Sinistra e magistratura
di Nicolò Zanon
da Ideazione di marzo-aprile 2006
A fine gennaio, all’inaugurazione del nuovo anno giudiziario, spiccano
le sedie lasciate vuote dai magistrati, per protesta contro la legge di
riforma approvata dalla maggioranza di centrodestra. Qualche settimana
prima, a un convegno di Magistratura democratica (la corrente dei
magistrati culturalmente più organica alla sinistra), viene proclamata
la necessità di “non fare alcun passo indietro” rispetto alla politica
(e alla classe politica), e si invoca l’obbligo dell’Unione – in caso di
vittoria alle elezioni di aprile – di spazzar via tutte le leggi in
materia di giustizia approvate dalla Casa delle Libertà: non solo le più
famigerate leggi cosiddette ad personam, ma proprio e soprattutto
l’intera stessa riforma dell’ordinamento giudiziario. In quella sede, ai
dubbi e alle esitazioni mostrate da Giuliano Pisapia, che per
intelligenza e preparazione personale non potrebbe condividere posizioni
così estreme, risponde con durezza il responsabile ds del settore
giustizia, Massimo Brutti: non si faranno sconti, è tutto da cancellare.
Sono solo gli ultimissimi episodi di una guerriglia culturale che la
magistratura associata ha combattuto non soltanto contro i contenuti
della legge di riforma, ma – si faccia attenzione – contro l’idea stessa
che un legislatore potesse legittimamente apprestare (per carità: con
limiti, difetti e contraddizioni anche forti) un intervento normativo
riformatore, non di facciata, dell’organizzazione giudiziaria. Come se
l’autonomia, costituzionalmente garantita, nell’amministrazione della
giustizia rendesse l’ordinamento giudiziario una sorta di zona franca
dall’intervento del legislatore democraticamente eletto.
Ma la cronaca costituzionale offre ulteriori inediti esempi: nel
messaggio con il quale il presidente della Repubblica rinvia alle Camere
la legge che prevede l’inappellabilità, da parte della pubblica accusa,
delle sentenze di assoluzione in primo grado, tra le ragioni del rinvio
spiccano soprattutto – e sono anzi esplicitamente citate con nome e
cognome – le lamentele avanzate contro la legge dalla Corte di
Cassazione e dalla cosiddetta “rete delle giurisdizioni superiori
europee”: come se si trattasse delle stesse fonti ispiratrici della
decisione presidenziale, giunte così ad esprimersi al più alto livello
del nostro ordinamento costituzionale. L’informazione giornalistica sui
temi del confronto politica-giustizia meriterebbe poi un capitolo a
parte. Sulle pagine dell’autorevole Sole 24 Ore, ma anche in quelle del
Corriere della Sera, ogni volta che una linea di politica legislativa
della maggioranza incide sui temi della giustizia non solo vengono
riportate con grande risalto le posizioni, ovviamente contrarie, della
magistratura associata (com’è giusto e legittimo che accada,
naturalmente), ma si lascia costantemente intendere che è assurda la
pretesa del legislatore di voler incidere su questioni che, in fin dei
conti, sarebbe meglio lasciare gestire in autonomia alla stessa
magistratura. Indimenticabile, a questo proposito, un titolo comparso
sul Sole 24 Ore, ove per mettere in cattiva luce una scelta di politica
legislativa su temi attinenti alla giustizia se ne denunciava il
contrasto frontale con la giurisprudenza della Cassazione (maturata
sulla legge che il legislatore desiderava cambiare): come se non fosse
legittimo compito del legislatore in carica modificare leggi non
condivise, e come se non toccasse ai giudici applicare e rispettare le
leggi, anche quelle nuove.
E’, questo, il quadro di una contrapposizione frontale fra classe
politica e ceto giudiziario che arriva talvolta a toccare toni
apocalittici, quasi fosse una guerra tra due mondi alieni: come di
recente testimonia, con grande forza simbolica, la raccolta di firme per
il referendum anti-riforma costituzionale organizzata dai magistrati del
tribunale di Bergamo; e come analogamente testimoniò, nel 2004, la
protesta dell’anm all’inaugurazione dello scorso anno giudiziario,
quando i giudici si presentarono nelle aule ostentando il testo della
Costituzione del 1948. La Costituzione del 1948 difesa dai magistrati
contro i “nuovi barbari”, che l’aggrediscono. Difficile immaginare
conflitto più radicale nei suoi presupposti: noi (magistratura) siamo la
legittimità, voi (classe politica di maggioranza) l’eversione, e noi ci
assumiamo l’incarico di guidare alla resistenza (ricordate il
«resistere, resistere, resistere»?), o meglio di testimoniarla.
