Bordeggiando sul filo del Novecento
colloquio tra Jean-François Revel e Vittorio Mathieu
da Ideazione di gennaio-febbraio 2005

Per essere l’otto novembre la giornata è insolitamente calda e luminosa, ultimo strascico di una lunga estate romana. L’occasione non è una come tante. Jean François Revel presenta il suo ultimo libro, L’ossessione antiamericana, nella sede della Fondazione Ideazione a Roma. Lui, che ama tanto l’Italia da aver voluto trascorrere a Firenze alcuni anni della sua vita, torna sempre volentieri nella Capitale. In questa circostanza ci rende un privilegio e si lascia andare ad una lunga conversazione con un altro filosofo del suo stesso calibro, Vittorio Mathieu, per l’occasione la voce di Ideazione.

Li si potrebbe ascoltare per ore conversare di filosofia come di politica, del senso della vita e del significato storico degli eventi. In uno scambio continuo e del tutto naturale di italiano e francese – superamento di ogni rivalità campanilista – seduti uno di fronte all’altro, con le braccia conserte e lo sguardo intenso. Sembra di vivere lo spaccato di un mondo, quello dei grandi uomini della Cultura europea, destinato, temiamo, prima o poi, a scomparire.
Abbiamo voluto ricostruire, seppure parzialmente, quella conversazione che, naturalmente, prende le mosse dalla traduzione del saggio sull’antiamericanismo apparso da qualche mese in Italia (L’ossessione antiamericana, Lindau 2004). Testimonianza di una giornata molto particolare.

Mathieu – L’ossessione antiamericana è diffusa dappertutto. Ma non crede che ci siano degli antiamericani anche negli Stati Uniti? Non parlo di personaggi come i coniugi Rosenberg, ma di un modo di pensare comparabile a quello di certi antiamericani europei. Pensiamo alla simpatia verso lo zio Stalin o verso l’ideologia comunista in certi miliardari.

Revel – L’antiamericanismo era ed è ancora forte in molte élite universitarie, giornalistiche e letterarie. Blame America First fu per molto tempo, e ancora rimane, la massima di alcuni intellettuali negli Stati Uniti. Ma l’America è stata, soprattutto dopo il 1990, il laboratorio di una mondializzazione liberale. In ogni epoca di progresso c’è stata quella che si può chiamare una società-laboratorio che ha inventato soluzioni nuove: non tutte buone, ma prima o poi prevalenti. Così Atene, Roma, l’Italia del Rinascimento, l’Inghilterra e la Francia del Diciottesimo secolo. Il problema è se gli Stati Uniti abbiano assunto volontariamente o involontariamente questa funzione. Se essa sia dovuta al loro “imperialismo” o alla loro capacità di innovazione.

Mathieu - Roosevelt è ricordato come un grande presidente, ma non tutto è stato felice nel New Deal e in particolare nella conduzione della guerra sotto la guida del generale Eisenhower. Si pensi alla follia di Monte Cassino e di risalire una penisola montuosa fermandosi alla linea gotica quando si aveva il predominio nel cielo e sul mare.

Revel - Non pretendo certo che la società e la politica americana siano senza difetti. Abbiamo dunque il diritto di criticarle. Anche l’America, come qualunque altro paese, commette errori, in particolare in politica estera. I suoi errori sono più nefasti in conseguenza della sua posizione egemonica. è opportuno dunque scoprirli e denunciarli, ma le critiche devono colpire veri difetti e veri errori, mentre spesso chi parla male dell’America si riferisce alle sue buone qualità. La requisitoria rituale contro gli Stati Uniti è fatta di un insieme di luoghi comuni quasi costante, che rivela una ignoranza del problema. Un’ignoranza così grossolana e facile da correggere che c’è da sperare che sia volontaria. Del resto i critici dell’America non mancano anche negli Stati Uniti. Si pensi ad esempio a Sinclair Lewis. I suoi romanzi sono requisitorie contro l’America non meno aspre di quelle che si trovano nei romanzi più foschi di Zola rispetto alla società francese.

Mathieu - Veniamo alla questione tra gli Stati Uniti e Cuba: sarà l’atteggiamento degli Stati Uniti contro il regime di Castro la ragione per cui i nordamericani sono malvisti nell’America Latina?

Revel - Paradossalmente gli Stati Uniti sono stati detestati dai loro alleati dopo la fine della Guerra Fredda più di quanto lo fossero in precedenza dai comunisti. Significativo, per questo, l’entusiasmo con cui autorità democratiche o religiose hanno preso posizione in favore di Fidel Castro perché vittima dell’embargo americano, falsamente chiamato blocco. Eppure Cuba non ha cessato di commerciare con tutte le nazioni del mondo, salvo che con gli Stati Uniti. E il basso livello di vita dei cubani non deriva dal preteso blocco, bensì dal regime socialista.

