Milano e la destra, un contratto da riscrivere
di Vittorio Macioce
da Ideazione di luglio-agosto 2006

No, non sembra una roccaforte. È una città che va in pianura, le strade sono raggi di cerchi concentrici, mirano verso il centro. Sotto la cappa del cielo fa caldo in questi mesi. La mattina ci sono questi tipi in camicia e cravatta, la giacca sul manubrio, che pedalano e sudano tra i binari del tram e le lastre di pavé. Vanno al lavoro, correndo contro il tempo, come le mamme con i bimbi incastrati sul sellino posteriore, con la pedalata del passista che ripete la sua cronometro quotidiana, sprintando ai semafori, in una gara che più che con gli altri è con se stessi. Dicono che Milano sia la roccaforte della destra, l’anima del Nord e del berlusconismo. Dicono che quando anche Milano cadrà, l’avventura politica dell’uomo che ha “cambiato” l’Italia sarà solo il ricordo di una stagione. È qui, riflettono tra loro, che è morto l’altro. Piazzale Loreto è un brutto posto, una piazza con un buco nero al centro, dove qualcosa è accaduto, ma non c’è nulla da ricordare: lui con la divisa troppo larga e la pelata a testa in giù, lei con la gonna che le copre la testa e le scopre le gambe e gli altri come comparse macabre nel retrobottega del macellaio. Forse è vero che se parli di roccaforte ti viene in mente Piazzale Loreto. Ma questo capita se non conosci Milano. Milano non è mai stata dell’uomo nero e non è mai stata berlusconiana. Non è mai stata neppure di Craxi. Milano veniva prima. Prima delle fabbriche e di Bava Beccaris. Prima che il Novecento decidesse di mettersi qui a pensare la modernità.

Milano è oggi, qui, a destra, perché sulla sua carta d’identità c’è lo statuto che rese liberi i comuni medioevali, quelle porte aperte a chiunque abbia un mestiere e voglia di fare. Milano è oggi, qui, a destra perché nel suo cuore c’è una punta di anarchia, che resta lì a ricordare a tutti che lo Stato è comunque figlio del Leviatano. È una anarchia senza disordine, fatta di autodisciplina, di un legame con la tradizione che ti aiuta a distinguere l’umano dal post-umano, da quel modo di compiacersi che hanno i milanesi di mettere lì qualche parola in dialetto, una di quelle espressioni che li fa sentire radicati a qualcosa, ma senza esagerare, senza arrivare a quelle manifestazioni d’orgoglio campanilistico che fa credere ai romani, ai toscani, napoletani o siciliani di essere lingua e non dialetto. Milano è un grigio che t’inganna. La sua bellezza sta tutta dentro, privata, personale, nascosta. Sta nei cortili dei palazzi quando i portoni restano aperti quasi per caso, per una sbadataggine e lasciano apparire, quasi si fosse aperto all’improvviso un varco spazio-temporale, incanti di altri tempi e altri emisferi, angoli di orizzonte lussureggianti, antiche architetture, chiostri di una pace spirituale perduta, cieli rubati tra quelle mura di un azzurro mai visto all’esterno, nella città.

Il bello di Milano sta tutto dentro. Devi entrare dentro per vedere il Cenacolo di Leonardo. Stessa cosa per il Cristo Morto del Mantegna. Anche La Scala da fuori sembra poco più di un teatro parrocchiale. L’arte di Milano è circondata da mura. C’è qui quasi un pudore a parlare troppo di arte, di creatività, di talento, come se fossero tesori dietro l’angolo, al negozio di fronte, alla Esselunga o all’Ikea. Sono beni preziosi e rari e non è il caso d’inflazionarli con facili imitazioni. L’Occidente alternativo qui non funziona, neppure se passeggia per Brera o lungo i Navigli. Non basta svegliarsi a mezzogiorno per essere un genio. Non basta indossare una kefia o sventolare una bandiera arcobaleno per sapere il significato della parola pace.

