Iraq: legittimità e successo della missione italiana
di Mauro Gilli e Daniele Sfregola
da Ideazione di maggio-giugno 2006

Dalla fine della guerra in Iraq sono passati tre anni, durante i quali, nel nostro paese, sono state spese tante, troppe parole. La conclusione annunciata dell’impegno italiano, ora, permette un’analisi a posteriori e un bilancio politico – successo o fallimento? – che vede coinvolto l’operato del governo Berlusconi nella crisi internazionale più importante della legislatura scorsa. In questa sede si analizzerà la missione Antica Babilonia nel suo insieme, in ragione della sua prossima fine. In particolare si tenterà di confutare alcuni “miti” – come, ad esempio, la convinzione assai diffusa del mancato rispetto dell’articolo 11 della nostra Costituzione o del diritto internazionale da parte del nostro governo – e di spiegare i motivi per i quali ritenere opportuno un accordo tendenzialmente bipartisan tra le forze di maggioranza e di opposizione sulla fine della missione in Iraq. Infine, considereremo il contributo dato dal nostro contingente alla ricostruzione post-bellica e come esso abbia permesso al nostro paese di acquistare credibilità internazionale.

Il governo italiano, nel corso dello scorso anno, ha prefigurato più volte un ritiro del nostro contingente militare di stanza in Iraq1 e, tra l’agosto del 2005 ed il gennaio del 2006, ha proceduto al rientro in Italia di un totale di 600 soldati, riducendo così a 2.600 il numero degli effettivi in territorio iracheno. Lo scorso 19 gennaio, il ministro della Difesa Antonio Martino ha dichiarato che entro la fine del 2006 l’operazione Antica Babilonia verrà portata a termine, e che entro maggio 1.000 soldati italiani rientreranno nel nostro paese. A posteriori, questa pianificazione può essere spiegata, almeno in parte, con motivi elettorali: inevitabilmente, le richieste di un ritiro immediato dei militari italiani da parte dell’opposizione di centrosinistra si sarebbero intensificate. Il governo in tal modo ha voluto agire per tempo, così da non subire l’iniziativa avversaria e depotenziare un probabile “cavallo di battaglia” elettorale nelle Politiche dello scorso aprile della coalizione guidata da Romano Prodi.

Era infatti fondato presumere che la campagna elettorale sarebbe potuta facilmente diventare il campo di uno sterile j’accuse, ormai vecchio di tre anni, sulla guerra, sulle sue ragioni, sull’intervento italiano e sul (presunto) mancato rispetto del diritto internazionale da parte del governo. Dall’altra parte, per spiegare il graduale ritiro del contingente italiano, è necessario considerare anche il progressivo esaurimento della nostra stessa missione, man mano che i vari obiettivi di ricostruzione e pacificazione sono stati raggiunti nell’area geografica di nostra competenza. Poiché la questione irachena costituisce inevitabilmente materia di dibattito, sarebbe opportuno evitare da subito ogni diatriba impropria su chi avesse ragione e chi avesse torto al tempo della guerra, e ancora peggio ogni speculazione sui militari italiani impegnati in un territorio nel quale rischi e pericoli di certo non mancano. Una riflessione scevra da partigianerie e focalizzata sul ruolo del nostro paese e sulla fine della nostra missione in Iraq servirebbe a rimarcare un passaggio da più parti auspicato e quasi mai concretamente accolto dal centrosinistra: una gestione politica concordata dei mesi che restano, prima della conclusione della missione, ovvero una politica irachena in chiave bipartisan, ora che i termini sono noti e la controversia internazionale che caratterizzò tutto il 2003 – e che ebbe ripercussioni violente nel dibattito politico nazionale – non ha più ragion d’essere. Per questo motivo ci si augura che le forze politiche di entrambi gli schieramenti si accordino per portare a termine con successo la transizione.

