Non credo nella Dottrina, ma sostengo il presidente
di William F. Buckley Jr.
da Ideazione di gennaio-febbraio 2006

Non mi considero un sostenitore della Dottrina Bush, anche se mi considero un sostenitore di Bush. La diagnosi del presidente riguardo la minaccia che ci siamo trovati ad affrontare – o ci trovavamo ad affrontare – o che ancora ci troviamo ad affrontare – richiede un’analisi più approfondita di quella che, credo, i direttori di Commentary vogliono da me. La minaccia che il presidente aveva identificato nel 2002 riguardava l’accumulazione di armi di distruzione di massa da parte di un nemico della libertà. Si trattava di un dittatore che era riuscito, nel suo paese, a sopprimere la libertà e probabilmente era deciso a fare lo stesso oltre le sue coste, raggiungendo, forse, le nostre. Non credo che il presidente, dal momento dell’invasione, abbia stabilito retrospettivamente se Saddam era in grado di estendere questa minaccia o se avesse la volontà di farlo. Penso che il presidente abbia agito sulla base dell’intelligence disponibile. Ma pur avendo agito come noi volevamo, le sue azioni non hanno messo fine a una precedente dottrina per la politica estera americana, né hanno prodotto una qualche ricetta dottrinaria per affrontare questo tipo di minacce in futuro. Il successo di Bush deve essere valutato – non c’è alternativa – in base al successo dell’avventura irachena.

Dopo l’11 settembre, era assolutamente necessario che gli Stati Uniti dessero una prova di decisione e di forza. Abbiamo dimostrato di possedere entrambe in Afghanistan. L’impresa è stata decisiva, rapida ed esemplare anche sotto altri aspetti. La successiva campagna contro l’Iraq ha bisogno, per essere giustificata, di un successo empirico che non abbiamo ancora conseguito. Non abbiamo ancora sconfitto l’insurrezione né unito la nazione irachena. Se raggiungeremo questi obiettivi, e se questi si tradurranno in un avanzamento in direzione della sicurezza irachena e di un governo costituzionale, il presidente verrà giustamente acclamato per aver avuto il coraggio di lanciarsi in un’impresa che rimette ordine nella vita e nella speranza in una parte critica del mondo. Se l’impresa fallirà, verrà giustamente ritenuto responsabile della sua imprudenza. Vi sono aspetti della nostra politica che cambierei? Questa è una domanda difficile. Con l’aumento dei costi, dovrebbe estendersi anche la portata dei nostri obiettivi. È inappropriato che il presidente smorzi, per non dire abbandoni, una retorica che sottende a una grande impresa. Se l’impresa irachena fosse solo l’ennesimo esercizio ginnico di una grande potenza, gli risulterebbe difficile giustificare i costi che stiamo sostenendo.

Con l’aumentare dei costi, non si può mettere a repentaglio l’obiettivo per cui stiamo spendendo fondi e altre risorse necessarie. Arrivati a questo punto, e dopo quanto è stato fatto, non trovo niente dal punto di vista militare che potrebbe essere fatto diversamente da quello che stiamo facendo, né vedo in prospettiva una modifica geostrategica sostanziale dei presupposti che ci hanno portato dove siamo. Ma, per venire all’ultima domanda, non giudico saggia la visione espansiva del ruolo degli Stati Uniti di Bush. I nostri obiettivi, espressi da Woodrow Wilson e ora da George Bush, restano organicamente encomiabili come lo sono le società libere stesse. Nella natura delle cose, però, le missioni di salvataggio delle nazioni tormentare devono essere selettive, una forma d’arte geostrategica. È una tesi così ovvia, che è imbarazzante mettersi a ridimostrarla. «Come si chiamano i dittatori dei paesi che hanno bombe nucleari?» iniziava la massima, decenni fa. Risposta: «Signore». Le preoccupazioni del presidente per la libertà non ci faranno intervenire in favore della libertà in Cina. Non riusciamo nemmeno ad accelerare l’energia politica per fare qualcosa per fermare il genocidio in Sudan. Ogni tanto le stelle si dispongono in modo da darci una missione ideologica che possiamo gestire, come a Grenada ai tempi di Reagan – e prima di allora, su scala completamente diversa, nella guerra contro Hitler. Ma le dottrine di contorno devono rimanere confinate al dibattito politico. Nei giorni e nei decenni futuri, gli Stati Uniti faranno del bene ad altri paesi e all’umanità, ma non credo che sarà grazie a un esercizio dottrinario riconducibile alla Dottrina Bush.

(© Commentary)

(Traduzione dall’inglese di Barbara Mennitti)

08 giugno 2006

 

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