"L'individuo prima di tutto"
intervista a Edward H. Crane di Christian Rocca
da Ideazione di maggio-giugno 2006

I libertarians americani non sono né di destra né di sinistra. Li trovi all’estrema destra sui temi di politica economica, all’estrema sinistra sui diritti civili. Pensate ad Antonio Martino e a Marco Pannella riuniti in un’unica persona, anche se a differenza loro i libertari non avrebbero mandato un soldato né speso un soldo per la democrazia in Iraq. Sono liberisti come il premio Nobel Milton Friedman, provocatori come Charles Murray (l’uomo che vuole abolire il welfare state e sostituirlo con un assegno annuo da diecimila dollari per ogni americano maggiorenne), dissacratori come Parker e Stone (i due creatori del cartone animato politicamente scorretto South Park e del film Team America), editorialisti come John Tierney (New York Times). I libertari criticano i repubblicani, snobbano i democratici, detestano i neoconservatori. Esiste un minuscolo partito libertario, ma non riesce mai a superare lo zero virgola. La voce dei libertari, però, è presente nel dibattito politico grazie a una serie di giornali e riviste, ma soprattutto grazie a un prestigioso think tank, il Cato Institute. Centocinque dipendenti, un budget da 17 milioni di dollari annui, sedicimila sottoscrittori e un splendido palazzotto con facciata di vetro al numero 1000 di Massachussetts Avenue a Washington. Ed Crane è il fondatore nonché il presidente dell’Istituto dedicato a Catone.

Mister Ed Crane, che cos’è il Cato Institute?


Il Cato Institute è un’organizzazione di ricerca politica. Ci occupiamo dell’intero spettro delle questioni politiche americane: politica estera, politica economica, dottrina giuridica. Lo facciamo da una classica prospettiva liberal-libertaria.

Qual è la differenza tra un libertario e un liberal?


Negli Stati Uniti un libertario è paragonabile a chi in Europa è un liberale tradizionale, mentre un liberal è chi sostiene che il governo debba trovare le soluzioni a tutti i problemi. Io penso che il significato tradizionale della parola liberale abbia a che fare con il rispetto per l’individuo e la sua autonomia, nonché con il massimo possibile di libertà individuale. La nostra filosofia è questa, tra l’altro è quella su cui sono stati fondati gli Stati Uniti: il rispetto per la dignità dell’individuo. I nostri precetti politici sono tutti volti ad agevolare l’autocontrollo del cittadino sulla propria vita – nella previdenza sociale, nell’assistenza sanitaria, nell’istruzione. Noi pensiamo sia assiomatico che più controllo della propria vita abbia un individuo, più dignitosa sarà la sua esistenza. Cerchiamo di promuovere questo.

Quindi lei, da libertario, non è né un repubblicano né un conservatore, né un liberal nel senso americano e neanche un democratico...


Esatto. Noi non abbiamo un’affiliazione partitica. In generale, e senza particolare accuratezza, si può dire che filosoficamente i liberal sono più interessati alle libertà civili e sono più scettici sul ruolo degli Stati Uniti come poliziotti del mondo. Ma i liberal si oppongono anche al libero mercato capitalistico e, inoltre, sono molto scettici sulla deregolamentazione del mercato. I conservatori sono l’esatto opposto. Tendono a essere più restrittivi sulle questioni delle libertà civili, tendono a favorire una politica estera avventurosa e imperialistica e, apparentemente, sostengono il sistema della libera impresa. Noi libertari siamo una combinazione di queste posizioni. Anche perché ci sarebbe da discutere sul fatto che la sinistra sostenga veramente, come dovrebbe, le libertà civili e che la destra si impegni realmente per salvaguardare il sistema capitalistico. Sulla politica estera, il nostro punto di vista è di grande scetticismo sul ruolo degli Stati Uniti come poliziotto del mondo. Abbiamo un forte rispetto per le libertà: la libertà di parola e tutto lo spettro delle questioni attinenti alle libertà civili, ma abbiamo anche rispetto per le dinamiche capitalistiche di mercato e per quelle del libero scambio. La nostra è una combinazione di ideali che francamente né i repubblicani né i democratici offrono. Io direi che un 25-30 per cento degli americani condivide questa combinazione di punti di vista.