Prima di affrontare propriamente l’aspetto del ritiro, è opportuno considerare la natura della nostra missione, anche per respingere le accuse pretestuose all’azione del governo Berlusconi – sul versante giuridico-istituzionale e su quello internazionale – che hanno trovato larghi consensi in Italia, annoverando finanche illustri opinionisti e generando un preoccupante fenomeno di disinformazione.

Antica Babilonia: il quadro normativo

Conviene analizzare, innanzitutto, il quadro normativo interno ed internazionale che attiene alla missione Antica Babilonia. A poco meno di tre anni dall’avvio della stessa e a pochissimi mesi dalla sua conclusione, infatti, c’è più di una forza politica che continua a sostenere l’illegittimità internazionale di una siffatta operazione e, addirittura, la violazione della Costituzione da parte del governo che l’ha varata. Dopo un’analisi attenta, in realtà, risulterà fuori discussione la piena conformità della condotta del governo italiano sia al diritto internazionale che al dettato costituzionale.

All’indomani della presa di Baghdad da parte delle forze armate americane (9 aprile 2003), il governo Berlusconi presentò tempestivamente al Parlamento il primo progetto di intervento italiano in Iraq. Con le comunicazioni alla Camera e al Senato del 15 aprile 2003, l’allora ministro degli Esteri Frattini rese nota la volontà dell’Esecutivo di intraprendere una missione «multidimensionale» avente l’obiettivo di «assicurare i necessari aiuti umanitari» e «realizzare quelle opere urgenti di ripristino infrastrutturale e quei servizi indispensabili a garantire le migliori condizioni di vita quotidiana» per la popolazione irachena. Seguì ampio dibattito, in cui le forze della sinistra radicale attaccarono pesantemente il progetto governativo, tacciandolo di coprire cinicamente gli interessi dell’industria nazionale, mentre DS e Margherita in parte si astennero, in parte bocciarono la missione – seppur con alcuni, isolati distinguo – ritenendo che progetti di siffatta importanza dovessero essere sviluppati dall’ONU. Le risoluzioni di sostegno alla proposta furono approvate a larga maggioranza.

Questi atti di indirizzo parlamentare costituiscono l’autorizzazione interna necessaria all’avvio di Antica Babilonia, anche dal punto di vista strettamente militare. La successiva pianificazione logistico-militare del ministero della Difesa infatti tenne obbligatoriamente conto dei limiti politici all’azione italiana in territorio iracheno, sanciti da queste statuizioni conformemente alle indicazioni del ministro Frattini. Per poter avere un seguito giuridicamente ammissibile, la missione necessitava di due ulteriori passaggi. Anzitutto, la dichiarazione ufficiale di cessazione delle ostilità militari, la quale arrivò il primo maggio 2003, per bocca del presidente americano George W. Bush, in qualità di capo di Stato del paese belligerante risultato vittorioso. In seconda battuta, una risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU che legittimasse, dal punto di vista internazionale, i propositi italiani di partecipazione al processo di post conflict peace building.

La volontà italiana di contribuire alla soluzione dell’emergenza umanitaria irachena e alla sicurezza e alla ricostruzione del paese, quindi, trovò una base giuridica fondamentale nella Risoluzione 1483 del 22 maggio 2003. Questa, approvata all’unanimità6 e sotto le disposizioni del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite,7 si appellava a tutti gli Stati membri affinché aiutassero la popolazione irachena negli sforzi per la ricostruzione politica, sociale ed economica del paese8 e richiamava gli Stati membri come l’Italia, ossia quelli già pronti ad agire in conformità all’appello, ad attivarsi immediatamente, al fine di fornire al popolo iracheno, in modo tempestivo, l’assistenza umanitaria e gli strumenti necessari per la ricostruzione9. All’appello del Consiglio di Sicurezza ONU risposero circa 40 Stati membri, tra i quali l’Italia. In presenza della legittimazione giuridica internazionale, perciò, il governo italiano poté procedere alla messa a punto degli aspetti strettamente tecnici, mentre l’autorizzazione all’implementazione di Antica Babilonia si ebbe col decreto legge 165 del 10 luglio 2003, poi convertito, in sede parlamentare, nella legge 219 del 1 agosto 2003. Questi strumenti normativi comprendevano anche la necessaria copertura finanziaria e necessitavano di un rinnovo a cadenza annuale, puntualmente garantito anche negli anni successivi. La missione Antica Babilonia cominciò ufficialmente il 15 luglio 2003.