Anche Milano sogna un avvenire diverso e in certi giorni si guarda allo specchio e si sente Bevagna, una piccola e remota città d’arte, sonnacchiosa, dai ritmi lenti, immersa in un altro medioevo, rifugio ideale di tutte le passioni ambientaliste, post-moderniste, veltroniane, neo-girotondiste. Una passione che dura due giorni, un salto da Roma per il week-end, magnifico qui, senti che pace, guarda il tempo perduto, guarda le pietre, guarda i viottoli, senza un discount, un centro commerciale, un multisala, senza parabole, traffico, plebe, folla, periferia. E poi si torna a casa, convinti di aver toccato l’altro Occidente. Orgogliosi di una passione da una botta e via. Milano vorrebbe essere Bevagna, ma non può permetterselo. Sarebbe solo una truffa, da mostrare a sé e agli altri come ricetta contro tutti i mali. E se ancora non l’avete capito è per questo che questa città, metropoli mignon, Milano, resta disillusa, guardandosi intorno dall’una e dall’altra parte, la roccaforte della destra. Milano, crocefissa dalle tangenti, non sa barare.

La libertà degli antichi e dei moderni


La distinzione di Benjamin Constant la conosciamo. Ma quando si parla di politica quotidiana finiamo per considerarla solo una vecchia massima. Ed è un peccato. I due modelli culturali di libertà sono ancora lì a dividere gli uni dagli altri. Il modo di risolvere alcune questioni risente di questo approccio. È il destino dell’Italia che vogliamo che torna in gioco. La libertà degli antichi è il diritto a partecipare alla vita pubblica, ma si porta con sé anche uno Stato che decide, nel bene o nel male, la sorte del singolo individuo. L’idea che lo Stato siamo noi dovrebbe responsabilizzare il cittadino, ma il più delle volte serve solo a giustificare un “furto” nei confronti del cittadino o a spingere costui a pretendere che lo Stato lo assista. La libertà dei moderni è, invece, il diritto a non subire interferenze da parte della pubblica autorità nella vita privata. Tu occupati del tuo che al mio ci penso io. Libertà nello Stato nel primo caso. Libertà dallo Stato nel secondo. Il testo di Constant fu quasi un manifesto del liberalismo. Milano tende a riflettersi nella seconda opzione. Chi la governa deve fare i conti con questo carattere. Non è una città che ama farsi toccare. Non sopporta le intrusioni. Se qualcuno gli chiede un sacrificio deve poi dimostrare che ne valeva la pena. Non è solo il mito della città laboriosa, che lavora, lavora, e si mette i soldi in tasca e guai a chi glieli tocca. È una questione diversa. È la difficoltà a pensare che il tuo destino possa essere nelle mani degli altri. In questo Milano si sente davvero la capitale del Nord, la parte più ruvida della questione settentrionale in fondo è tutta qui. È dubitare che qualcosa di grande e indefinito possa sedersi in tavola a casa tua e decidere il menù.

Ma se questa è la parte più rozza del problema Nord, c’è poi il timore per l’occasione perduta. C’è la paura di restare tagliati fuori dal mondo che conta perché i governanti non garantiscono né stabilità né coraggio. C’è qualcosa che davvero questa città non si sa perdonare: ed è l’immobilismo. Se Berlusconi qui è riuscito a vincere è perché, malgrado tutto, ancora assicura l’azione, la fiducia, l’ottimismo. Il non rassegnarsi alla malattia. È una questione magari solo psicologica, ma è più rassicurante dell’indicare i mali, qualche volta lasciando credere che il male sia un solo, unico, grande male, senza indicare una soluzione. E forse ha ragione Luca Doninelli quando, nel Crollo delle aspettative (Garzanti, pagg. 180, euro 11), racconta alcuni tratti caratteriali della milanesità: «È più facile, qui da noi, perdonare chi ha giocato sporco in un gioco di potere, chi si è dimostrato facile alla corruzione, perché da noi si sa che il potere non è tutto, che la visibilità non è tutto, si sa che la corruzione non definisce la persona. Impiccarli sì, magari: ma ai rami degli alberi, non al nostro giudizio. Noi fatichiamo di più a perdonare chi non lavora, chi abbandona l’impresa a metà, chi non sta al proprio posto, chi lascia. Fatichiamo a perdonare l’uomo malato che si getta nella disperazione a causa della propria malattia, l’uomo infermo che commisera la propria infermità, l’uomo sfortunato che dice “poverino” a se stesso. Il milanese detesta i ladri e gli imbroglioni, però meglio ladri e imbroglioni che poverini, meglio farabutti che rassegnati. Noi siamo, come dice sempre un amico, gli eroi del lunedì, gli eroi della settimana che ricomincia, gli eroi dell’alzarsi presto, del fare quel che ci tocca, bello o brutto che sia. L’uomo lombardo esercita questa virtù. Il milanese, oltre che esercitarla, può insegnarla al mondo».

