Lo scientismo è un relativismo
di Giorgio Israel
da Ideazione di gennaio-febbraio 2006
Dilaga un dibattito che poggia su un’antinomia senza il minimo
fondamento. Ai critici del relativismo si obietta che il relativismo è
una visione inconfutabile in quanto poggia su una constatazione ovvia:
su ogni questione esistono almeno due opinioni diverse. Come se la
negazione del relativismo fosse la tesi che su ogni questione o fatto è
possibile formulare una ed una sola asserzione, la quale ne esprime la
verità, l’unica verità. Insomma, poiché non c’è cosa su cui non sia
possibile emettere opinioni diverse, il relativismo è indiscutibile
verità: un bell’ossimoro davvero…
Ci sarebbe da ridere se una semplificazione del genere non fosse il
segno della miseria culturale dei tempi, in cui non si esita a
squagliare secoli di riflessioni in chiacchiere da bar Sport. Persino
nell’ambito religioso, persino nelle religioni basate sulla rivelazione,
e per quanto dogmatiche esse siano, serpeggia l’idea che la parola
divina (rivelata) non si identifichi con la sua esteriorità testuale, ma
vada intesa, capita, interpretata, approfondita, in un percorso infinito
che è parte costitutiva dell’esperienza religiosa. Nell’ebraismo, che
pure è religione rivelata, l’esegesi del testo sacro – che essa sia
rivolta a scopi legalistici, ovvero per estrarre dal testo le norme di
comportamento quotidiano, o che sia dettata dal fine mistico di
avvicinamento alla presenza divina – è un percorso interminato e
interminabile verso la verità. E perché mai? Per un antico, antichissimo
problema che era chiaro ai metafisici e ai filosofi di un tempo e ora si
è disperso nelle nebbie del pensiero sofistico contemporaneo. Si tratta
del problema del rapporto tra finito e infinito, del rapporto tra mente
umana finita e trascendenza.
L’uomo è capace di pensare l’infinito, ma può aderirvi immediatamente?
In altri termini, come può l’uomo attingere direttamente all’assoluto,
alla verità assoluta, all’infinito, ricomprenderlo totalmente ed
esaustivamente nella propria mente limitata, finita, fallibile e
imperfetta? L’unica risposta affermativa a tale domanda è data, nel
contesto religioso, dall’idea di rivelazione, dall’adesione all’assoluto
attraverso un evento di illuminazione, per lo più nel contesto di
un’esperienza mistica. Ma, come si è detto, persino nel contesto
religioso l’adesione alla trascendenza, alla verità assoluta, è vista
come un processo, difficile e complesso, in cui interviene una
molteplicità di fattori razionali e intuitivi, in cui intervengono la
preghiera, la riflessione, le pratiche di vita, eccetera. Del resto,
come potrebbe essere altrimenti, se è proprio il pensiero religioso ad
avere introdotto l’idea della trascendenza divina, cioè di una barriera
che separa Dio dall’uomo, l’infinito dal finito, il perfetto
dall’imperfetto, la verità dalla conoscenza parziale; e ad aver quindi
avanzato l’idea di un avvicinamento progressivo al vero?
È una visione che dalla teologia è trapassata nel pensiero razionale ed
ha avuto un ruolo fondante ella conoscenza scientifica moderna; e che si
è manifestata nell’idea che il mondo è stato strutturato da Dio sul
fondamento di leggi assolute e immutabili (le leggi naturali) alla cui
acquisizione mira la conoscenza umana, attraverso un processo di
avvicinamento incessante e interminabile. Tale idea è il fulcro del
pensiero di uno dei fondatori della gnoseologia scientifica moderna,
Nicola Cusano. Egli paragona il rapporto che intercorre tra la verità
assoluta e il pensiero umano a quello tra un cerchio e un poligono
inscritto che gli si approssima indefinitamente: sempre più vicino al
cerchio e tuttavia mai confuso con esso. Come ebbe a osservare Ernst
Cassirer, lo iato ineliminabile e insuperabile fra pensiero umano e
verità assoluta – fra poligono e cerchio – è essenziale: perché soltanto
l’esistenza di una verità assoluta, mai completamente raggiungibile,
conferisce senso e direzione al processo illimitato della conoscenza.
