Sinistra e territorio
di Cristiana Vivenzio
da Ideazione di marzo-aprile 2006

Con la valanga rossa nelle ultime elezioni amministrative, sono ben diciassette le Regioni governate da giunte di centrosinistra. Questo strapotere regionale si somma a quello di province e comuni disegnando una mappa unicolore del governo territoriale del nostro paese. Vi si contrappone il fronte ridotto di tre Regioni (Lombardia, Veneto e Sicilia) rafforzato – si fa per dire – da sparute isole comunali e provinciali.

Nel nostro paese esiste una macroscopica sproporzione nella struttura del potere che – nella dimensione localistica – premia quasi esclusivamente una parte politica. Questa sproporzione è indice di una capacità indiscussa della sinistra: la conquista del potere. Il quale poi, in molte parti del paese, è stato mantenuto per decenni, indice del fatto che la sinistra non solo sa conquistare ma ancor di più sa godere della rendita di posizione che all’esercizio del potere è da sempre connessa. Ma in che modo si conquista e si mantiene a lungo il potere?

E’ proprio vero che esiste un buongoverno delle amministrazioni rosse che premia elezione dopo elezione quella parte politica? Ed è altrettanto vero che una gran parte di quanto è accaduto, e tuttora accade, può essere imputabile ad un avversario che non c’è, ad un’opposizione che, se esiste, si piega ai meccanismi di un sistema corporativo, indugia in un atteggiamento attendista se non del tutto rinunciatario? Basta trascorrere anche un breve periodo della propria vita in città come Roma o Napoli – vere e proprie roccaforti del potere rosso in Italia – per cominciare a porsi qualche dubbio sulla vivibilità delle città, delle Regioni amministrate dal centrosinistra. E non occorre far appello alle degenerazioni patologiche di alcune realtà locali, come la Campania, o alle connivenze “improprie” tra poteri politici e poteri economici, come è avvenuto di recente tra ds e cooperative rosse con il caso Unipol, per capire che il buongoverno è ormai solo un mito, costruito su una serie di fattori congiunti – storici, ambientali, territoriali – ma ormai privo di fondamento. Per capire che è finito il tempo delle grandi progettualità riformatrici e che oggi in quelle città, in quelle regioni quando pure si riesca a far fronte ai problemi contingenti, sembra non si riescano più a risolvere i problemi endemici.

Come si crea il controllo sociale


Storicamente il buongoverno ha avuto un suo fondamento: il pci, il psi e le organizzazioni legate alla sinistra e al movimento operaio, hanno creato nelle zone rosse una fitta rete associativa, attiva nei principali settori della vita sociale e individuale: dall’assistenza al volontariato, al tempo libero, all’educazione, che ha prodotto gli effetti del buongoverno, accentuando il radicamento territoriale di queste culture politiche sui territori amministrati. Come conseguenza, da un punto di vista strettamente politico-sociale, si è avuta una sostanziale stabilità del sistema. Questa stabilità ha ottenuto l’apprezzamento dei cittadini, i quali a loro volta non hanno fatto mancare il loro consenso elettorale a quei partiti. In altri termini, la presenza di subculture politiche di sinistra in alcune specifiche zone del paese ha innescato una sorta di circolo virtuoso, contribuendo a rinsaldare la dimensione localistica e il suo sistema politico, che in questo modo è riuscito a conquistare notevolissimi margini di autonomia rispetto al centro.

Tutto ciò è stato possibile anche grazie alla possibilità, di cui per decenni il pci ha potuto beneficiare, di dirottare risorse sulle regioni amministrate seguendo una logica politica che allo stesso tempo coniugava una buona dose di clientelismo con i processi di modernizzazione e con le politiche di assistenza sociale. Il controllo di quelle risorse ha fatto sì che anche i ceti borghesi e imprenditoriali fossero obbligati a mettersi sulla scia della maggioranza politica regionale, stringendo una sorta di patto di ferro localistico che ha saputo reggere ma non rinnovarsi. A ciò si aggiunge poi che le strutture di partito e quelle istituzionali hanno rappresentato un’opportunità in termini di possibilità lavorative e di accessi al sistema politico per un gran numero di cittadini, che proprio per questo vi si riconoscono ed identificano.

Ma a quale prezzo? Uno dei prezzi pagati è certamente stata la subalternità diffusa della società civile nei confronti della politica e delle istituzioni, le quali in questo modo hanno per anni assicurato l’esercizio di quel fortissimo controllo sociale che di fatto ha impedito la possibilità di ricambio e di alternativa. Tutto ciò ha risposto, ed ancora risponde, ad un modo superato di fare politica, ormai asfittico e senza prospettive: rivive in pieno quella prassi politica che aveva come unico scopo la perpetuazione del consenso attraverso una distribuzione mirata delle risorse, attraverso la moltiplicazione di incarichi e ruoli, attraverso la creazione e la continua elargizione ad enti e istituti, consigli e comitati, associazioni e fondazioni, osservatori e agenzie. Questo tipo di prassi, che di fatto ha finito per identificarsi con la gestione amministrativa del potere, ha prodotto il venir meno di quel rapporto dialettico tra politica e amministrazione che invece è la sostanza di un sistema politico che funziona. Laddove cioè la politica, sia essa di movimento o di partito, stimola e critica l’amministrazione nell’esercizio quotidiano del potere.