In sede di conversione in legge del decreto autorizzativo della missione irachena, fu ribadita la piena conformità dell’azione del governo Berlusconi al dettato costituzionale, sia prima che dopo la conclusione del confronto bellico tra alleati e Iraq. Si ricordò, in quella sede, che l’Italia si era dichiarata paese non belligerante circa il conflitto in Iraq, mediante il comunicato del Consiglio Supremo di Difesa del 19 marzo 2003, presieduto dal presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, e che la missione che si andava ad autorizzare era legittimata dalla Risoluzione 1483, la quale prevedeva espressamente un intervento umanitario attuato anche con forze militari, al comando di Stati Uniti e Regno Unito, le potenze legittimate come occupanti dallo stesso disposto della risoluzione in esame. Un passo in avanti decisivo nel consolidamento della piena legittimità internazionale dell’operazione fu rappresentato dalla Risoluzione 1511 del 16 ottobre 2003. Questa, votata all’unanimità, non prevedeva un impegno diretto delle Nazioni Unite nel processo di ricostruzione irachena e, così disponendo, svuotava di significato la posizione di DS e Margherita, ancorati ad un generico quanto ormai irrealizzabile rinvio alle istituzioni ONU del peace-building in Iraq. Al contrario, la Risoluzione 1511 autorizzava una forza multinazionale, a comando unificato statunitense, a prendere tutte le misure necessarie per contribuire al mantenimento della sicurezza e della stabilità necessaria al processo di ricostruzione dell’Iraq. Con ciò si dava inizio ad un processo parallelo, di fondamentale importanza perché costituente il metro in relazione al quale dover valutare gli eventuali progressi compiuti dai paesi intervenuti in territorio iracheno: il graduale passaggio, calendarizzato, dei poteri dall’Autorità provvisoria alleata al nuovo governo iracheno.

Il ruolo delle forze militari inviate in Iraq fu così non soltanto legittimato dall’ONU ma espressamente sollecitato. D’altronde, i noti problemi di sicurezza che il paese doveva affrontare non avrebbero mai permesso, altrimenti, uno svolgimento efficace dei compiti di assistenza umanitaria alla popolazione e di ricostruzione politica, sociale ed economica. Una conferma decisiva sul punto proviene dalle prese di posizione delle più alte cariche ONU, colpevolmente ignorate, in quel periodo, dagli organi di stampa del nostro paese. La Commissione di esperti delle Nazioni Unite, guidata da Lakhdar Brahimi, infatti, asserì che il miglioramento delle condizioni di sicurezza fosse di essenziale importanza per consentire all’ONU di svolgere il proprio mandato. Di più. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, in visita al Senato giapponese, affermò quanto segue: «Voi avete risposto agli appelli del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e offerto una prova esemplare a livello internazionale di vera solidarietà al popolo iracheno». Lo stesso Annan, successivamente, ringraziò ufficialmente il presidente del Consiglio Berlusconi, in visita al Palazzo di Vetro, per il contributo attivo del nostro paese alla normalizzazione della situazione irachena. Risulta inequivocabile, dunque, l’appoggio politico delle massime autorità ONU – oltre a quello strettamente giuridico, espressosi nella forma delle risoluzioni citate – all’invio di contingenti militari che, insieme al personale civile specializzato, potesse garantire la sicurezza e il peace-enforcement.