Mathieu - Tornando indietro nel tempo, che conseguenze ha avuto l’arrivo di spagnoli e portoghesi in America? E la dottrina di Monroe non è per caso stata sentita come se “l’America agli americani” significasse che l’America è degli angloamericani?

Revel - La dottrina di Monroe non è stata formulata per gli anglosassoni, bensì su richiesta di latinoamericani che volevano rendersi indipendenti dalla madrepatria. Così si spiega anche la guerra tra gli Stati Uniti e la Spagna a proposito di Cuba.

Mathieu - In Italia l’antiamericanismo è una sorta di nostalgia. Gli italiani ricordano quanti di loro siano emigrati nel Nord America e le difficoltà che hanno dovuto superare.

Revel - Accogliere gli immigranti non è per l’America una parola vuota. Un giornalista britannico ricorda il discorso di un funzionario dell’immigrazione e naturalizzazione ad alcuni immigranti che ricevevano la cittadinanza americana: «Sono persone come voi quelle che hanno contribuito e contribuiscono a fare di questo paese il più prospero in tutta la storia dell’umanità». Effettivamente tra il 1840 e il 1924 sono arrivati negli Stati Uniti 35 milioni di immigranti, equivalenti all’intera popolazione francese del 1850 o italiana del 1910. In seguito questo flusso è ancora aumentato, al punto che il censimento del 2001 rivelava una crescita di 30 milioni di abitanti, dovuta in gran parte all’immigrazione. Il doppio di quanto calcolato nelle proiezioni. Se il melting pot fosse un fallimento, dovremmo vedere folle intere scappare dagli Stati Uniti e cercare dimora in Albania, in Slovacchia, o nel Nicaragua.

Mathieu - La parte di Nuova Spagna che attualmente fa parte degli Stati Uniti è più vasta del Messico attuale. è possibile che nutra ancora un sentimento di amore verso le sue radici europee e verso abitudini considerate latine e quindi diverse dalla mentalità americana?

Revel - Citerò uno scritto di Mario Vargas Llosa dell’ottobre 2000: «Noi ispanofoni eravamo un tempo una comunità chiusa, pochissimo presente fuori delle sue frontiere linguistiche. Oggi al contrario la lingua spagnola dimostra una vitalità crescente e conquista teste di ponte nei cinque continenti. In particolare gli Stati Uniti contano oggi venti o trenta milioni di ispanofoni, e ciò spiega il fatto che i candidati attuali alla presidenza, il governatore del Texas Bush e il vicepresidente Al Gore utilizzino anche lo spagnolo nei loro discorsi elettorali. Ciò mostra che la mondializzazione, contro cui tanti si scagliano, favorisce la diversità culturale». E questo vale in particolare per gli Stati Uniti.

Mathieu -
L’ideologia liberale, in particolare la dottrina di Montesquieu si direbbe più viva negli Stati Uniti che in Francia. Non Le sembra un paradosso che un liberalismo di matrice francese abbia prosperato di più in America che nella tradizione illuministica della Francia?

Revel - Uno storico, Laurent Theis, ha parlato di «duecento anni di amori contrastati» tra il popolo americano e il popolo francese. Il favore di cui gli americani godevano in Francia dopo La Fayette si è rovesciato in Francia in una repulsione fino al parossismo. è comprensibile che un tradizionalista come il de Bonald, che non apprezzava nessuna forma di democrazia, non cogliesse il nesso tra democrazia politica, liberalismo economico, istruzione pubblica e prosperità. Molti in Francia non si accorsero prima di Tocqueville, e anche dopo, del progresso degli Stati Uniti verso il suffragio universale. Questo fu istituito per i maschi negli Stati Uniti nel 1820 e in Francia nel 1848. Ed entrò effettivamente in funzione solo con la Terza Repubblica. Anche per le donne alcuni Stati americani precedettero le altre democrazie. Le donne ebbero diritto di voto nel Wyoming nel 1869 e in altri undici Stati tra il 1869 e il 1914. In tutti gli altri nel 1920, mentre in Francia dovettero attendere fino al ’44. Dopo l’11 settembre il direttore di Le Monde subì molte reazioni ostili da parte dei lettori e dei suoi stessi redattori per avere scritto “Siamo tutti americani”. Anche dopo l’11 settembre la sinistra non rinuncia senza dolore alla demonizzazione degli Stati Uniti: tanto più dopo che il socialismo è naufragato.

