Più spazio al soft-power
di Francis Fukuyama
da Ideazione di gennaio-febbraio 2006
Credo che il nucleo centrale della Dottrina Bush, ovvero che gli Stati
Uniti dovessero trasformare la politica del Medio Oriente per far fronte
alla minaccia terroristica post 11 settembre, sia sbagliato, e che il
problema sia stato aggravato da un’azione politica gravemente
insufficiente prima e dopo la guerra irachena. Per la cronaca, ero
convinto che intraprendere una guerra fosse una cattiva idea già
nell’autunno 2002 (vale a dire, da prima che la guerra cominciasse),
quando mi è stato proposto di guidare una parte di uno studio del
Pentagono sulla strategia della guerra al terrorismo, e non in seguito
allo svolgimento degli eventi dopo il conflitto.
Non c’è dubbio che gli attacchi dell’11 settembre abbiano rivelato una
minaccia nuova, e che i tradizionali mezzi della guerra fredda, il
contenimento e la deterrenza, non avrebbero funzionato contro i
terroristi suicidi forniti di armi di distruzione di massa. La guerra in
Afghanistan è stato un attacco preventivo pienamente giustificato, che
ci ha permesso di smantellare le reti terroristiche che ci erano
apertamente ostili. Il problema è stato che l’amministrazione Bush ha
legato il problema del terrorismo e delle armi di distruzione di massa a
quello dell’Iraq e più in generale, degli Stati canaglia. Quest’ultimo
era, e continua a essere un argomento molto serio, ma non è mai stato
dimostrato che uno Stato canaglia, che (a differenza dei terroristi
internazionali) ha un indirizzo, avrebbe seguito il faticoso iter per lo
sviluppo delle armi nucleari soltanto per fornirle a un’organizzazione
terroristica.
Il problema principale risiede nella diagnosi delle cause all’origine
del terrorismo e nel rimedio che vi si vuole porre. L’Islam estremista
non è assolutamente un’affermazione dei tradizionali valori religiosi
musulmani. Oliver Roy su Globalized Islam, ha sostenuto in modo
convincente che esso deve essere considerato un fenomeno moderno
provocato dalla deterritorializzazione dell’Islam, soprattutto in Europa
occidentale, ad opera delle forze della globalizzazione e della
modernizzazione, che noi invece esaltiamo. Nelle società islamiche
tradizionali, l’identità è stabilita dal gruppo in cui si nasce, ed è
solo in un ambiente non musulmano che un individuo comincia a chiedersi
chi sia. La profonda alienazione che ne deriva, espone i musulmani poco
integrati di seconda e terza generazione a un’ideologia integralista e
universalistica come quella di Osama bin Laden. Mohammed Atta e gli
altri organizzatori degli attacchi dell’11 settembre, i cospiratori di
Madrid e di Londra, e Mohammed Bouyeri, l’assassino del regista olandese
Theo Van Gogh, fanno tutti parte di questa categoria.
Questo significa che più democrazia e più modernizzazione non
risolveranno in breve tempo i nostri problemi col terrorismo e
potrebbero anzi esacerbarli. Credo che democrazia e modernizzazione
siano cose buone, e che sia giusto promuoverle in Medio Oriente. Ma
continueremo ad avere seri problemi col terrorismo nell’Europa
occidentale democratica, indipendentemente da quello che succede in
Egitto o in Libano. Anche se accettassimo che il Medio Oriente deve
essere stabilizzato, è difficile capire cosa ci ha fatto credere di
esserne capaci. Molto di ciò che i neoconservatori hanno scritto negli
ultimi decenni trattava le conseguenze inaspettate di un’ingegneria
sociale troppo ambiziosa, e l’inutilità di risalire alle cause
originarie dei problemi sociali. Se questo è stato vero per i tentativi
di combattere la criminalità e la povertà nelle città statunitensi,
perché mai qualcuno ha creduto di poter arrivare alle cause originarie
dell’alienazione e del terrorismo in una parte del mondo che non
capivamo particolarmente bene, e in cui i nostri strumenti politici
erano assai limitati?
Un altro limite è tipico degli Stati Uniti. Negli anni, ci siamo
impegnati in una serie di iniziative di nation-building in diverse
nazioni: la ricostruzione del Sud dopo la guerra di secessione,
l’occupazione delle Filippine, i vari interventi basati sulla dottrina
di Monroe, il Giappone, la Germania, la Corea del Sud e il Vietnam del
Sud e infine gli interventi umanitari dell’era post-guerra fredda in
Somalia, ad Haiti, nei Balcani e in altri paesi. Tra questi, soltanto il
Giappone, la Germania e la Corea del Sud sono stati successi eclatanti:
tutti paesi in cui le forze di occupazione americane sono arrivate senza
praticamente andarsene mai. Gli americani hanno l’abitudine di iniziare
questi processi con entusiasmo, per poi perdere l’interesse una volta
che le cose cominciano ad andare storte, di solito dopo più o meno
cinque anni: è quello che è avvenuto con la ricostruzione del Sud, col
Nicaragua tra il 1927 e il 1932, nel Vietnam del Sud e in molte altre
nazioni. Stabiliamo alleanze locali, proviamo a formare delle
istituzioni moderne, e poi stacchiamo la spina. Prima della guerra,
temevo che ci saremmo comportati così anche in Iraq e niente di quanto è
avvenuto dopo è riuscito a togliermi questo pensiero.
Dobbiamo vincere militarmente in Afghanistan e in Iraq. È essenziale
resistere alle pressioni che ci vorrebbero far ridurre prematuramente il
numero delle forze impiegate: ma dobbiamo anche pensare in generale alla
guerra al terrorismo come a una classica campagna di controinsurrezione
da combattere su scala mondiale. In una campagna di questo tipo,
conquistare i cuori e le menti è importante quanto neutralizzare lo
zoccolo duro dei terroristi. Credo fortemente nel bisogno di una
politica estera di espansione che trasformi gli Stati al loro interno e
non solo il loro comportamento esteriore. Ma è il soft power americano,
non l’hard power, che ci fornirà l’elemento essenziale per la promozione
e lo sviluppo della democrazia nel mondo, e inoltre, dobbiamo
assolutamente ripensare la struttura e il finanziamento degli strumenti
che possediamo per perseguire un’azione simile.
Dopo i primi quattro anni della Dottrina Bush, gli Stati Uniti hanno
creato un nuovo covo di terroristi in Iraq e un vuoto di potere che
destabilizzerà la politica della regione ancora per anni. Se gli
alleati, a livello di élite, cercano di ristabilire delle buone
relazioni con Washington, a livello popolare in gran parte del mondo si
è verificato uno spostamento sismico nella percezione degli Stati Uniti.
La nostra immagine, giusto o sbagliato che sia, non è più quella della
statua della libertà, ma del prigioniero incappucciato di Abu Ghraib.
Cercare di risolvere questo problema è un pensiero che ci assillerà per
molti anni.
(© Commentary)
(Traduzione dall’inglese di Arianna Capuani)
08 giugno 2006
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