La vendetta del proporzionale
di Giovanni Orsina*
[02 mar 06]
da Ideazione di gennaio-febbraio 2006

La politica italiana è entrata negli ultimi mesi in una condizione di estrema instabilità. Corriamo il forte rischio che dopo le elezioni questa condizione divenga ancora più instabile e incerta. Il perché è presto detto: dopo il terremoto che all’inizio degli anni ’90 ha abbattuto la prima repubblica, per ricostruirsi in forma bipolare, la politica italiana ha fatto perno su un individuo: Silvio Berlusconi. Il berlusconismo ha rappresentato dal 1994 ad oggi la struttura portante dello spazio pubblico italiano – in positivo per il centrodestra, che vi ha trovato l’elemento capace di catalizzare uno schieramento debole di cultura e classe dirigente; in negativo per il centrosinistra, che vi ha trovato il nemico sul quale scaricare le proprie tensioni interne.


Purtroppo al di sotto di questa struttura – necessariamente caduca, poiché rappresentata da un individuo e quindi non istituzionalizzata – in dieci anni il paese non ha costruito nulla. Non è insomma riuscito a edificare né a consolidare degli elementi culturali, ideologici, politici, organizzativi, costituzionali che dessero allo spazio pubblico italiano una forma stabile e definita, proiettandolo al di là dell’inevitabile “uscita dal campo” del Cavaliere. Un decennio perduto, dunque? Perduto del tutto forse no; però non vi è dubbio che oggi, posti di fronte alla fine del berlusconismo, ci troviamo nella non invidiabile condizione di dover ricominciare più o meno tutto da capo. Si riparte dalla crisi del 1994, certo con dieci anni di esperienza in più, ed esperienza bipolare poi; ma anche con dieci anni in più di difficoltà economiche, deterioramento dei rapporti politici e culturali, incertezze istituzionali. E soprattutto, senza sapere bene quanto e che cosa di questi dieci anni possa e debba essere recuperato.
Date queste circostanze, immaginare che cosa accadrà nella politica italiana da qui all’estate del 2006 è virtualmente impossibile. I migliori scienziati sociali riescono a intuire qualcosa del futuro quando le variabili sono poche e il quadro politico e istituzionale relativamente stabile; considerato il numero di variabili presente oggi in Italia, e la fluidità della politica e delle istituzioni bisognerebbe avere la palla di vetro. Nelle prossime pagine mi limiterò dunque a rimettere un po’ in ordine il terreno politico, presentando quelle che mi paiono le quattro variabili principali della vita pubblica italiana dei prossimi mesi, e disegnando in forma assai ipotetica tre scenari possibili.

Le quattro variabili della vita pubblica italiana

I due rami del Parlamento hanno approvato la riforma elettorale in senso proporzionale. Se, come pare, il presidente della Repubblica dovesse controfirmarla senza opporre obiezioni (come appare al momento in cui scriviamo), si andrà alla scadenza elettorale in condizioni radicalmente mutate rispetto a quelle dell’ultima decade. Ora, i punti interrogativi principali sono due, relativi a come le forze politiche interpreteranno la nuova legge prima e dopo il voto.
Prima delle elezioni, è molto probabile che la proporzionale spinga ovunque possibile a moltiplicare le liste, così da intercettare il maggior numero possibile di consensi. È la strategia che già ha cominciato a seguire il Polo con il cosiddetto tridente – ossia il passaggio dal leader uno Berlusconi al leader trino Berlusconi-Casini-Fini – e che probabilmente il centrodestra seguirà nei prossimi mesi in maniera ancora più esasperata. È la strategia che, a quanto sembra, anche il centrosinistra adotterà per il Senato – là dove invece il problema della collocazione del leader Prodi lo ha costretto a ricorrere per la Camera alla lista unitaria. Quale sarà la risposta dell’elettorato a questa strategia, e come cambieranno i risultati a seguito della riforma elettorale e della moltiplicazione delle liste, è ancora tutto da vedere.