Il quadro normativo in esame si completa con un’ulteriore, importante risoluzione: la 1546 dell’8 giugno 2004. Mediante quest’ultima il Consiglio di Sicurezza, ancora una volta all’unanimità, richiedeva agli Stati membri di sostenere la transizione politica irachena con supporto tecnico e professionale e con una forza multinazionale, alla quale il governo provvisorio iracheno guidato da Allawi – insediatosi da appena una settimana, in conformità alla calendarizzazione posta in essere dalla Risoluzione 1511 – chiese anche all’Italia di partecipare.

Risulta evidente, pertanto, l’incontestabile legittimazione giuridica dell’operato del governo, sia sul versante di diritto interno, sia su quello di diritto internazionale. A ciò si è aggiunta un’approvazione politica internazionale pressoché indiscutibile. L’Italia non solo non ha partecipato al conflitto, dichiarandosi paese non belligerante e conformandosi, pertanto, al disposto dell’articolo 11 della propria Costituzione, ma ha altresì aderito immediatamente all’appello delle Nazioni Unite all’aiuto della popolazione irachena e alla ricostruzione di un nuovo Iraq, democratico e libero. Emerge quindi chiaramente come le strumentalizzazioni di larga parte del centrosinistra e le interessate valutazioni di pretesi esperti, tanto critiche quanto superficiali rispetto alla complessità di un quadro normativo comunque ricostruibile, non abbiano alcun fondamento.

Perché parlare di ritiro

A questo punto è necessario sottolineare come sia nell’interesse del paese affrontare in modo responsabile la questione del ritiro, in considerazione dell’impatto sensibile che una missione di tal portata comporta sulla credibilità dell’Italia nel mondo. Occorre, insomma, che gli esponenti dell’Unione più moderati e meno pregiudizialmente ostili all’invio di militari all’estero, rinuncino alla tentazione di strumentalizzare l’esperienza irachena ed impongano un gentlemen’s agreement a quelle forze politiche radicali che tuttora, nonostante la decisione sulla conclusione di Antica Babilonia sia stata assunta, continuano ad invocare vere e proprie fughe, sull’esempio di quella compiuta dal premier spagnolo Zapatero.

In secondo luogo, una discussione franca, svuotata di residuati anacronistici ed ideologici, ed incentrata sull’interesse nazionale come perno dell’azione governativa all’estero, è ancora auspicabile, perché capace di favorire una scelta realmente condivisa almeno sulla gestione politica dei restanti mesi, evitando in tal modo che il nuovo governo si trovi nella paradossale situazione di dover riaffrontare una questione delicata e già grosso modo risolta dall’Esecutivo precedente. Affrontare la questione della gestione politica del completamento del ritiro è, dunque, nell’interesse dei maggiori partiti, sia di centrodestra che di centrosinistra. Il nuovo governo dovrà pertanto limitarsi a seguire la rotta tracciata dall’esecutivo precedente, rispettando i termini fissati, senza cedere alle pressioni interne e alle manifestazioni popolari.

In questo modo, l’azione governativa si troverebbe libera da ostacoli che non trovano davvero motivo d’essere e che soprattutto sono già stati affrontati e risolti a tempo debito. In questo contesto, è importante che il pianificato ritiro non venga né presentato all’opinione pubblica né tanto meno gestito come se si trattasse di una fuga o – peggio ancora – come un rimedio a pretesi errori passati. Il punto è di fondamentale importanza. Il difetto di comunicazione e di contro-argomentazione ha caratterizzato infatti negativamente buona parte della conduzione politica della missione. Come ha recentemente dimostrato il ministro Martino14, bisogna riconoscere che le ragioni dell’impegno italiano in Iraq sono venute meno e che la nostra presenza non sarà più necessaria, stante il consolidamento d’autorità e di capacità del governo legittimo iracheno.