Mathieu -
In Francia, però, è ancora molto forte il senso dello Stato. Ricordo che quando ero a Parigi, passando davanti a un negozio di ortofrutticoli udii dire dalla verduriera all’autista di un furgoncino «Il faut respecter la police». In Italia non verrebbe in mente a una verduriera di dire che si deve rispettare la polizia.

Revel - Si trattava probabilmente di un’infrazione al codice della strada. Ma certi giornali francesi si sono fatti beffe di Giuliani, chiamato Giussolini a causa delle sue origini italiane, per aver sostenuto, quando era sindaco di New York, il concetto della tolleranza zero. Giuliani, al contrario di Mussolini, non ha mai praticato una politica di repressione brutale, ma ha cominciato a punire tutti i reati anche minimi, come il furto di biciclette, sostenendo che la delinquenza va soffocata nell’uovo. La Francia, dopo essersi rifiutata per venti anni di riconoscere che c’era un problema di insicurezza, quando finalmente acconsentì ad accorgersene, seguì a tutta prima la sinistra in una politica detta di prevenzione, che non riuscì a prevenire niente. Nel 2001 c’è stata la svolta brusca: un titolo di Le Monde diceva: «La sinistra non privilegia più le spiegazioni sociologiche della delinquenza». Jospin dichiarò che ogni infrazione delle regole deve trovare la giusta sanzione. Ciò non impedì al ministro della Giustizia, signora Lebranchu, di prendere le distanze da ogni assimilazione: «Il governo non vuole riprodurre il modello americano».

Mathieu -
In Italia i liberali sono stati lungamente paralizzati dal timore di apparire reazionari: è possibile che questo sia avvenuto anche in Francia?

Revel - Accade per lo meno in Inghilterra che i laburisti acquistino una mentalità più libera di quella dei liberali. Ne è un esempio la decisione di Blair di scendere in campo in Iraq accanto agli Stati Uniti. Con ciò però Tony Blair ha visto levarsi contro di lui numerosi deputati del suo partito e perfino qualche ministro del suo governo.

Mathieu -
Non c’è dubbio che i liberal americani siano più gauchistes di alcuni rappresentanti delle sinistre europee. Cercano di paralizzare gli avversari con il criterio del “politicamente corretto”.

Revel - Certe organizzazioni difendono quelli che chiamano “diritti dell’uomo” solo quando si tratta di scusare i peggiori avversari delle democrazie e di impedire alle democrazie di proteggersi. Sono le organizzazioni che si sono spesso mobilitate contro la carcerazione di assassini del movimento basco dell’Eta. Le stesse organizzazioni hanno reclamato l’applicazione della convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra a favore dei terroristi di Osama bin Laden internati a Guantanamo.

Mathieu -
Anche in Italia i liberali sono spesso antiliberisti e citano l’esempio di Benedetto Croce secondo cui il liberismo economico non è necessario al liberalismo politico. Può essere questa anche la radice di un indirizzo statalistico nei liberal americani?

Revel - Gli europei tendono a pensare che dietro le lobbies ci sia sempre il grande capitale. Samuelson ha mostrato che le lobbies americane più potenti non sono quelle delle grandi imprese: sono ad esempio quelle dei pensionati o degli agricoltori. Gli avversari del liberismo fanno assegnamento sul denaro dello Stato. In realtà il solo denaro pubblico possibile è quello che lo Stato preleva mediante le imposte sul reddito privato. Si tratta di vedere se contribuiscano meglio i privati decidendo come destinare i loro soldi o lo Stato che destina il frutto delle imposte su indicazione di una minoranza di decisori politici e amministrativi.

Mathieu -
Per concludere, una domanda molto attuale sul conflitto che è in corso contro il fondamentalismo islamico: secondo Lei esiste un parallelo tra l’islamismo radicale e alcune forme di totalitarismo del Ventesimo secolo?

Revel - Le differenze sono più grandi delle analogie. Il cambiamento è avvenuto nell’ultimo terzo del Ventesimo secolo, quando i politici e i mezzi di comunicazione francesi si sono messi a parlare di “comunità” ebraica, musulmana o protestante, mentre prima c’erano solo cittadini o residenti di confessione o di tradizione ebraica, musulmana o protestante. Tra le pretese comunità, la più favorita dai poteri pubblici è la musulmana. Ma questo culto che la Repubblica rende all’“eccezione culturale” musulmana non serve all’integrazione; al contrario, suscita odio. Questo comunitarismo dell’odio richiama nel nome il comunismo ma è in gran parte conseguenza dell’ideologia che con il pretesto dell’eguaglianza culturale rifiuta ai magrebini l’accesso alla cultura francese.

05 maggio 2006

 

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