord-atlantica deve oggi ritrovare la propria ragion d’essere, e difendersi dai mali congiunti dello scetticismo interno e del fondamentalismo esterno.

La vicenda culturale qui brevemente illustrata fa sì che oggi lo schieramento di centrodestra possa fondarsi su di un patrimonio ideologico piuttosto ben definito e ragionevolmente condiviso. Un patrimonio fatto di liberalismo economico (ricordo che sto parlando di ideologia, non di prassi politica!), di atlantismo nelle relazioni internazionali – e di un europeismo che non sia interpretato in contrapposizione all’atlantismo –, di tutela gelosa d’una certa visione dell’identità occidentale e dell’identità italiana al suo interno. Una visione – per dirla in breve – che salvaguardi i capisaldi liberali di quell’identità ancorandoli alla tradizione. Questo tipo di patrimonio, oltre a essere chiaramente definito e ragionevolmente condiviso nell’ambito della Casa delle Libertà, è anche aggiornato ai tempi, tale da rendere possibile la creazione di rapporti solidi con forze politiche e correnti culturali europee ed americane, e soprattutto elettoralmente spendibile. Uno schieramento che si fondi seriamente su di esso, insomma, e che lo interpreti in maniera moderata ma con rigore, evitando se possibile cadute di gusto, può certo aspirare a raccogliere il voto della maggioranza del paese.

Per molti versi, questa è già stata l’ideologia del governo Berlusconi. Si è formata proprio nel corso dell’ultimo quinquennio, attraverso passaggi in larga misura non controllati e neppure voluti dal ceto politico della Casa delle Libertà – l’11 settembre, la guerra irachena, il referendum sulla procreazione artificiale –, e spesso addirittura all’insaputa di quel ceto, prendendolo quasi di sorpresa. L’enuclearsi di questo patrimonio di idee, anzi, ha rappresentato una conseguenza politica notevole – forse la conseguenza politica più notevole – del lustro di governo del centrodestra. Se così è, se le idee ci sono – e per tanti versi appaiono meno invecchiate di quelle dello schieramento opposto, e la Casa delle Libertà appare assai più compatta intorno a quelle idee di quanto lo schieramento opposto non lo sia intorno alle proprie –, che cosa manca perché il centrodestra italiano abbia una politica culturale non dico degna di questo nome, ma per lo meno decente? Come accennavo in principio, mancano la “potenza di fuoco” culturale e un ceto politico capace di utilizzarla. Nelle pagine conclusive di questo scritto proverò a illustrare alcune questioni relative all’un problema e all’altro, farò un appello alla politica (ma con lo stesso spirito che portò Einaudi a definire “inutili” le sue “prediche”), e avanzerò una proposta concreta.

La “potenza di fuoco” culturale si costruisce principalmente con il denaro. E poiché per le idee di centrodestra il mercato culturale italiano è non soltanto assai meno ricco di quanto non sia per le idee progressiste, ma in assoluto decisamente asfittico, quel denaro non può che venire – in larga misura se non del tutto – dal mecenatismo interessato della politica. La classe politica della Casa delle Libertà dovrà prima o poi imparare che fondazioni, case editrici, riviste, siti internet debbono essere sostenuti con risorse politiche (il che non vuol necessariamente dire pubbliche): soltanto così il centrodestra potrà almeno provare a uscire dalla sua condizione di minorità storica, erigere una rete culturale solida che sia anche luogo di formazione di classe dirigente, avviare eventualmente una sorta di “campagna acquisti” nel campo avverso. Da questo punto di vista, il quinquennio del governo Berlusconi è stato largamente (pure se non del tutto) sprecato. Considerato che anche l’ideologia quel governo se l’è dovuta cercare per strada, lo spreco è in fondo comprensibile – anche se non perdonabile. Permettere che si ripeta sarebbe però suicida. Anche perché riviste, fondazioni, case editrici, siti internet, ci sono già. E il loro mestiere in fondo l’hanno fatto non troppo male, considerate le risorse di cui potevano disporre.

Come accennavo sopra, allargare il proprio richiamo culturale significa anche fare “campagna acquisti” in campo avverso. Ovvero attrarre intellettuali e correnti di pensiero che non appartengono “naturalmente” al proprio campo, ma che per prossimità ideologica o per interesse possono tuttavia esservi cooptati. In cinque anni di governo, ça va sans dire, il centrodestra mi pare sia riuscito a perdere intelligenze più che a guadagnarne. La debolezza del suo contesto culturale rende quanto mai urgente che questa tendenza sia rovesciata. Con un caveat, però. Che allargare il proprio spettro ideologico non può significare annacquarlo – non oltre certi limiti, almeno. Partiti per egemonizzare, non si può finire egemonizzati. Da questo punto di vista, l’operazione meglio riuscita alla cultura di centrodestra – operazione di cui bisognerebbe valutare la riproducibilità in altri settori del mondo della cultura – è certamente quella de Il Foglio. Il quotidiano di Giuliano Ferrara ha coniugato magistralmente il rigore ideologico con la qualità intellettuale.