Di fronte a simili, impressionanti, forme di radicalismo parrebbe
impossibile ogni pacato ragionamento, ogni ragionevole distinguo: e
sembrerebbero provenire da un altro pianeta anche le osservazioni
sull’assurdità che estremismi del genere provengano da funzionari che
dovrebbero dar prova di equilibrio e anche apparire (non solo essere)
imparziali…
Il collateralismo è l’effetto non la causa
Quelli citati sono solo alcuni episodi, fra i tanti che si potrebbero
elencare, utili a dare il polso di un clima che peraltro è lo stesso da
anni e che, certo, si è radicalizzato in occasione della tormentata
approvazione della legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, la
quale evidentemente ha toccato alcune corde scoperte nella suscettibile
corporazione giudiziaria. Con un ragionamento di breve respiro, si
potrebbe pensare che questa stagione di contrapposizione tra
magistratura e classe politica sia eccezionale e sia solo dovuta alla
presenza di una maggioranza politica fortemente ostile (per mille
motivi) alle posizioni dominanti nella magistratura associata, e incline
ad approvare provvedimenti percepiti come punitivi da quest’ultima. E si
potrebbe così ritenere che, una volta sconfitta quella maggioranza, il
clima tornerebbe ad essere di pacifica e leale collaborazione
istituzionale.
Se questa tesi fosse corretta, ammesso che le elezioni di aprile le
vinca l’Unione, tutto dovrebbe allora tornare, come per incanto,
nell’alveo della normalità. Una normalità, potrebbe peraltro aggiungere
preoccupato qualcuno, nella quale l’oggettiva saldatura tra nuovo potere
politico e correnti dominanti della magistratura porterebbe
necessariamente a un restringimento degli spazi culturali e politici di
progettualità riformatrice, e segnerebbe anzi la fine definitiva delle
speranze di cambiamento forte nell’organizzazione e nell’amministrazione
della giustizia.
Il fatto è che questa visione è semplicistica. Essa assolutizza il
“collateralismo” tra le forze politiche di centrosinistra e la
magistratura, e scambia l’effetto con la causa. Un certo collateralismo
(quello che produce le lamentele contro le «toghe rosse») esiste
certamente e non è banalizzabile solo in termini di onnipresenza
mediatica di qualche magistrato noto e politicamente esposto. È qualcosa
di molto più antico e profondo, che affonda le sue radici in decenni
lontani e si è nutrito di una capillare presenza di magistrati
politicamente orientati nelle correnti in cui si è organizzato il ceto
giudiziario, nei corsi di formazione professionale gestiti dal csm,
nelle riviste giuridiche dei magistrati, e così via. E’ in definitiva –
lo si deve riconoscere apertamente – il prodotto di una notevole
capacità culturale o metapolitica, che ha costantemente saputo orientare
il dibattito interno alla magistratura intorno ad alcune linee di fondo,
marginalizzando le voci critiche.
Ma questo collateralismo è solo un aspetto della questione ed è, come si
diceva, più un effetto che una causa. La magistratura e l’attività
giudiziaria hanno conquistato nella nostra società (ma il fenomeno
riguarda in misura più o meno analoga tutte le democrazie occidentali)
uno spazio e un’importanza che non sono contingenti, o dovuti a qualche
stagione di bieco giustizialismo. E’ banale ripeterlo qui, ma è chiaro a
qualunque osservatore che, ormai, nei processi di produzione normativa,
e nei meccanismi di governo delle società complesse come la nostra, il
“posto” della giurisprudenza è quasi superiore a quello della
legislazione democraticamente legittimata. E non sembri ingenuo
meccanicismo sostenere che, di conseguenza, è altrettanto importante il
“posto” occupato dalla corporazione o dal ceto che a quell’attività
giudiziaria si dedica per professione.
A fronte di un testo costituzionale che continua a ripetere che il
giudice è soggetto alla legge, si può facilmente constatare come
l’approvazione di una legge in Parlamento non chiuda affatto, ma al
contrario apra, nella società, la lotta per la determinazione del suo
significato; ed è ben noto come l’interpretazione giudiziaria e il peso
dei desideri e degli interessi della magistratura giochino in questo
processo un ruolo decisivo.
Anche il processo d’integrazione europea, pur con i suoi passi falsi,
gioca nella stessa direzione. Anzi, nella sua stessa essenza il diritto
dell’Unione Europea, che ha un ruolo ormai dominante, è un diritto di
formazione tipicamente giurisprudenziale, una sorta di rinnovato diritto
comune, in cui la discrezionalità e la ragionevolezza delle scelte
giudiziarie cercano di tenere insieme, sia pur spesso a un livello di
sintesi elementare, istituti e concetti provenienti dalle tradizioni in
parte diverse dei diversi ordinamenti giuridici.
Semplificando un po’, questo è il dato realmente costituzionale che
l’Italia e l’Europa di questi decenni esibiscono: un certo arretramento
della politica, delle sue capacità progettuali, innovative e
riformatrici, e un forte accrescimento delle capacità d’incisione sul
reale dell’attività giudiziaria, in tutte le sue forme, con connesso
incremento di influenza della corporazione giudiziaria. In questo
contesto, scandalizzarsi per le candidature dei magistrati alle elezioni
è da buoni liberali, intendiamoci, così come sarebbe giusto approvare
norme sul punto più restrittive: ma, a voler essere cinici, si dovrebbe
riconoscere che si punterebbe così sul bersaglio sbagliato, perché
rischia di esserci molta più sostanza politica in un orientamento
giurisprudenziale ben argomentato che non nella candidatura alle
elezioni, pur massmediaticamente appariscente, di qualche procuratore
della Repubblica.
