Costruire una nuova classe dirigente
di Flavio Felice*
da Ideazione di luglio-agosto 2006

«Squadra che vince non si cambia», con questo aforisma normalmente si descrive la situazione nella quale un team sportivo, un’équipe di lavoro, una coalizione politica o quant’altro, superato il test rilevante per il quale era stato costituito, decide di rimanere compatto, di mantenere inalterati gli equilibri e di preservarsi immutato nel perseguimento dei fini stabiliti. Oggi la coalizione dei cosiddetti moderati è uscita sconfitta dal test elettorale; certo la cdl ha perso per una manciata di voti, certo esistono dei ricorsi, certo il centrosinistra appare lacerato dalle sue stesse contraddizioni interne, certo la proposta politica del centrodestra potrebbe non essersi esaurita, ma il dato di fatto è un altro. In primo luogo, per una manciata di voti al governo oggi c’è il gabinetto Prodi, in secondo luogo, i ricorsi sono affidati ad una commissione parlamentare, la quale affinché possa svolgere coerentemente i suoi lavori necessiterà di almeno un anno e mezzo e poi voterà a maggioranza, in terzo luogo, le contraddizioni non è detto che esplodano: basterebbe tirare a campare. Ed infine, la proposta politica della cdl, che nasceva come prospettiva di governo del paese, oggi deve fare i conti con la prospettiva dell’opposizione che evidentemente differisce per ragioni di metodo e di merito da quella tipica di una maggioranza.

Per questa ragione è necessario che i leader della cdl non escludano nessuna ipotesi, neppure quella estrema, ossia: «Squadra che perde si cambia». Dire che la sconfitta elettorale non deve escludere l’ipotesi di un cambiamento non deve immediatamente far pensare ad un ricambio della leadership. Non che ciò non possa avvenire, qualora si creassero le condizioni favorevoli ed emergessero figure rappresentative che ad oggi, a dire il vero, stentano a farsi notare. Pur tuttavia, una qualche forma di cambiamento appare ineludibile. Più volte durante gli anni del governo Berlusconi si è parlato di svolta, di segni di discontinuità, come se dovesse accadere qualcosa di fragoroso, un avvenimento in grado di recuperare l’elettorato deluso. Un elettorato deluso da che cosa? È probabile che motivo di delusione non siano state tanto le proposte non realizzate e tanto meno il fatto di averne effettivamente realizzate alcune (sempre migliorabili s’intende), quanto la manifesta incapacità di dar vita ad un ambiente politico e culturale favorevole all’emergere e alla legittimazione presso vasti ambiti della società civile delle idee liberali, moderate e riformiste sui campi della scuola, del lavoro e della pubblica amministrazione. Un ambiente culturale che si sarebbe dovuto tradurre in opportunità di fare sistema, di percepirsi non solo come maggioranza, ma soprattutto come massa critica, in grado di spiegare le ragioni della società libera e dell’economia di mercato applicate alla vita quotidiana degli italiani.

La riscossa della destra culturale nell’esperienza americana


È risaputo che culturalmente la sinistra nel nostro paese conserva un potere attrattivo ed una capacità di creare massa critica come nessun’altra componente culturale del paese. Ciò è vero oggi in Italia, così come lo è stato ad esempio negli Stati Uniti, almeno fino alla fine degli anni Settanta. A cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta si sarebbe diffusa negli Stati Uniti quella che il teologo cattolico Richard John Neuhaus ha definito come una nuova ideologia: the naked public square, l’ideologia della “nuda piazza pubblica”. Questa sarebbe stata l’esito di una miscela culturalmente esplosiva, scaturita da una serie di dottrine e pratiche politiche, tesa ad escludere la religione, e quei valori riconducibili ad una matrice d’ordine religioso, dalla vita pubblica ordinaria. Una simile deriva, per Neuhaus, perseguirebbe l’esplicito obiettivo di intaccare nel profondo il Dna degli Stati Uniti, la stessa ragione ideale in forza della quale essi sarebbero nati. In definitiva, dal paese sorto su un’esperienza ed un’eccezionalità tutt’altro che ludici, ma che rimandano al tema della rivendicazione di una libertà religiosa «di per se stessa evidente» vissuta pubblicamente e testimoniata nei tanti simboli nazionali, gli usa per Neuhaus sarebbero scivolati pericolosamente verso la più indifferentista e ludica delle derive ideologiche, quella del secolarismo più esasperato, violentemente antireligioso e cristofobico, ben espresso dai prodotti eticamente e culturalmente più imbarazzanti che sfornano gli studios di Hollywood.