Così come tutta da verificare sarà la tenuta delle due coalizioni dopo il voto. La riforma elettorale proporzionale ha indebolito i due poli e rafforzato i singoli partiti – pure se non si può davvero dire che col sistema elettorale precedente i poli fossero tanto più forti e i partiti tanto più deboli, considerato quel che è accaduto ai governi della legislatura 1996-2001 e come la relativa stabilità della legislatura 2001-2006 debba essere ascritta alla presenza di Berlusconi ben più che a qualunque meccanismo istituzionale. La nuova legge, certo, prevede che i partiti si alleino prima del voto e che lo schieramento di maggioranza relativa goda di un premio. In assenza di una modifica della carta costituzionale che sia già in vigore, d’altra parte, la presenza di alleanze pre-elettorali e di un premio di maggioranza non dà garanzie certe quanto alla tenuta dello schieramento di governo. Se all’indomani del voto, incassato il premio, l’alleanza maggioritaria si sfascia è dubbio se si debba sciogliere le Camere e tornare alle urne. In conclusione: coesistendo nella nuova legge elettorale una logica proporzionale e una maggioritaria, e non essendoci regole costituzionali per le quali l’una prevalga sull’altra, l’interpretazione del sistema politico cui daranno vita le elezioni del 2006 sarà lasciata al gioco dei partiti e al presidente della Repubblica. Conoscendo l’Italia, è lecito ipotizzare che la logica proporzionale prevarrà sulla maggioritaria. Ma, per l’appunto, siamo nel campo delle ipotesi.


Il secondo elemento di incertezza è ovviamente rappresentato dai risultati elettorali. Al momento l’opinione prevalente (e dei sondaggi) è che vinca la coalizione di centrosinistra. Alle elezioni mancano però tanti mesi, e le moltissime sorprese cui continuamente assistiamo – da ultimo quella tedesca – dovrebbero insegnarci ad essere prudenti. Tanto più che la convinzione diffusa che le elezioni saranno certamente vinte dall’opposizione potrebbe spostare in qualche misura l’onere della prova su di essa, e per paradosso sciogliere almeno in parte il governo dall’obbligo di rendere conto del proprio operato – come, ancora, è accaduto in Germania. Quali che saranno i risultati, non bisogna dimenticare che vi è fra i due poli una forte asimmetria.


Subito dopo il voto si procederà all’elezione del successore di Ciampi. E qui sorgono due interrogativi principali. Il primo, in che misura lo schieramento vincitore delle elezioni (se vi sarà uno schieramento vittorioso) riuscirà a utilizzare quella poltrona per scaricare le proprie tensioni interne. Dove la possibilità di mandare al Quirinale un personaggio altrimenti destabilizzante per la maggioranza dipenderà anche dalla forza elettorale di quella maggioranza – ossia dagli equilibri di potere interni al collegio elettorale presidenziale, equilibri rispetto ai quali il centrosinistra, governando la maggior parte delle Regioni, appare fin d’ora avvantaggiato. Il secondo interrogativo è relativo agli orientamenti politici e istituzionali del nuovo presidente. In presenza di una legge elettorale proporzionale e maggioritaria al contempo, e in assenza di una disciplina costituzionale che stabilisca il prevalere di un criterio, il futuro presidente godrà di un potere considerevole nell’indirizzare il sistema politico.


A giugno, o al più tardi in autunno, si svolgerà il referendum sulla riforma costituzionale approvata dall’attuale maggioranza. La parte della riforma che ci interessa ai fini di questo ragionamento, ossia quella relativa ai rapporti fra governo e Parlamento, entrerà in vigore, in caso di esito positivo del referendum, fra due legislature. Malgrado l’applicazione delle norme sia dilazionata, è evidente che l’eventuale approvazione della riforma avrà fin da subito un effetto di stabilizzazione – rafforzerà insomma l’elemento maggioritario della nuova legge elettorale a scapito di quello proporzionale. All’inverso, qualora l’elettorato dovesse respingere la legge, il tasso di incertezza e instabilità del sistema politico ne risulterà accresciuto. In più i risultati delle politiche avranno un effetto di trascinamento anche sul referendum.

I tre scenari possibili


È evidente che qualsiasi previsione non potrà che essere altamente ipotetica. Prima di immaginare i tre possibili scenari, è necessario specificare quale sia l’asimmetria fra i due schieramenti. In breve: lo schieramento di centrosinistra fa perno su un partito sostanzialmente solido come i Ds; quello di centrodestra, invece, su un partito fortemente legato alla vicenda personale di Berlusconi – e quindi poco istituzionalizzato, e quindi ben più fragile – come Forza Italia.


