Michael Oakeshott. Elogio di un genio incompreso
di Alexia Redini*
[11 gen 06]
da Ideazione, gennaio-febbraio 2006

Il 19 dicembre del 1990 si spegneva, nel suo cottage di Acton, un uomo che i necrologi dei giorni successivi, apparsi sul Times, l’Indipendent, il Guardian e il Daily Telegraph, non esitarono a definire come il filosofo politico più importante e originale della tradizione anglosassone «sin dai tempi di Mill e perfino di Burke». Fu soltanto allora che i suoi concittadini si resero conto che nella modestia e nella riservatezza di quell’uomo si nascondeva un importante pensatore inglese: Michael Joseph Oakeshott. D’altronde, che nessuno sapesse che si trattava di un filosofo famoso era naturale, se si pensa all’avversità che per tutta la vita aveva manifestato nei confronti dei riconoscimenti e delle onorificenze. Sembra, infatti, che nell’apprendere che i Beatles avevano ricevuto il premio mbe, egli avesse così commentato: «Assolutamente appropriato. Gli onori vanno a coloro che li vogliono». In parte, fu dunque il suo rifiuto della notorietà e dell’inserimento nell’establishment accademico e politico inglese a far sì che il suo pensiero e la sua opera restassero per molto tempo avvolti in un generale silenzio, interrotto soltanto da alcuni studiosi che hanno divulgato la filosofia politica di questo originale e controverso pensatore. In parte, è il carattere stesso della sua opera a renderne difficile la comprensione e a non favorire la possibilità di penetrare un linguaggio affascinante, ma che molti non hanno esitato a definire enigmatico. Oakeshott nacque a Chelsfield, nel Kent, l’11 dicembre del 1901, da una famiglia della media borghesia particolarmente attenta all’educazione dei tre figli.

Il padre, un impiegato statale del fisco, appassionato di lettura, era amico di George Bernard Shaw e membro della Fabian Society, ma come lo stesso Oakeshott ebbe a sottolineare più volte, egli non impose mai le proprie opinioni politiche ai figli. Tuttavia, come ha osservato Grant, è possibile che l’ostilità di Oakeshott nei confronti del collettivismo e del socialismo abbiano potuto cominciare a maturare proprio in questo contesto. All’età di undici anni Oakeshott entrò alla St. George School, di Harpenden, una scuola anglicana mista il cui direttore e fondatore, ammiratore del metodo Montessori, trasmetteva ai suoi allievi un insegnamento incline all’estetica e alla sensibilità morale: due aspetti destinati a segnare il carattere del giovane allievo e ad emergere con chiarezza nei suoi scritti successivi, contraddistinti da un costante interessamento a complesse tematiche di natura morale e da un ricco linguaggio poetico. Se dalla St. George School ereditò l’importanza della dimensione morale, fu al Gonville and Caius College di Cambridge che Oakeshott manifestò un chiaro e crescente interesse per la filosofia. Infatti, nonostante nel 1920 vi fosse entrato come studente del corso di laurea in storia e si fosse poi brillantemente laureato nel 1923 (scegliendo al suo interno l’indirizzo di scienza della politica), ben presto cominciò a seguire le lezioni di J.M.E. McTaggart, esponente dell’idealismo inglese, il quale lo introdusse ad Hegel e al mondo dell’idealismo filosofico. Fu sicuramente un incontro importante, poiché sull’idealismo e sul neoidealismo inglese si erigerà, seppure con alcune differenze, l’intera struttura teorica di Oakeshott.

Nei due anni successivi alla laurea Oakeshott ebbe modo, prima di studiare a Marburg e Tübingen, approfondendo gli interessi in ambito teologico, e poi di vincere un posto di fellow al Gonville and Caius College grazie al quale poté dedicarsi alla ricerca e in parte all’insegnamento. Cambridge resterà la sua dimora accademica fino al 1949, periodo durante il quale insegnerà storia del pensiero politico e teoria dello Stato moderno. La giovinezza di Oakeshott fu dunque contraddistinta da un marcato interesse per la filosofia classica, la storia del pensiero politico e la teologia, argomenti che dominano la riflessione dei saggi di questo periodo e tra i quali è bene ricordare The Importance of the Historical Element in Christianity (1928) e Religion and the World (1929), in quanto esemplificativi dell’idea di religione che Oakeshott andava sviluppando anche grazie ai regolari incontri che teneva con alcuni colleghi di Cambridge per presentare e discutere testi di teologia. In questo contesto emerse una chiara propensione a concepire la religione quale aspetto della vita pratica, volta a consentire un più intenso modo di vivere la vita presente piuttosto che a garantire il raggiungimento della felicità in un altro mondo. La religione è per Oakeshott il mezzo attraverso cui l’uomo realizza se stesso e la propria integrità, senza riguardo all’insieme dei “valori esterni” come il successo o la carriera, i quali più in generale sono il frutto degli effetti tangibili dell’azione umana e come tali appartengono al mondo dei rapporti tra gli individui piuttosto che a quello dell’individuo in sé. Nella visione di Oakeshott la religione rappresenta il completamento della morale, poiché permette all’individuo di superare il senso di frustrazione che nasce dall’inesorabile tensione tra l’essere e il dover essere, attraverso la valorizzazione di un criterio interno di autorealizzazione rispetto ai criteri esterni. Pertanto, citando lo stesso Oakeshott, con la religione l’uomo: «si libera da qualsiasi motivo di imbarazzo come il rimpianto del passato e la previsione del futuro» (Religion Politics and the Moral Life, 1993), per vivere invece l’avventura di un continuo presente in cui la vita viene percepita nella totalità della sua pienezza.