Si potrebbe ben gridare al regime, un regime dolce, democratico che però porta con sé tutti i connotati di un regime: l’assenza di ricambio politico, la forte compenetrazione tra amministrazione e struttura di partito, la mancanza di un pluralismo reale, la connivenza di tutte le parti sociali ed economiche. In sostanza a comandare rimangono le stesse persone alternandosi da una carica all’altra. Questa gestione oligarchica del potere privilegia esclusivamente gli interessi di gruppi ristretti e ceti sociali piuttosto che quelli generali. Quando non gli interessi particolari di coloro che, non avendo una vera attività professionale alternativa, devono necessariamente tenersi saldi sul carro della politica.

Ciò produce una pratica consociativa perenne. Solo così il regime si autoalimenta e si consolida, rafforzato anche da una forte dose di conformismo culturale e delle idee. Pratica consociativa, distribuzione di incarichi e risorse, controllo delle rappresentanze della società civile, monopolio della cultura e dei luoghi dove si fa cultura, che spesso va di pari passo con un sotteso potere di influenza sugli organi di informazione, a cui si aggiunge la capacità della sinistra di mettere in pratica, solo a livello locale, un fortissimo potere di coalizione che gli permette di tenere insieme una maggioranza di elettori, conquistando i voti determinanti dei moderati, degli indecisi, di coloro che non trovano in un’alternanza possibile un’alternativa reale; tutto questo ha contribuito a rendere inamovibile il sistema. Cosa accadrebbe se queste condizioni si riproducessero su larga scala, a livello nazionale?

Umbria, un caso emblematico

Il caso dell’Umbria è insospettabile quanto sintomatico del funzionamento del “regime rosso”. In Umbria vivono attualmente circa 859.000 abitanti. E nonostante vi sia stato un aumento della popolazione, esso è imputabile secondo le valutazioni istat alla regolarizzazione degli immigrati. Oltre il 50 per cento della popolazione è costituita da pensionati, l’importo medio annuo delle pensioni è di 7.273 euro (contro la media nazionale di 8.251,3). La famiglia umbra ha in media 17.551 euro in banca, poco sotto le percentuali nazionali. Il 51 per cento delle famiglie umbre usa il computer e appena il 25 per cento Internet. La sedentarietà è tra le più alte d’Italia. Il pasto principale è il pranzo, nella stragrande maggioranza dei casi consumato in casa. Solo questi sono dati che danno l’idea di una regione lentamente destinata a morire, in cui i giovani trovano con sempre maggior difficoltà possibilità di impiego e sono costretti ad andarsene e le persone anziane riscoprono, grazie ai continui incrementi di spesa pubblica, il posto ideale per finire i propri anni. Ma continuiamo.

Secondo un rapporto del ministero degli Interni l’Umbria è considerata un «crocevia pericolosissimo di bande criminali multietniche della droga e della prostituzione». Negli ultimi cinque anni di governo regionale non c’è un solo indicatore che non abbia registrato un arretramento della Regione sia a livello economico, sia politico, sia sociale. «L’Umbria ha uno degli indebitamenti più alti tra tutte le regioni italiane – sostiene Carlo Ripa di Meana, nella precedente legislatura consigliere regionale – ha, con la Liguria, il numero più alto di pensionati, registra una crisi acutissima dell’acciaio a Terni, la chiusura di molte aziende medio-piccole nella provincia di Perugia, una vistosa flessione del turismo con l’eccezione degli agriturismi, una crisi delle colture agricole nell’intera Valle del Tevere. Un consumo crescente del territorio con una proliferazione di zone industriali improvvisate e mostruose». «I problemi del Trasimeno – continua Ripa di Meana – sono irrisolti. Come quelli del Tevere. I problemi di viabilità urbana si sono acuititutto quello che le fu affidato nel 2000, Maria Rita Lorenzetti (ndr: attuale presidente della Regione) lo ha riportato nel 2005 tutto peggiorato. La stessa politica di relazioni internazionali dell’Umbria nel corso dell’ultima legislatura si è segnalata in particolare per l’incontro ad Assisi con Tarek Aziz, l’ultima riunione lontana da Baghdad della carriera del ministro degli Esteri di Saddam Hussein. Seguito, il conciliabolo assisano di Tarek Aziz, da incontri frequenti di esponenti della Giunta e del Consiglio dell’Umbria con il presidente Arafat».

L’Umbria possiede il record italiano di dipendenti pubblici sul numero di abitanti: 61 ogni mille. In pratica, 50.735 persone a carico, in vario modo, delle amministrazioni pubbliche. La sola Perugia conta, con 144.732 abitanti, 13 circoscrizioni – contro le 20 di Roma. In Umbria ci sono 298 enti istituiti e finanziati dalla sola Regione a cui corrispondono migliaia di nomine politiche, 1308, per la precisione.