Viceversa, se l’assoluto, la verità assoluta, fosse integralmente e
immediatamente acquisibile dalla mente umana, essa parteciperebbe della
finitezza e imperfezione di quest’ultima, e non vi sarebbe più verità
oggettiva. Così, la conoscenza è un processo illimitato di acquisizione
di verità parziali e provvisorie, imperfette e sostituibili, ma nel
quadro di una tendenza al perfezionamento. Quel che conta, per
l’appunto, è che il processo sia progressivo, sia un progresso della
conoscenza, anche se questo non significa affatto che esso abbia
carattere lineare, e non esclude il succedersi di avanzamenti e di
arretramenti.
L’affermazione della perseguibilità di una conoscenza oggettiva (basata
sull’esistenza di una verità) non è quindi affatto in contraddizione con
la molteplicità delle opinioni, dei punti di vista e delle teorie. Al
contrario. Quel che conta è che esista un processo di acquisizione della
conoscenza sia pure altalenante ma complessivamente teso verso il
progresso, verso un avanzamento. Ci vorrebbe troppo spazio per
documentare come la scienza classica sia tutta fondata su questa visione
gnoseologica di cui – ad esempio – troviamo un’espressione esemplare nel
celebre “manifesto” del determinismo di Pierre Simon Laplace. Tale
visione è stata illustrata con chiarezza da un grande
matematico-filosofo italiano, Federigo Enriques.
Cosa ha a che fare il confrontarsi di opinioni e teorie diverse con il
relativismo? Nulla, ovviamente. Il relativismo – se le parole hanno un
senso – predica l’assoluta equivalenza e pari dignità di tutte le
opinioni, l’indecidibilità fra tutti gli asserti possibili circa un
insieme di fatti. Se si vuole trovare un esempio recente di una visione
relativista della scienza, esso è dato dalle dottrine della
microsociologia postmoderna che sostengono come dietro le teorie
scientifiche non sia presente alcun contenuto conoscitivo bensì si
nascondano soltanto motivazioni strutturali: economiche, politiche,
sociali. Si tratta, con tutta evidenza, della riproposizione di una
visione marxista, in forma “debole”: è il marxismo della postmodernità.
Secondo queste dottrine (si pensi alle idee di David Bloor), il
confronto tra differenti teorie non si risolve sul piano conoscitivo,
bensì soltanto sul piano del conflitto di potere e della prevalenza del
gruppo dominante.
Fin qui si tratta di elucubrazioni di scarso valore e di forte
suggestione politica, e che hanno poco a che fare con la realtà
dell’impresa scientifica. Elucubrazioni tanto artificiose e mediocri che
da esse prese le distanze una decina di anni fa anche il fondatore della
sociologia della scienza moderna, Thomas Kuhn, affermando: «Non sono
relativista, perché non credo che tutte le conclusioni siano
equivalenti. Penso che sia sempre possibile pervenire, su basi
obiettive, a una conclusione preferibile ad altre». E Kuhn aggiungeva
con humour e amarezza: «È più che mai necessario interrogarsi sulla
natura della conoscenza e della razionalità o riflettere sulla nozione
di significato. […] Sfortunatamente, la filosofia e le scienze umane in
generale non sono più percepite oggi come qualcosa che può giocare un
ruolo centrale nell’educazione dell’uomo. Si tratta di una conseguenza
della democratizzazione dell’insegnamento, cioè di una tendenza che allo
stesso tempo approvo e deploro».
È altresì innegabile che il germe del relativismo sia recentemente
entrato direttamente nel contesto scientifico attraverso una visione di
tipo modellistico delle teorie, che le valuta esclusivamente sul piano
dell’efficacia e non su quello dell’aderenza ai fatti. Ma è altrettanto
evidente che l’ingresso di queste visioni, lungi dall’essere un fenomeno
neutrale, ha aperto una crepa di proporzioni drammatiche all’interno
delle scienza stessa, perché ne ha messo in discussione in modo
surrettizio un caposaldo: difatti, nessuna impresa conoscitiva ha posto
al centro delle sue ambizioni l’acquisizione della verità quanto la
scienza, e la scienza ha menato sempre vanto di esser capace di
acquisizioni il cui fondamento ha una solidità che nessun’altra forma di
conoscenza è capace di garantire. Altro che relativismo.
Non è un caso che proprio attorno all’impresa scientifica si sia venuta
costituendo una filosofia che ha portato all’estremo limite la
propensione alla ricerca della verità che è caratteristica della
scienza, predicando il carattere di verità assolute e indiscutibili
delle teorie scientifiche; e che ha affermato la superiorità delle
scienze “esatte” sulle altre forme di conoscenza, cui resterebbe
soltanto l’alternativa di assoggettarsi al metodo delle prime o
accettare di sopravvivere nel proprio ghetto di inferiorità. Questa
filosofia è il positivismo.