Per spiegare questo fenomeno, che poi non appare così distante dal grado di difficoltà che la cultura liberale, cattolica e riformista incontra nel processo di elaborazione e di attuazione delle proprie proposte politiche e culturali nella vita italiana, Neuhaus ricorre alla teoria delle élite di Vilfredo Pareto. Il punto sottolineato da Neuhaus è che finalmente negli anni Ottanta si comprese che, in fondo, tale deriva secolarista-ludica piuttosto che essere l’esito di una rivoluzione culturale di popolo, di un fenomeno di massa, altro non fosse che il prodotto enfatizzato ed abilmente amplificato dell’egemonia di una ristretta e potente élite culturale. A questo punto, una maggioranza silenziosa, fino ad allora divisa ed incapace di svolgere le funzioni che le erano proprie, senza grandi mezzi a propria disposizione, riscoprì le ragioni dello stare insieme, di coalizzarsi contro un potente avversario, di fare massa critica, ed ha iniziato a rivendicare il proprio ruolo di élite culturale. Il che è avvenuto attraverso la denuncia da parte di riviste, think-tanks, case editrici di un’autentica cospirazione attuata dalla potente e chiassosa minoranza massmediatica, sedicente progressista e ostentatamente radical-chic. Quest’ultima, nel frattempo, mirava ad assurgere a nuova élite culturale, prendendo il posto delle agenzie culturali che fino ad allora avevano espresso il cosiddetto mainstream, le quali divise, stanche ed indebolite avevano di fatto finito per perdere posizioni strategiche nell’esercizio delle funzioni di guida che le erano proprie.

L’inganno che quelle riviste, quei think-tanks e quelle case editrici hanno inteso svelare – e che oggi appare definitivamente svelato – è che la rivendicazione laicista di una “nuda piazza pubblica”, poiché evidentemente sotto il profilo storico-esistenziale si mostra impossibile (non esiste il vuoto in natura), non era altro che un pretesto per sostituire i significati ed i valori fondanti l’esperienza americana: «we hold these truths», e che per questa ragione godevano legittimamente di piena cittadinanza presso la piazza pubblica, con altri valori ed altri significati creati e manipolati ad arte dalle nuove élite dello Stato moderno, con il chiaro intento di autodefinirsi come fonte e principio dei nuovi diritti di cittadinanza. Sia chiaro l’Italia è l’Italia, le nostre problematiche sono per certi versi più complesse. In merito ai valori e ai significati che una certa minoranza nostrana un po’ pretestuosamente intende imporre come la naturale logica del progresso, una sorta di esito necessario del deterministico processo storico post-risorgimentale, post-resistenza, post-sessantotto non è minimamente paragonabile alla controcultura statunitense.

Basti pensare che nel nostro paese, in un’unica proposta politica, si fondono istanze vetero e neo-comuniste, conservatrici e comunitaristiche che giungono a considerare qualsiasi tentativo di riforma costituzionale come un agguato neo-fascista nei confronti di quelle forze che a tutt’oggi comporrebbero una sorta di “arco costituzionale”, ed istanze libertarie che oscillano tra un pur nobile libertinismo e il più becero anarco-capitalismo e viceversa. D’altro canto, in molti si chiedono quali siano le matrici culturali che dovrebbero comporre l’eventuale alternativa politica al coacervo di cui sopra; ma a tale domanda si stenta a trovare una risposta convincente.