Ora, oltre che dagli elementi di controllo gramsciano che prima si
accennavano, la saldatura oggettiva che spesso si lamenta tra
magistratura e classe politica di sinistra è dovuta al fatto che, nella
cultura più profonda di quest’ultima, prevale spesso la celebrazione
acritica di quello stesso diritto giurisprudenziale che, come si diceva,
si forma e si espande nella società, ben al di là di una legittimazione
democratica. Quella saldatura è dovuta a una certa empatìa culturale,
alla concordanza nel darsi alla teorizzazione consapevole di concezioni
quasi paternalistiche dei processi di creazione delle regole.
E’ in effetti paradossale, ma corretto, rimproverare a larghi settori
del pensiero politico dell’attuale sinistra di aver contribuito a
delegittimare il proprio stesso ruolo e i compiti della politica al
cospetto della crescita di ruolo dell’attività giudiziaria. Perché
questo pensiero argomenta spesso la pretesa superiorità del diritto di
formazione giurisprudenziale, enfatizzandone l’estraneità alle miserie
di una politica mal considerata e giudicata eticamente insufficiente.
Qui, complesso di superiorità della sinistra e giudizio etico sul
berlusconismo si confondono, e finiscono per delegittimare la politica.
Molti tra i maîtres à penser della sinistra, messi alle strette, vi
diranno che le regole di origine giudiziaria posseggono qualità
intrinseche di razionalità incontestabilmente maggiori di quelle che la
legge parlamentare potrebbe invocare. Ed è curioso vedere sorgere a
sinistra una sorta di paternalismo giurisdizionale, nutrito di profonda
diffidenza verso il legislatore democratico, osservato ora con cigliosa
sufficienza, ora col disprezzo che si riserva alle maggioranze
irrazionalmente mutevoli ed emotive, prive, rispetto alle materie da
regolare, di quella indispensabile consapevolezza tecnica posseduta
invece dai veri sapienti (fra i quali, in primis, i magistrati…).
Se voi faceste parte della corporazione giudiziaria, potreste resistere
alla tentazione di allearvi con questi chierici suicidi, che
programmaticamente sanciscono la rinuncia al proprio ruolo e
contemporaneamente vi collocano sugli altari?
Una contrapposizione destinata a durare
Ma non saranno rose e fiori per nessuno, nemmeno se le elezioni le vince
l’Unione. La pace e la saldatura oggettiva di cui si diceva dureranno
solo finché i nuovi chierici resteranno rinunciatari. Se la politica
dovesse riprendere il sopravvento in termini di volontà riformatrice e
di iniziativa, la contrapposizione tra classe giudiziaria e classe
politica continuerà: non avrà magari i toni da scontro di civiltà che ha
assunto nell’ultima legislatura, assomiglierà di più a un regolamento di
conti velenoso tra ex compagni di strada che ben si conoscono, ma sarà
comunque durissima.
Perché i temi oggettivamente sul tappeto sembrano fatti apposta per
attizzare lo scontro tra un ceto fortissimo, geloso del proprio ruolo e
dei propri spazi, e una classe politica che non ritenga di abdicare
silenziosa a un minimo di scelte di fondo. Facciamone un elenco limitato
alle questioni più appariscenti: la carriera di questa corporazione di
funzionari potenti deve o no essere soggetta a periodici controlli di
professionalità, sui quali la legge del Parlamento (e non solo le scelte
del csm) oggettivamente deve avere voce in capitolo? E’ pensabile
continuare a convivere con un csm che aspira al ruolo di terza Camera
dispensatrice di pareri al Parlamento (che sembrano proclami) sulle
leggi in materia di giustizia, anche laddove nessuno li chieda? E’ un
assetto costituzionale accettabile quello in cui il csm decide degli
avanzamenti in carriera di quegli stessi magistrati che lo eleggono? La
netta separazione della carriera, oltre che delle funzioni, tra
magistrati e pubblici ministeri è solo una fissazione degli avvocati di
Berlusconi o non, piuttosto, la pre-condizione per un ordinamento
giudiziario da paese civile? E non sarà magari quella stessa Europa
tanto lodata a imporci una legge decente sulla responsabilità civile dei
giudici, che adesso non abbiamo, in spregio anche al referendum del
1987? La (ir)ragionevole durata dei processi, che si traduce in lesione
delle aspettative di giustizia dei cittadini, dipende sempre e solo da
qualcun altro o non, piuttosto, anche da come è organizzato, dagli
stessi magistrati, il lavoro dei magistrati?
Sono tutti interrogativi retorici, naturalmente. E a ben guardare non
costituiscono altro che la banale ossatura di un programma minimale in
tema di giustizia, punti di orientamento che qualunque schieramento
politico, ragionevolmente, dovrebbe presentare agli elettori. E,
tuttavia, è sufficiente metterli in fila per capire che chi volesse
meritoriamente affrontarli, o ri-affrontarli, non si vedrebbe resa
facile la vita.
28 marzo 2006
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