A questo proposito è davvero un peccato che l’Unione, nel suo programma di governo presentato prima delle elezioni, non sia riuscita ad andare oltre le polemiche da cortile, e addirittura abbia incluso un richiamo quanto mai improprio al multilateralismo con riferimento al caso iracheno, invocando in modo generico l’ONU nell’opera di ricostruzione del paese. Forse che i dirigenti della coalizione del centrosinistra non sanno delle plurime risoluzioni del Consiglio di Sicurezza precedentemente menzionate, della conseguente presenza di funzionari ONU in suolo iracheno e della fine dell’occupazione militare delle truppe alleate di cui continuano a richiedere la cessazione? È perciò evidente come le forze di governo e quelle di opposizione, diversamente da quanto accaduto durante la campagna elettorale, abbiano il dovere, prima di tutto politico, di spiegare in modo chiaro che la ragione del nostro ritiro risiede esclusivamente nel successo della nostra missione. Come d’altronde è stato a più riprese ribadito dalle autorità irachene, dalle più alte cariche delle Nazioni Unite e dai massimi dirigenti dei paesi alleati.

Rientro in Italia: il significato della missione italiana


Il nostro impegno in Iraq ha avuto, come stabilisce espressamente la legge 219 del 1 agosto 2003, un obiettivo fondamentale: «Garantire quella cornice di sicurezza essenziale per un aiuto effettivo e serio al popolo iracheno e contribuire con capacità specifiche alle attività d’intervento più urgente nel ripristino delle infrastrutture e dei servizi essenziali». In un momento di instabilità, le nostre truppe hanno dunque permesso il consolidamento, se non addirittura la nascita, di istituzioni politiche, sociali ed economiche assolutamente necessarie per avviare il paese sulla strada dello sviluppo. Infatti, oltre alle operazioni volte al ripristino e al mantenimento della sicurezza, il contingente italiano ha concorso attivamente alla «ricostruzione di scuole, riparazione e manutenzione di acquedotti e fognature, ripristino di centrali elettriche e rifornimento di combustibili per le stesse, ripristino di tribunali e di strutture carcerarie, lavori di pulizia nelle città e nei villaggi, eccetera».

E i risultati non si sono fatti attendere: per quanto riguarda la normalizzazione del paese, nella provincia di Dhi Qar – quella nella quale opera il contingente italiano – sono state riaperte scuole e ospedali; è stato assunto personale locale per la pulizia e la sistemazione delle strade; sono stati redatti piani di prelevamento e di distribuzione della benzina, impedendo in tal modo il proliferare del mercato nero; si è eseguito il ripristino e il miglioramento della stazione elettrica di Nassiriya, consentendo l’adeguata erogazione di energia nell’area; si sono salvaguardati i siti archeologici e sono stati distribuiti gli aiuti umanitari provenienti dai paesi donors.

Inoltre, nel corso degli ultimi due anni, un totale di undicimila poliziotti e di duemila soldati sono stati addestrati dal contingente italiano. Per quanto riguarda invece il mantenimento della sicurezza, come ha osservato il ministro Martino, «[f]inora gli iracheni hanno già votato per una nuova Costituzione e per il Parlamento, inaugurando il loro cammino verso la democrazia. Noi li abbiamo messi in condizione di provvedere da soli alla loro sicurezza, addestrando la polizia e i soldati, tanto che nella provincia a noi affidata c’è stata la più alta affluenza alle urne e nessun incidente durante le votazioni».

