Un progetto culturale per la Right Nation
di Andrea Mancia
da Ideazione di luglio-agosto 2006
Se n’è parlato e scritto tanto, prima e dopo la campagna elettorale,
dentro e fuori la “storia infinita” della discussione sul partito unico.
Eppure il tema resta straordinariamente attuale: quali sono le
iniziative di politica culturale (o di cultura politica?) che la
coalizione di centrodestra non può permettersi di non affrontare nei
prossimi mesi? Abbiamo chiesto a sei tra intellettuali e giornalisti
d’area di intervenire sull’argomento, identificando le priorità più
urgenti, per iniziare a mettere sul piatto una serie di obiettivi
concreti e realizzabili in grado di diventare la base per una
piattaforma di discussione operativa. Inutile dire che le idee proposte
sono molte, spesso suggestive e ancora più spesso condivisibili da chi
ha a cuore la sorte, non solo della Casa delle Libertà, ma di quella
variopinta galassia politica e culturale che si candida a diventare la
Right Nation del futuro. Ma andiamo con ordine (rigorosamente
alfabetico).
Angelo Crespi, il direttore del settimanale il Domenicale, sostiene da
tempo la necessità che il centrodestra abbracci una linea d’azione da
lui definita «gramscismo liberale», per «sacrificare la libertà nella
fase progettuale e nella scelta degli uomini perché essa sia poi
esaltata nei risultati». Questa applicazione – paradossale ma non troppo
– della teoria del potere elaborata da un pensatore comunista incontra,
nell’intervento di Crespi, la necessità da parte del centrodestra di
affrontare tre priorità concrete: la formazione, per invertire il segno
dell’egemonia culturale della sinistra; l’informazione, per ripensare e
razionalizzare le schegge di pluralismo che si oppongono al sistema dei
mainstream media; l’aggregazione, per permettere alle forze culturali
che si richiamano ai valori sostenuti dalla cdl di “fare rete” per
moltiplicare «l’incidenza sul reale del pensiero liberale».
Flavio Felice, presidente vicario dell’Istituto Acton di Roma, dopo aver
analizzato le cause del distacco di una parte dell’elettorato di
centrodestra dalle élite politiche e culturali che dovrebbero
rappresentarlo, affronta il problema facendo un parallelo con la
riscossa della destra statunitense iniziata nella metà degli anni
Sessanta. Dalla deriva della naked public square all’attacco contro la
libertà religiosa, dal secolarismo esasperato di Hollywood alla rivolta
contro l’egemonia delle élite liberal, Felice dipinge un quadro che – se
non può essere ricalcato nella sua interezza al di qua dell’Atlantico –
può però essere preso come modello per escogitare metodi di opposizione
ad una sinistra in cui riescono (per il momento) a convivere «istanze
vetero e neo-comuniste» e spinte profondamente conservatrici, come
quelle che si oppongono a qualsiasi tentativo di riforma costituzionale.
Anche per il presidente dell’Istituto Acton, le iniziative da «mettere
immediatamente in campo» sono tre: favorire la nascita di una rete di
think-tank indipendenti dai partiti e dal finanziamento pubblico (il
concetto del network torna ad emergere prepotentemente nella
discussione); iniziare una collaborazione (competitiva) tra le riviste
che si riconoscono nell’area liberale-moderata; potenziare le case
editrici che in questi anni hanno diffuso le ragioni del libero mercato
e della società libera.
Paola Liberace, direttore generale della Fondazione Ideazione (di fresca
nomina), dedica la prima parte del suo intervento ad una necessaria
distinzione metodologica tra i termini politica culturale e cultura
politica, sottolineando come il centrodestra, nella sua esperienza di
governo, abbia fallito soprattutto nel coltivare la seconda, rinunciando
troppo presto a «nutrire un sostrato condiviso» sul quale fosse
possibile innestare «un’azione politica destinata a portare frutti
persistenti». Eppure, senza un serio tentativo di diffondere cultura, le
proposte politiche restano mero esercizio di ricerca o gestione del
potere. La prima priorità, dunque, è quella di «individuare i
significati condivisi» che stanno dietro all’appartenenza e all’identità
politica, per farli entrare in circolazione nel dibattito pubblico.
Questa attività, compito di «quotidiani, riviste, fondazioni, case
editrici, associazioni, istituti, ma anche portali, siti web e blog»,
non è però sufficiente se chi fa cultura nel centrodestra non riesce
anche ad esercitare una funzione di mediazione tra “rivoluzione e
conservazione, tradizione e avanguardia”; se non riesce, insomma, a
modellare una concezione diversa di modernità, che guarda al futuro
senza dimenticare le proprie radici.