Il quale, dimenticando il senso profondo del discorso di Cusano, ha
aperto proprio la strada alla confusione tra verità e opinioni mutevoli,
e quindi al relativismo. Ciò può apparire strano, ma si tratta di un
paradosso soltanto a prima vista: l’assolutismo più radicale è soltanto
l’altra faccia del relativismo. Lo ha spiegato chiaramente tanto tempo
fa Aristotele nella sua confutazione dei relativisti del tempo:«Essi,
osservando che tutta quanta la natura è in movimento e che non è
possibile dire alcuna verità su ciò che cambia, sostennero che non si
può dire la verità su tutto quello che per ogni dove e per ogni guisa
attua il cambiamento. Da questa considerazione germogliò l’opinione che
tra quelle da noi esaminate è la più estremistica, quella, cioè, di
quanti si professano seguaci di Eraclito, opinione che è stata sostenuta
da quel Cratilo, il quale finì col credere che non si dovesse proferire
neppure una parola, e soleva fare soltanto movimenti col dito e
rimproverava ad Eraclito di aver detto che non si può scendere due volte
nello stesso fiume, giacché la sua opinione personale era che non vi si
potesse scendere neppure una volta! […]
Comunque, tanto tra quelli che sostengono con convinzione le teorie da
noi criticate, quanto tra quelli che le professano solo per trovare,
mediante queste, argomenti di disputa, vi sono alcuni che sollevano le
seguenti difficoltà, domandandosi, ad esempio, quale persona possa
giudicare sulla buona salute di un uomo e, in generale, chi possa dare
un corretto giudizio su ciascuna cosa. Ma porre questioni di tal genere
equivale a chiedersi se in questo istante noi stiamo dormendo o siamo
desti, e le aporie siffatte hanno tutte quante il medesimo punto di
partenza, giacché quelli che le pongono ritengono che si possa dare una
spiegazione razionale di tutte le cose».
Di simili medaglie a doppia faccia abbondano gli esempi. Scientismo e
relativismo sono stretti sodali. Del resto, è ben noto come il
relativismo etico e morale sia un figlio diretto del positivismo e del
neo-positivismo. E, nel concreto della nostra realtà attuale, non
vediamo pullulare attorno a noi persone che difendono “religiosamente”
il valore assoluto della scienza – un altare di fronte al quale invitano
il comune mortale ad inchinarsi – e, al contempo, il più radicale
relativismo etico? E che, mentre esibiscono il più accanito bigottismo
scientista, accusano accesamente di fanatismo i critici del relativismo?
È da notare come il relativismo etico si accompagni sistematicamente al
relativismo multietnico e multiculturalista, che concepisce la società
come un mosaico di identità indipendenti, di entità comunitarie, monadi
senza porte e senza finestre, che non si parlano, in omaggio al rispetto
assoluto che sarebbe dovuto alla loro diversità. Un portatore soggettivo
di tale visione è, ad esempio, il cosiddetto cattocomunismo, in cui una
professione di fede bigotta si coniuga senza problemi con un fanatico
pregiudizio positivo per il diverso, così positivo da trasformare quella
fede bigotta in odio di sé – in concreto, odio dell’Occidente. Quel che
i relativisti (etici, multietnici, multiculturalisti) non vedono è che
il rispetto del diverso nasce dal confronto, mentre il rifiuto del
confronto genera soltanto negazione e, in definitiva, il disprezzo e
persino l’odio.
Il confronto non può che avvenire tra posizioni che reputano di essere
nel giusto e di essere più vicine al vero delle altre, e che affermano
le loro convinzioni senza iattanza e prepotenza, e tuttavia mirando ad
affermarle, perché credono all’idea del perfezionamento. Senza di che
continueremo a procedere sulla via già vista chiaramente da Claude
Lévi-Strauss cinquant’anni fa quando paventava l’accumularsi «di
tensioni tali far sembrare poca cosa gli odî razziali rispetto al regime
di intolleranza esacerbata che rischia di instaurarsi domani». Questo
domani è già l’oggi nelle società che hanno fatto ricorso a sgangherati
modelli di relativismo multiculturale e multietnico. Concludiamo
osservando che l’idea di perfezionamento – di un processo concreto,
realistico, umano – è il contrario esatto del cinismo morale assoluto
(“lasciamo stare le cose come sono tanto non può cambiare mai nulla
perché nulla ha senso”) o dell’idea rivoluzionaria della palingenesi
globale del mondo corrotto: entrambi figli dello scientismo e del
relativismo, e genitori dell’intolleranza.
03 luglio 2006
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