La missione italiana, quindi, ha permesso lo svolgimento di quelle che il politologo Francis Fukuyama ha identificato come le prime due fasi (su tre) del processo di nation building: la ricostruzione post-bellica e la creazione di istituzioni autosufficienti che possano sopravvivere anche dopo il ritiro delle truppe straniere. La terza fase – il rafforzamento dell’apparato statale – richiede, inevitabilmente, la legittimazione delle istituzioni da parte della popolazione locale. A questo punto il restante lavoro è principalmente in mano alle forze irachene. Questa prospettiva è comune a tutti gli Stati intervenuti nel processo iracheno: anche gli Stati Uniti ed il Regno Unito si apprestano a ritirare una parte cospicua del loro contingente militare. Infatti, nonostante l’effettiva capacità sul campo delle forze dell’ordine e dell’esercito iracheni non sia ancora del tutto sufficiente a garantire la sicurezza e la stabilità politica necessarie, i progressi compiuti negli ultimi mesi, e gli ultimi dati disponibili sembrano offrire più che un motivo per rimanere ottimisti. E come hanno sottolineato Andrew Terril e Conrad Crane in uno studio pubblicato lo scorso ottobre per lo Strategic Studies Institute, un’occupazione militare protratta oltre il necessario potrebbe andare a lenire proprio quegli obiettivi di lungo periodo che dovrebbe invece aiutare a raggiungere.

In questo processo di ricostruzione, le elezioni del mese di dicembre hanno segnato una svolta fondamentale, come testimonia un dato politico emblematico: i sunniti hanno finalmente deciso di abbandonare gli “altri mezzi” mediante i quali perseguivano i loro obiettivi politici (per usare l’adagio clausewiziano), per sedersi al tavolo delle trattative, scelta che apre la strada alla normalizzazione del paese. Ovviamente è ancora presto per ogni tipo di giudizio definitivo, e molte incertezze rimangono: i terroristi che agiscono in Iraq sotto la guida di Al Zarkawi hanno infatti un vantaggio strategico di fondamentale importanza sulle forze di occupazione e sull’esercito iracheno. Mentre i secondi, per vincere, devono riavviare un intero apparato statale, facendolo funzionare efficacemente, e garantire un futuro di pace e relativo benessere alla popolazione locale, per i secondi è sufficiente impedire che ciò avvenga. Ciò significa, quindi, che il costo marginale sostenuto dai terroristi stranieri è drammaticamente inferiore a quello sostenuto dalla coalizione e dal popolo iracheno. Dall’altra parte, però, i segnali incoraggianti non mancano, e sembrano aumentare di giorno in giorno: ad inizio gennaio, per esempio, malgrado nel nostro paese non ne sia stata data notizia, si sono registrati degli scontri tra baathisti e terroristi legati ad Al Zarkawi, segno, forse, di una rottura che potrebbe segnare la svolta finale nella ricostruzione del paese.

Il processo di democratizzazione – per ora al suo stadio embrionale – sarà inevitabilmente lungo, e non certo privo di insidie26. Lasciare che faccia il suo corso nella maniera più autonoma possibile significherà permettere alla democrazia irachena di piantare le radici per il suo decisivo rafforzamento.

Il ruolo dell'Italia e la missione in Iraq


Prima di concludere, è giusto considerare anche il significato che la missione Antica Babilonia ha avuto per il nostro paese. Impegnandosi in una missione rischiosa e avversata da una campagna mass-mediatica senza precedenti, l’Italia ha dimostrato di essere un alleato affidabile e soprattutto credibile nella guerra contro il terrorismo. La fermezza del governo di fronte alle pressioni e alle strumentalizzazioni dei partiti di centrosinistra e delle manifestazioni di piazza, e soprattutto di fronte ai richiami alla pace (privi di alcun significato, in un approccio realistico alle cose internazionali) che provenivano anche da alte cariche istituzionali europee, hanno permesso un sensibile rafforzamento delle relazioni tra il nostro paese e Washington, risultato altrimenti assai difficilmente conseguibile. Non essendosi fatto sopraffare da rigurgiti antiamericani e prettamente idealistici sul piano della politica interna, il nostro paese ha guadagnato credibilità a livello internazionale, dopo una serie storica caratterizzata dalla cronica inaffidabilità. Va sottolineato, però, come la credibilità guadagnata sia dovuta anche e soprattutto alla condotta delle nostre forze armate, che con grande impegno ed immancabile professionalità hanno gestito con successo i compiti loro affidati.