La politica estera di George W. Bush le piace?


Noi siamo stati molto critici della politica estera del presidente. Ci siamo opposti alla guerra in Iraq. A suo tempo siamo stati favorevoli all’intervento in Afghanistan per dare la caccia ai talebani e a bin Laden, ma non abbiamo mai capito la logica alla base dell’invasione irachena. Così abbiamo detto con decisione che è stato un errore.

Lei ha già detto che non vi piace che gli americani assumano il ruolo di poliziotti del mondo. È soltanto questo il motivo della vostra contrarietà a Iraqi Freedom?


È vero... non c’erano prove fondate che Saddam Hussein avesse le armi di distruzione di massa. Colin Powell ha mostrato alle Nazioni Unite la foto di un camion con un cerchio disegnato attorno e una freccia puntata dentro il cerchio. Non provava niente. Non sono stati verificati legami effettivi tra Saddam e al Qaeda. L’intervento sarebbe stato giustificato soltanto se ci fossero state prove inconfutabili, ma non c’erano. L’impresa di ricostruire quella nazione ci lascia scettici. Pensiamo sia già abbastanza difficile mantenere una società libera qui in casa, figuriamoci in una cultura straniera che peraltro non conosciamo affatto. Tutto questo tentativo di cambiare il regime iracheno è stato pianificato male fin dall’inizio, e messo in pratica in modo peggiore. Non c’era un piano su cosa fare davvero al momento della caduta di Saddam. È stata una tragedia, un disastro.

Sull’Amministrazione Bush, lei ha delle riserve anche per il modo in cui gestisce gli affari interni?


Sì. Trovo che i neoconservatori come Bill Kristol e suo padre Irving, o come David Brooks del New York Times, abbiano una visione politica che ha influenzato troppo la Casa Bianca. Sono loro i responsabili di quella che è stata una vera e propria assunzione da parte del potere federale del controllo dell’istruzione pubblica americana. Tradizionalmente il nostro sistema di istruzione è affidato alle amministrazioni locali, ovvero ai singoli Stati. La gente di Bush, invece, ha rafforzato il ruolo del Dipartimento dell’Istruzione, imponendo una quantità enorme di regole a cui le scuole locali devono conformarsi. Inoltre hanno spinto il governo a sovvenzionare le organizzazioni religiose, una commistione che storicamente negli Stati Uniti non è stata mai permessa perché c’è sempre stata una netta separazione tra religione e Stato. Non posso non pensarci, specie quando osservo le nazioni teocratiche nel mondo e le confronto con la saggezza del nostro approccio costituzionale… Eppure Bush ha iniziato a smantellarlo. Del resto Bush è il più grande spendaccione della storia moderna, peggio di Lyndon B. Johnson, il quale governò durante la guerra in Vietnam e creò la Great Society… scelte entrambe molto dannose per la nostra nazione. Bush spende ancora più di Johnson. Credo che la mancanza di un certo approccio filosofico verso il contenimento del governo centrale nonché non particolarmente favorevole al mercato libero e all’iniziativa privata, abbia finito per creare all’interno dell’Amministrazione un’atmosfera in cui si pensa soltanto al potere. Questo genere di ambiente crea corruzione. Tutto ciò ha effetti spaventosi sul partito repubblicano, come si è visto ultimamente.

Irving Kristol è famoso per aver detto: «Due urrà per il capitalismo», soltanto due, non tre. Lei sostiene, dunque, che i neoconservatori sono in un certo senso dei liberal, di sinistra, sulle politiche economiche e sociali?