«Quando nell’estate del 2000 ho iniziato il mio compito di consigliere regionale – ci dice ancora Ripa di Meana – sono stato chiamato a designare e nominare negli enti, nelle aziende dipendenti, nelle società e negli organismi più diversi decine e decine di revisori dei conti iscritti agli albi professionali, presidenti, consiglieri di amministrazione ed altri, tutti espressione di appartenenze e fedeltà partitiche». Secondo la normativa vigente dal 1995 il consigliere regionale può di diritto scegliere con voto segreto e secondo la propria preferenza chiunque possieda i requisiti adatti a quel dato incarico del tutto arbitrariamente, non essendo prevista la formazione preventiva di alcun albo dei candidati. «Nel corso di questi anni, nel tempo della mia appartenenza alla maggioranza, posso dire di aver ricevuto dal gruppo politico dei Democratici della sinistra all’ultimo momento, in aula, i nomi da votare scritti su un biglietto. Persone che, naturalmente, nella più parte dei casi non conoscevo e per le quali non ero stato in grado di esprimermi con conoscenza di causa, per l’assenza di un albo dei candidati e della pubblicazione dei relativi curricula. In questa condizione di voto alla cieca ho, con la sola eccezione di due persone invece a me note, votato scheda bianca».

Un sottopotere invisibile


L’abbandono della normativa che prevedeva la costituzione di un albo di candidati eleggibili e titolati induce a pensare che, come afferma Ripa di Meana, «l’opacità del sistema di nomina è intenzionale» e strumentale alla salvaguardia di un sottopotere delegato e retribuito di cui volontariamente non esiste traccia visibile ma che incide in misura determinante sulla costruzione del consenso. Si tratta, secondo Ripa di Meana, di una «rete capillare che il presidente della Regione, la Giunta regionale e il Consiglio regionale con la lunga prassi di nomine a scatola chiusa hanno costruito nel corso della storia della Regione Umbria. Dal 1995 in poi si è estesa la galassia di enti e altri organismi di nomina politica che perpetua un’influenza e un controllo molecolare elettorale nella società regionale». Tale situazione di immobilità, naturalmente, rappresenta un pesante carico sui conti dell’intera Regione. Vediamo come.

Dai risultati di un censimento effettuato in Umbria sul sottopotere politico – da cui sono stati tratti due dossier “Sprecopoli. I costi della politica in Umbria” e “Il sottogoverno in Umbria” – di 298 enti schedati solo la metà ha fornito informazioni sulle spese e gli emolumenti corrisposti. Soltanto 144 enti comportano un costo complessivo annuo pari a 2.240.000 euro. Si potrebbe allora sostenere, senza alcuna pretesa di attinenza alla realtà, che sia altrettanto il costo degli organismi che non hanno fornito alcuna informazione, per un totale di 4.300.000 euro annui.

Dei 298 tra enti, comitati, commissioni, aziende, centri, cooperative, consulte, consorzi, consigli, osservatori, fondazioni, istituti, camere di commercio, oltre 150 sono classificati come indispensabili. Effettivamente è sufficiente scorrere appena l’elenco delle strutture censite e trovare la “Commissione tecnica centro per l’imballaggio delle uova di Terni” nonché la “Commissione provinciale centro imballaggio uova di Perugia”, la “Commissione tecnica centrale del libro genealogico del cavallo agricolo da tiro pesante”, la “Associazione amici delle miniere” per capire l’indispensabilità di molti degli enti istituiti.

In Umbria esistono 8 comunità montane; la Lega delle cooperative conta 200 imprese di soci lavoratori; la cgil 115.000 iscritti. E poi ancora, se non a militare, anche solo a gravitare negli ambienti di sinistra la cna (Confederazione nazionale dell’artigianato), la Confesercenti, la cia (Confederazione italiana agricoltori). L’arci con i 195 circoli sparsi su tutto il territorio regionale; i gal (Gruppi di azione locale) che gestiscono i finanziamenti europei; la sta (Servizi turistici associati), la stl (Servizi turistici locali). E così via. Ma fino a dove? E fino a quando?

Il caso umbro è dunque solo un archetipo di come l’apparato amministrativo della sinistra realizzi il suo controllo sociale ed estenda un potere tentacolare che si dirama in tutti i gangli della società civile. Il pericolo è che questa rete, che oggi si estende diffusamente su quasi tutto il territorio grazie anche all’incapacità amministrativa del centrodestra di creare un modello alternativo e più libero, possa saldarsi con un’analoga rete a livello nazionale. La vittoria totale di una parte sola priva il paese dei necessari contrappesi. E la sinistra ha i mezzi per sbaraccare le diversità e imporre il pensiero unico. Senza più neppure la scusa del buongoverno.

28 marzo 2006
 

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