Milano si è vergognata per Tangentopoli, ma sapeva che lì, come è successo nel calcio, il mondo si era dato regole non scritte che tutti fingevano di ignorare. Il marcio c’era e lo sapevano tutti. Puliamo, ma senza gridolini di sorpresa e indignazione. Berlusconi, per Milano, è un caso diverso. La campagna giustizialista contro di lui non funziona. Non funziona perché dopo anni e anni di setaccio non è emerso nulla di davvero convincente. Il conflitto d’interessi non interessa nessuno. Gli scandali finanziari non l’hanno toccato. E alla fine ad essere toccati dai dubbi, e mostrare qualche imbarazzo cooperativo, sono stati più gli altri. Contro Berlusconi sono rimaste solo le parole e le parole, qui, non bastano. Non basta neppure a gran parte del Nord. Non è un caso che Cacciari abbia invitato i suoi colleghi di schieramento a non impostare la campagna elettorale sull’anti-berlusconismo e sull’ossessione giudiziaria. Un problema della sinistra, anche dopo la vittoria dei seggi, resta la difficoltà di definire un progetto politico che vada al di là della questione Berlusconi.

Come difendere la roccaforte


Milano, però, si può anche perdere. La destra non ci pensa abbastanza. Non se ne preoccupa. Berlusconi, da solo, non basta. Milano si perde se non riconosce il proprio futuro. È una città che per definire la propria identità ha bisogno di guardare avanti. E in questo è davvero l’antitesi a Roma. Milano è la città dove tutto comincia. È qui che la nostra storia trova le sue risposte. È qui che l’illuminismo che arrivava da oltralpe ha trovato casa. È qui che le idee del Risorgimento si sono incontrate. È qui che il movimento operaio si è dato appuntamento. È qui che ci si è interrogati sull’ingresso delle masse nella società e nella politica. È qui che il fascismo è stato battezzato. Qui è scoppiato il ’68. Qui si sono incontrati Curcio e Moretti. Qui il potere giudiziario ha cancellato la prima repubblica. Milano ha bisogno di resistere, morire e rinascere. Ha bisogno di produrre cultura. È il suo destino. È qui che la destra, se vuole avere un futuro, deve riflettere su ciò che è. Qui deve scegliere se stare con la libertà dei moderni o con quella degli antichi e, quindi, definire senza resistenze stataliste quelle riforme economiche che non ha potuto o saputo fare durante i cinque anni di governo.

Questo significa che an e udc hanno bisogno di un bagno di milanesità. È qui che bisogna fare i conti con l’era del lavoro precario, che non è un regalo da offrire alle imprese, ma una rivoluzione esistenziale. Non si può andare avanti con due repubbliche del lavoro, da una parte chi è ipergarantito, dall’altra chi è abbandonato a se stesso. Forse bisogna rendersi conto che chi sceglie il rischio ha diritto ha un maggiore profitto salariale e chi sceglie la sicurezza, la garanzia del contratto a tempo indeterminato, paga qualcosa in termini economici. È qui che la cultura liberale e quella cristiana, i due pilastri dell’Occidente, devono siglare un patto nel nome di un “neo-umanesimo”. È qui che la destra deve tagliare i ponti con il notabilato di provincia dei vecchi democristiani, rinunciare ai suoi abiti aziendalisti, mettere da parte quei volti da notaio o da commercialista, che sembrano fotografie in bianco e nero di una classe media in putrefazione, e cominciare a non aver più paura della parola intellettuale.

«La Milano dei nostri giorni – scrive ancora Doninelli – ha forti dubbi sulla possibilità di tornare in carreggiata. Sente che la storia ha preso altre vie, alle quali dovrà adattarsi con ristoranti, boutiques, moda, shopping, locali gay, bisex, trisex, ice bar, e allora fa quello che ha sempre fatto. Lavora. Si adatta a diventare una città del consumo, una città dove il denaro viene speso, dove la ricchezza arriva per fermarsi. Ma non è protagonista. Ci vuole l’insurrezione. Perché Milano è protagonista nell’insorgere, nell’insurrezione: “Dagli atri muscosi, dai fori cadenti…”». La destra, per conservare la propria roccaforte, deve farla insorgere.

13 luglio 2006

 

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