Questioni di merito a parte, resta un dato di fatto, che riguarda in primo luogo il metodo. Mi chiedo se oggi il centrodestra sia in grado di proporsi con una propria cultura politica, non dico omogenea, ma quanto meno con un sistema coerente di proposte tra loro comunicanti. Un insieme di principi, di idee, di prospettive politiche in grado di rappresentare un consistente mosaico che possa offrire un ventaglio di analisi politiche fruibili dalla classe dirigente. E già, la classe dirigente! E qui iniziano le dolenti note, il centrodestra può seriamente vantarsi di avere una classe dirigente che meriti un simile attributo? Oppure i suoi attivisti, simpatizzanti e protagonisti, nella migliore delle ipotesi, sono ottime persone, magari grandi professionisti ed imprenditori, prestati alla politica, che confondono la logica del loro mestiere con la logica della politica? Il sospetto è forte.

Il primo dovere che spetta a coloro che si candidano ad essere l’alternativa politica al centrosinistra per i prossimi anni è quello di comprendere se, in che misura e a quali condizioni possano proporsi effettivamente come classe dirigente. A questo punto, realizzato che, al di là delle buone intenzioni resta ben poco, appare evidente quanto sia necessario riflettere sulle strategie da attuare per concretizzare nel più breve tempo possibile una simile prospettiva – consapevoli che si tratta di un compito titanico che non potrà esaurirsi in una sola generazione. A voler sintetizzare, mi permetto, con umiltà ed in punta di piedi, di proporre tre iniziative che gli interessati potrebbero mettere immediatamente in campo:

1. Favorire la nascita di una rete diversificata di think-tanks, indipendenti dai partiti e dal denaro pubblico, finanziati da privati cittadini e da imprese, coerentemente orientati alla comprensione e alla diffusione della cultura del libero mercato ed in competizione l’uno con l’altro. I campi d’azione dovrebbero essere la politica, intesa come lo studio della plausibilità del complesso di public policies che si addicono ad un’economia di mercato avanzata; l’economia, intesa come lo studio dell’impatto che le diverse strategie di public policies possono avere sulla crescita economica; la cultura, intesa come la promozione e lo sviluppo di tutta una serie di istituzioni e di iniziative culturali che evidenzino la vitalità di una società basata sul principio di sussidiarietà orizzontale, il rispetto delle istituzioni e la centralità della persona umana.

2. Diverse sono le riviste che in un modo o nell’altro si riconoscono nell’area liberale-moderata. Forse è giunto il momento che queste riviste, libere dai condizionamenti di partito, cooperino in modo competitivo per offrire il miglior prodotto possibile, facendo ricorso alle risorse intellettuali più vivaci che il panorama nazionale ed internazionale è in grado di proporre.

3. Potenziare le case editrici che in questi anni, a volte in modo eroico e sempre a spese proprie, hanno diffuso i temi del libero mercato e le ragioni della società libera. Organizzare la presentazione di libri, recensirli sulle riviste e sui quotidiani e promuoverli con dei forum nei vari siti Internet che spontaneamente ogni giorno nascono.

Mi rendo perfettamente conto che si tratta di tre proposte modeste, che probabilmente non hanno nulla di originale, ma proprio perché non sono originali non si comprende perché mai, gli interessati – se autenticamente tali – non le abbiano ancora realizzate. I think-tanks, ad esempio, potrebbero diventare promotori di riviste e di case editrici, così come le riviste e le case editrici potrebbero promuovere una serie d’incontri, di seminari, di conferenze da concludersi con un seminario residenziale, dove ogni anno si andrebbero a formare circa trenta persone (più o meno giovani) selezionate secondo il merito, tenendo conto delle necessità e della distribuzione geografica, premiando con borse di studio i meritevoli bisognosi. Il materiale didattico diventerebbe un prezioso strumento formativo da divulgare ed approfondire in tutto il territorio nazionale, e nel giro di cinque anni si avrebbero almeno centocinquanta persone che si presume abbiano ricevuto gli strumenti minimi, se non per assurgere immediatamente al rango di classe dirigente, quanto meno per affrontare le fondamentali difficoltà di ordine teorico della vita politica. Sarà pure banale ed insufficiente, ma sbaglio o intorno c’è il deserto (o quasi)?

30 agosto 2006

* professore di Dottrine economiche e politiche alla Pontificia Università Lateranense di Roma e presidente vicario dell’Istituto Acton di Roma

 

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