Forse non è chiaro cosa intendo io per liberale. Il grande liberale, nonché premio Nobel Friedrich A. Hayek, ha scritto un famoso saggio intitolato Perché non sono un conservatore. Lui non criticava lo Stato minimo né il mercato libero. Hayek criticava chi, come i neoconservatori, ancora oggi apertamente si vantano di voler favorire un governo forte e nazionalistico, coloro che parlano di grandezza nazionale. Io credo che vivere in una società libera significa già vivere in un paese meraviglioso. Loro, invece, vogliono i grandi progetti: vogliono il canale di Panama o il tunnel da Washington a Londra e non sono contenti finché non c’è il grande sacrificio da imporre. Sul Weekly Standard, la rivista del figlio, Irving Kristol ha scritto un articolo di critica aperta a Barry Goldwater, uno dei più importanti sostenitori repubblicani dello Stato minimo, uno che in America ha favorito veramente il ritorno del conservatorismo. Kristol è stato molto critico nei confronti di Goldwater e si è schierato con Franklin Delano Roosevelt, un presidente che qui al Cato Institute vediamo come uno che ha realmente e apertamente attaccato la Costituzione degli Stati Uniti, arrivando addirittura a minacciare di aggiungere altri membri alla Corte Suprema, qualora questa non avesse sostenuto le sue iniziative chiaramente extracostituzionali. I neoconservatori sono per un governo sovradimensionato. Possiamo chiamarli conservatori o liberali, certo non libertari.

Alla fine, di quest’Amministrazione sono più le cose che non le piacciono di quelle che le piacciono. Anche se immagino che un libertario comunque approvi il taglio delle tasse…


Mi piacerebbero tagli maggiori alle tasse. Sono d’accordo con il premio Nobel Milton Friedman, quando dice che le vere tasse sugli americani sono le risorse prese dal settore privato e impiegate nel settore pubblico. Non è importante sapere da dove vengono, possono essere tasse, prestiti o inflazione. Sono, comunque, risorse tolte dal settore privato, il vero peso sul contribuente americano. È questo il motivo per cui non siamo per niente contenti di Bush. Bisogna tagliare la spesa pubblica, bisogna abbassare le tasse indirette e va privatizzata la previdenza sociale. È una cosa che Bush ha provato a fare. Era una buona idea. Del resto il Cato Institute la propone da 25 anni. Bush ne ha parlato durante l’ultima campagna elettorale, ma si è concentrato su problemi di facciata, come la solvibilità, la restituzione dei crediti, il debito pubblico e via dicendo. Non ha invece centrato il punto della questione, che è quello dei conti privati di previdenza sociale trasformati in un vero e proprio bene privato a disposizione di ogni singolo cittadino, da poter essere trasmesso anche ai familiari. Credo che l’idea di poter cedere questi crediti come se fossero dei beni privati, raccoglierebbe un grandissimo consenso tra gli americani. Recentemente, infatti, c’è stato un sondaggio secondo cui il 79 per cento degli americani è favorevole a questa opzione. Quando quattro persone su cinque sono favorevoli a una proposta, ma questa proposta poi è gestita così male al punto da trasformarsi in un disastro politico, vuol dire che c’è qualcosa che non va. Credo che il mito di Karl Rove come genio della politica sia un’assurdità. Ha fatto un pessimo lavoro. Devo aggiungere, però, che pur essendo così critico nei confronti dei repubblicani, i democratici non hanno niente da offrire come alternativa. Tutto il loro programma gira intorno all’assistenza sanitaria gratuita per tutti. Ovviamente non ha senso parlare di assistenza sanitaria gratis. Prenda i nostri amici del nord, in Canada. La loro Corte Suprema ha appena sancito che il monopolio governativo sull’assistenza sanitaria non è costituzionale. E quindi adesso hanno l’alternativa privata. Il programma dei nostri democratici è questo: citano il sistema canadese prima di questo cambiamento, e non hanno risposte su come finanziare l’assistenza pubblica. Vogliono aumentare le regolamentazioni e inoltre imporre restrizioni commerciali... In sostanza sono poco convincenti, secondo il punto di vista libertario del Cato Institute.

Avete relazioni con analisti, politici e fondazioni libertarie europee?