Non solo: malgrado il rigore ideologico, è riuscito a diventare un interlocutore e un polo di attrazione anche per intellettuali di convinzioni politiche differenti. Ogni riferimento al fatto che il direttore de Il Foglio ha imparato nel pci a fare politica culturale sarebbe a questo punto tutt’altro che casuale. Né casuale sarebbe il riferimento alla capacità di Ferrara di trasformare il proprio giornale in un salotto, conferendo in questo modo legittimità a chi vi collabora, e rompendo così di forza l’assedio che circonda in Italia la cultura moderata (devo a Eugenia Roccella quest’ultima considerazione. A me istintivamente il carattere salottiero de Il Foglio dava piuttosto fastidio). Su quel modello, in ogni caso, bisognerebbe attirare l’attenzione di tutta la classe dirigente della Casa delle Libertà: dei populisti leghisti che danno mazzate in testa al politicamente corretto, e sono mazzate sacrosante, ma date malissimo; dei berluscones persuasi erroneamente che in politica le cosce delle veline contino di più dei filologi romanzi; dei centristi post-democristiani convinti di non avere bisogno della cultura, perché loro già sono establishment – e non si accorgono che con loro l’establishment non ci starà mai per davvero.

La cultura infine non può servire a molto, se manca una classe politica capace di farne uso. E non vi può essere dubbio alcuno che la Casa delle Libertà abbia un problema pressante di quantità e qualità della classe politica. La componente principale della coalizione, Forza Italia, è nata – ed è voluta nascere – come un partito antipartitico e carismatico, e negli anni non pare aver prodotto dei meccanismi istituzionali affidabili di formazione, selezione e riproduzione delle élite. I risultati elettorali quanto mai deludenti che il centrodestra ottiene nelle elezioni locali, così come lo iato che imperante il maggioritario poteva osservarsi fra i voti dei candidati e quelli delle liste, sono da questo punto di vista assai significativi: non appena si esce dal terreno dell’ideologia politica e ci si distacca dalla mediazione carismatica del Cavaliere, ossia non appena diventano importanti le qualità personali dei dirigenti politici, gli elettori fuggono verso l’altro schieramento o si rifugiano nell’astensione. Si crea così un circolo vizioso, per il quale il centrodestra perde le elezioni amministrative per scarsa presentabilità dei propri candidati, e di conseguenza si trova nell’impossibilità di utilizzare le amministrazioni locali come luogo di formazione di una classe politica maggiormente presentabile. Mi pare che questo elemento debba essere sottolineato con particolare forza: con l’indebolimento quando non la scomparsa dei partiti, e con la moltiplicazione dei centri di decisione politica, i poteri locali sono diventati dei luoghi fondamentali di costruzione delle élites. La debolezza cronica a livello comunale, provinciale, regionale non implica dunque soltanto la perdita di centri di potere, ma rende impossibile accedere a un vivaio di classe dirigente: le persone di qualità, ambiziose e ideologicamente non troppo orientate che vorranno fare politica migreranno verso lo schieramento avverso; quelli invece ideologicamente orientati avranno grandi difficoltà nel trovare sbocchi e risorse nella vita pubblica, e anche quando li trovassero non potrebbero mettere alla prova i propri talenti amministrativi, né svilupparli. La debolezza cronica a livello locale di oggi, insomma, garantisce la debolezza cronica a livello nazionale di domani. Soprattutto quando sarà venuto meno il carisma di Berlusconi.

Come può il centrodestra spezzare questo circolo vizioso? Provo ad avanzare una proposta. Se i meccanismi “naturali” di formazione e selezione della classe politica non funzionano, bisogna crearne di artificiali. E il meccanismo artificiale di formazione e selezione più rilevante che il genere umano abbia inventato è certamente la scuola. Un modo ovvio per migliorare la qualità e quantità del ceto politico della Casa delle Libertà, mettendolo fin dall’inizio in contatto con l’elaborazione culturale di centrodestra, sarebbe dunque creare una o più scuole di partito. Serie, approfondite, esigenti. L’idea, come ho già accennato, è ovvia, tutt’altro che nuova. All’inizio di settembre si terrà la prima Summer School della Fondazione Magna Carta, con un corpo docente assai qualificato, ed esattamente con questo scopo. È un inizio eccellente ma è, appunto, soltanto un inizio. Di nuovo, ben altra potenza di fuoco ci vorrebbe. Quella potenza che soltanto una volontà politica dotata di risorse politiche può mettere in campo.

30 agosto 2006

* docente di Storia contemporanea all’Università Luiss-Guido Carli di Roma, direttore scientifico della Fondazione Luigi Einaudi
 

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