L’eventuale vittoria del centrosinistra avrebbe perciò un impatto assai destabilizzante sul centrodestra, che si troverebbe ad affrontare il problema del post-berlusconismo nelle condizioni peggiori. In primo luogo, conterà in quel caso quanto cattive siano quelle condizioni: ossia, quando dura sia stata la sconfitta, e come i voti si siano distribuiti fra i partner dell’alleanza. In secondo luogo, bisognerà vedere se e in quale modo il Cavaliere deciderà di “uscire dal campo”, e che cosa ne sarà allora di Forza Italia. A seconda delle mosse di Berlusconi, infine, si vedrà come si muoveranno i possibili delfini, all’interno del partito e dello schieramento. Tenendo presenti tanto i tatticismi, spesso esasperati, che nella politica italiana non mancano mai quanto il processo di riallineamento oggi in corso nel Polo – processo guidato in primis dalla ridefinizione della questione religiosa, e per il quale, ad esempio, Fini non può più essere considerato “a destra” di Casini.


La destabilizzazione del centrodestra non potrà non riflettersi anche sul centrosinistra – che appare tutt’altro che compatto, e in termini ideologici è anzi ben più eterogeneo del suo concorrente. Uno dei principali fattori di instabilità del centrosinistra è l’eccesso di leader e l’impossibilità di trovare per ciascuno di essi una collocazione soddisfacente. Un secondo fattore di instabilità è il non facile rapporto fra il vertice della coalizione e quello dei singoli partiti – rapporto che il clima pre-elettorale e le primarie hanno per ora agevolato, ma che è destinato a tornare problematico all’indomani del voto. Bisognerà vedere in primo luogo fino a che punto la poltrona del Quirinale potrà essere utilizzata per “togliere di mezzo” una pedina di rilievo – tenendo presente che quella pedina non può in questo caso che essere Prodi, tutti gli altri leader del centrosinistra non essendo candidati né candidabili alla presidenza. E in secondo luogo se si apriranno spazi politici liberati dalla crisi del centrodestra, e di quale entità, e quanto forte sarà per i centristi del centrosinistra la tentazione di riempirli. Per paradosso, se il centrosinistra vincesse le elezioni, a Prodi converrebbe che la riforma costituzionale superasse il referendum, poiché leadership e posizione al governo ne risulterebbero rafforzate.


Un’eventuale vittoria consentirebbe al centrodestra di affrontare il problema del post-berlusconismo da posizioni di forza. In secondo luogo, il risultato delle elezioni avrebbe un effetto di trascinamento sul referendum costituzionale, il cui successo contribuirebbe a dare equilibrio al sistema politico. D’altra parte, bisogna pure tenere presente come i processi di mutamento interni al Polo siano di tale profondità che nemmeno una seconda vittoria elettorale garantirebbe di per sé una fuoriuscita soft dal berlusconismo. E considerati i rapporti di forza nelle Regioni, non è così probabile che la poltrona del Quirinale possa essere utilizzata per agevolare questa fuoriuscita. Infine, se è vero che il centrosinistra affronterebbe la sconfitta assai meglio del centrodestra, mantenendo con ogni probabilità un assetto ragionevolmente stabile, è vero pure che da un lato un secondo insuccesso aprirebbe una difficile resa dei conti, dall’altro i movimenti interni allo schieramento maggioritario di centrodestra si rifletterebbero senz’altro sull’opposizione – tanto più che al momento il centrodestra appare in difetto, il centrosinistra in eccesso di classe dirigente.


Il terzo e ultimo scenario, non così improbabile, prevede una situazione di stallo, generata dalla presenza di maggioranze differenti alla Camera e al Senato. Immaginare gli esiti di questo scenario è del tutto impossibile. Piuttosto che avventurarmi sul terreno della profezia, preferisco quindi affidarmi a un auspicio: che in quel caso si vada per un biennio a un governo di Grosse Koalition, costruito su pochi punti programmatici assai precisamente definiti, e all’elezione di un’assemblea costituente che chiuda la lunga crisi istituzionale apertasi con Tangentopoli. Ma le convergenze in Italia non sono facili. E le convergenze virtuose, poi, quasi impossibili.

02 marzo 2006

* Giovanni Orsina, docente di Storia contemporanea all’Università La Sapienza di Roma, direttore scientifico della Fondazione Luigi Einaudi

 

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