Al Cato abbiamo un progetto sulla liberalizzazione economica globale, gestito in costante contatto con una dozzina di centri di ricerca in tutto il mondo. Certamente il principale think tank libertario europeo è l’Institute for Economic Affairs di Londra. Ancora oggi è un punto di riferimento. Margaret Thatcher l’ha consultato per molte delle sue riforme. Antonio Martino è un nostro buon amico ed è membro della Mount Pelerin Society, l’organizzazione internazionale che diffonde le idee del liberalismo classico e quelle libertarie.

Come si finanzia il Cato Institute?


Quest’anno abbiamo un budget che si aggira sui 17 milioni di dollari. Approssimativamente l’80 per cento proviene da contributi individuali, da parte di piccoli finanziatori. Riceviamo circa il 6 per cento da grandi società e un 8 per cento da fondazioni. Il resto arriva dagli onorari per le conferenze, per i libri e cose del genere. In prima istanza dipendiamo da circa sedicimila singoli finanziatori sparsi in tutto il paese. La maggior parte degli americani non sa che esistono fondazioni che studiano l’amministrazione della cosa pubblica. Sono soltanto gruppi selezionati di persone che sostengono queste iniziative. Lo fanno perché condividono la nostra filosofia. E il Cato Institute è uno dei centri di ricerca più citati d’America.

Quanta gente lavora qui e che cosa fate di preciso? Producete libri, rapporti per il governo, cos’altro?

Abbiamo 105 impiegati a tempo pieno e pubblichiamo una dozzina di libri all’anno, più 50 o 60 studi di ambito politico. Organizziamo fino a 200 eventi tra seminari e conferenze. Produciamo una serie di audiocassette. E poi c’è la Cato University per giovani che studiano le idee che le ho appena esposto. Abbiamo molto da fare. Poche organizzazioni sono produttive come il Cato, in termini di quantità di pubblicazioni e di eventi organizzati.

Chi è il suo uomo per le elezioni presidenziali del 2008?


È un quadro sconfortante, dal mio punto di vista...

Il favorito sembra il senatore John McCain, che cosa ne pensa?


Al Congresso John McCain è uno dei pochi disponibili a dire che la spesa pubblica va tagliata. Ma poi vuole tagliare anche il dibattito politico, avendo sostenuto la legge che regolamenta il finanziamento delle campagne elettorali, una legge che limita la discussione politica. Io credo che il primo emendamento, quello sulla libertà di parola, sia più importante della questione delle spese elettorali. Io mi schiero sicuramente contro John McCain. Ha anche una posizione molto ingenua sulla questione del surriscaldamento terrestre. Mi piacerebbe piuttosto Mark Sanford, il governatore della South Carolina, che ammiro molto. Oppure Mike Pence, deputato dell’Indiana al Congresso. Penso che sarebbe un buon candidato alla presidenza. Ma credo che nessuno dei due possa essere efficace elettoralmente. Il Cato sostiene l’idea di porre dei limiti ai mandati parlamentari, cioè che i membri del Congresso possano essere eletti al massimo tre volte. Questa riforma eleverebbe la qualità dei membri del Congresso, perché nessuno potrebbe fare il politico di professione. Ci sarebbe un ricambio continuo e potrebbero venir fuori i Thomas Jefferson del futuro. Oggi, per come funziona il Congresso, non c’è nessuno su cui poter fare affidamento, a eccezione di Jeff Flake, Mike Pence, Paul Ryan.

Nessuno dei quali si candida alle presidenziali del 2008…

È vero, non si candideranno. Ma c’è John Sununu, senatore del New Hampshire. Credo sia una persona in gamba. Lui potrebbe candidarsi.

Tutti i nomi che ha fatto sono del partito repubblicano…


Sì. Non conosco nessun democratico che potrei sostenere. Ma la stessa cosa vale per la maggioranza dei repubblicani. Speriamo che nei prossimi due anni salti fuori qualcuno che meriti il nostro sostegno, il sostegno dei libertari.

09 maggio 2006

 

stampa l'articolo


I blog di Ideazione

The Right Nation
Walking Class
1972
Le guerre civili
I love America
Regime Change
Krillix
Mattinale
JimMomo



Network
italiano






















Network
internazionale