Dall’alto della sua esperienza a livello internazionale nel campo della
filosofia e della scienza politica, l’accademico dei Lincei Vittorio
Mathieu, presidente del comitato scientifico della Fondazione Ideazione,
invita invece le fondazioni culturali «classificabili (all’ingrosso)
come di centrodestra» a coordinarsi tra di loro e a specializzarsi,
dividendosi i compiti a seconda delle possibilità di ciascuno. La
specializzazione, secondo Mathieu, servirebbe anche a ridimensionare la
cronica carenza di finanziamenti di queste istituzioni e a raggiungere
l’autorevolezza necessaria per combattere ad armi pari la guerra
culturale in corso. Dopo aver discusso il ruolo fondamentale delle
«minoranze creative», infine, Mathieu affronta il problema delle
possibili forme di coordinamento tra le fondazioni, per abbracciare
senza riserve la forma del network orizzontale, poco pianificato e molto
spontaneo, in contrapposizione ad un’ipotesi più verticistica ed
obsoleta.
Per Giovanni Orsina, docente di Storia contemporanea, direttore
scientifico della Fondazione Einaudi e componente del board della
Fondazione Magna Carta, la debolezza culturale del centrodestra non
dipende dalla mancanza di idee, ma dallo scarso spessore della sua
classe dirigente. Si tratta, dunque, di difficoltà politiche (e
«soprattutto sociologiche»), più che culturali. In sintesi: «le idee ci
sono e funzionano», ma «i consiglieri del principe sono pochi, hanno
poche risorse e sono largamente inascoltati». Eppure, dopo l’11
settembre, il centrodestra è riuscito ad elaborare un profilo ideologico
abbastanza omogeneo, riequilibrando il contributo delle sue due anime
principali, quella liberale-anglosassone e quella
conservatrice-nazionale. A mancare, piuttosto, sono la «potenza di fuoco
culturale» e un «ceto politico capace di utilizzarla». Secondo Orsina,
questa “potenza di fuoco” è indispensabile per la formazione di una rete
culturale solida e di una classe dirigente all’altezza della situazione,
soprattutto a livello locale. Giornali come Il Foglio e iniziative come
la Summer School organizzata da Magna Carta per il prossimo settembre
sono un ottimo inizio, ma soltanto un inizio. A scendere in campo, prima
che sia troppo tardi, deve essere «una volontà politica dotata di
risorse politiche».
A concludere questa sezione di Ideazione dedicata alla politica
culturale del centrodestra è il vicedirettore de il Giornale, Mario
Sechi, con un intervento che invitiamo a leggere con estrema attenzione.
Sechi non fa «alcun appello alla volontà del Palazzo», anzi invita tutti
noi a «ricambiare con una consapevole e fiera indifferenza all’ignorante
indifferenza del centrodestra e dei suoi leader». Questa reciproca
indifferenza, però, non è certo una scusa per abbandonare il tentativo
di rovesciare l’egemonia culturale che narcotizza l’Italia. E la prima
strada identificata da Sechi per ribaltare la situazione è Internet, con
le sue potenzialità di impatto sul sistema dei tradizionali mezzi di
informazione. La prima priorità di politica culturale del centrodestra,
dunque, dovrebbe essere quella di «liberalizzare il mercato delle
telecomunicazioni, smantellare gli oligopoli del cavo, introdurre la
cultura digitale nelle scuole e nelle università». Dopo questa
appassionata presa di posizione in favore della rivoluzione digitale,
Sechi passa ad occuparsi di tre old media (ma neppure troppo) su cui il
centrodestra dovrebbe concentrare attenzione e risorse: la radio, la
televisione e il cinema.
Concludiamo qui questo breve giro di orizzonte. Non rubiamo ai lettori
il gusto di scoprire nel dettaglio i sentieri tracciati dai nostri
ospiti per uscire da quell’intricata foresta di inferiorità culturale in
cui, soprattutto per colpa nostra, ci siamo cacciati. Ci preme soltanto
sottolineare, sulla scia di Mario Sechi, come i problemi di cultura
politica del centrodestra non possano essere circoscritti alla
cosiddetta “cultura alta”. Perché è proprio sul terreno della cultura
popolare – particolarmente influente nello sviluppo dell’identità
politica delle nuove generazioni – che la nostra area di riferimento è
del tutto, tragicamente, assente. Ci sarà modo e tempo per affrontare
più compiutamente la questione, ma approfittiamo di questo spazio per
ricordare a tutti gli operatori culturali (e a quel manipolo di
esponenti della classe politica interessati all’argomento) che a volte,
tra le pieghe virtuali di un aggregatore di blog come TocqueVille.it,
tra i fotogrammi di un documentario politico o di un “cartoon per
adulti” come South Park, tra le onde analogiche o digitali di una radio
amatoriale, scorre più cultura politica che tra gli scaffali polverosi
di una biblioteca. E' arrivato il momento di rendersene conto.
30 agoato 2006
|