Ad oggi, avendo dato un’ulteriore prova di poter contribuire attivamente con operazioni di peace-enforcing e peace-keeping ove necessario, il nostro paese può vantare un discreto peso internazionale relativo. Nel 2002, il generale Carlo Jean definiva «disastroso» lo stato dell’immagine internazionale del nostro paese, e «scarso» il prestigio di cui esso godeva. Oggi, ad essere obiettivi, bisogna riconoscere come le cose siano migliorate, e non poco. La prova emerge chiaramente dalla comparazione con l’impegno in Afghanistan: lo stesso generale Jean ricorda come l’Italia non sia stata «neppure menzionata dal presidente Bush tra i paesi che hanno dato un supporto fattivo agli Stati Uniti»30. La partecipazione alla ricostruzione in Iraq, invece, ha avuto un effetto ben diverso, anche dal punto di vista mediatico: il presidente degli Stati Uniti che, rivolgendosi al suo sfidante, John F. Kerry, nel corso di un dibattito televisivo durante la campagna elettorale del 2004, controbatte all’accusa di agire unilateralmente dicendo «Tell Silvio Berlusconi we are going alone», non ha probabilmente alcun precedente. Ma una prova ulteriore testimonia al meglio il consolidamento dell’asse con Washington: il discorso che Silvio Berlusconi ha tenuto lo scorso 1 marzo di fronte al Congresso degli Stati Uniti, un riconoscimento che non è mai stato accordato a nessun altro dei nostri presidenti del Consiglio in passato.

Conclusioni

L’Italia con la missione Antica Babilonia ha partecipato attivamente ad un’impresa di estrema importanza nella lotta contro il terrorismo, assistendo un popolo vessato da decenni di brutale dittatura nel suo cammino iniziale verso un futuro democratico e contribuendo da protagonista alla nuova stagione mediorientale. È ancora troppo presto per trarre delle conclusioni definitive sulla guerra e sulla ricostruzione post-bellica. Analogamente, è troppo presto per valutare il contributo dell’Italia. Ma certamente esso non può essere sottovalutato. Da una parte, infatti, mantenendo stretti i rapporti con Washington, l’Italia ha impedito che gli Stati Uniti venissero isolati politicamente, come invece aveva auspicato l’allora ministro degli Esteri francese De Villepin. In secondo luogo, contribuendo alla stabilizzazione di una provincia irachena, e in particolare impedendo che i terroristi jihadisti cogliessero l’occasione del vuoto di potere per realizzare il loro progetto di dominio, ha offerto una prospettiva alternativa concreta ad un paese musulmano.

L’Italia non ha partecipato alla guerra, come testimoniano le importanti parole del presidente della Repubblica. Ciononostante, la missione Antica Babilonia ha comportato dei rischi per il paese, ed è costata la vita a ben ventisei militari, tra carabinieri e soldati. Questo impegno in Iraq, come argomentato nelle pagine precedenti e diversamente da quanto è stato sostenuto da più parti negli ultimi tre anni, è stato assolutamente conforme alle prescrizioni della nostra Costituzione e del diritto internazionale, e ha risposto ad un invito molto preciso che l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha rivolto più volte alla comunità internazionale perché i paesi che ne fossero in grado contribuissero attivamente alla stabilizzazione dell’Iraq.

Quando il tempo della polemica domestica e delle strumentalizzazioni politiche lascerà il posto al tempo della riflessione storica, tutto questo gran parlare verrà forse ricordato come uno di quei segni indistinguibili del nostro paese. Stavolta, però, l’Italia potrà dire di aver attivamente contribuito a sconfiggere il disegno del terrorismo, di aver contribuito al nuovo corso del popolo iracheno, di essere stata protagonista leale e capace del fronte occidentale.

08 giugno 2006

 

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