Se è vero che in questo periodo la religione rappresentò un argomento importante nella riflessione di Oakeshott, furono certamente l’interesse per la filosofia e per le questioni di natura epistemologica a condurlo alla pubblicazione del suo primo libro Experience and Its Modes (1933). L’opera che, come lo stesso Oakeshott sottolinea nella sua introduzione, è da ricondursi nell’alveo della tradizione idealista con il chiaro intento di riaffermarne i principi, rappresenta indubbiamente un vero e proprio trattato di filosofia in cui l’argomento principale è rappresentato dalla ricerca e dalla giustificazione dei fondamenti della conoscenza e dai diversi modi in cui questa si manifesta. Qui l’intento è quello di analizzare il significato e le implicazioni del concetto di filosofia, intesa come l’unica forma di conoscenza capace di cogliere l’intera realtà concreta o, nella definizione di Oakeshott, l’esperienza nella sua totalità. Perfettamente coerente con i presupposti dell’idealismo, l’esperienza (realtà) coincide con il pensiero; non esiste alcuna separazione tra soggetto pensante e oggetto del pensiero, il dualismo si risolve qui in una sorta di universale concreto in cui forma e contenuto si trovano uniti, in quanto mondo di idee all’interno del quale l’unico criterio di verità è dato dalla coerenza. L’esperienza è dunque un mondo di idee la cui comprensione non mira a realizzare una corrispondenza tra questo e un ideale esterno, quanto piuttosto a renderlo sempre più coerente nel tentativo di superarne tutte le contraddizioni, per arrivare a uno stadio di soddisfazione ultima che in realtà nel pensiero di Oakeshott risulta irraggiungibile.

Come infatti confermerà molti anni dopo nell’opera On Human Conduct (1975), in uno spirito che ci riporta a Socrate, il teorizzare non è altro che un viaggio infinito lungo il quale si arriva a stadi momentanei di comprensione condizionale, i quali si pongono come punti di partenza per nuovi approdi. Naturalmente la filosofia non rappresenta l’unica forma di conoscenza, al suo fianco Oakeshott pone la scienza, la storia e la pratica definendole modi dell’esperienza, ovvero arresti del pensiero che costituiscono mondi conoscitivi della realtà a se stanti, omogenei e governati da un proprio principio di coerenza. Tali forme di conoscenza non descrivono differenti esperienze, ma punti di vista limitati attraverso cui la realtà come unica esperienza può essere compresa sulla base di diverse categorie. Così la scienza organizza e comprende i dati dell’esperienza sub specie quantitatis ovvero attraverso la categoria della quantità, in quanto conoscenza soggetta ad una dimensione numerica, la storia sub specie praeteritorum, poiché tende a riconoscere tutto ciò che è presente come un’evidenza del passato e la pratica sub specie voluntatis, in quanto comprensione dell’attività umana intesa come continuo tentativo di riconciliazione tra l’essere e il dover essere. Trattandosi quindi di specifiche organizzazioni dell’esperienza, la relazione che lega questi modi dell’esperienza è necessariamente di totale esclusione e il tentativo di applicare ciò che è peculiare di un modo ad un altro non può che generare una ignoratio elenchi, ossia quel tipo di confusione che, secondo Oakeshott, porta con sé l’insidia di uno dei più terribili errori: l’irrilevanza.

E’ in questa affermazione che si può individuare il tratto distintivo della sua filosofia e che con Nardin si può definire come «pluralismo epistemologico» in contrasto con ogni forma di «fondazionalismo gnoseologico», a sottolineare la necessità di evitare qualsiasi forma di assolutismo conoscitivo che nel tempo è stato definito di volta in volta come scientismo, pragmatismo o storicismo. Tuttavia anche la filosofia, nonostante Oakeshott le riconosca un ruolo privilegiato, in quanto forma di conoscenza che rileva la limitatezza delle altre conoscenze, non può sostituirsi ad esse o risolverle in sé. La filosofia evoca nella sua funzione la nottola di Minerva di hegeliana memoria, riflette una realtà che si è già dispiegata, ma alla quale secondo Oakeshott non può fornire alcun contributo pratico. Sarà sulla base di questa concezione della filosofia che Oakeshott intraprenderà, riluttante, la strada della filosofia politica, sottolineando sin da subito che il suo scopo è da individuarsi nella ricerca e nella chiarificazione dei postulati della condotta umana e con essa dell’attività politica, evitando di trasformare le sue astratte “conquiste” in dottrine e ideologie filosoficamente giustificate. L’interesse per la filosofia politica portò Oakeshott ad approfondire il pensiero di Hobbes, pubblicando nel 1935 il saggio Thomas Hobbes, nel 1946 l’introduzione all’edizione del Leviathan per l’editore Blackwell e nel 1975 Hobbes on Civil Association, in cui sono raccolti i saggi citati unitamente ad altri scritti. L’influenza che la filosofia politica di Hobbes esercitò su Oakeshott è ravvisabile nella profonda somiglianza che lega questi due pensatori e che si manifesta innanzitutto nella scelta di condurre la ricerca filosofica sui presupposti della politica da un punto di vista prettamente scettico.

Si tratta di uno scetticismo che, grazie alla capacità di mantenere vivi i concetti di autorità e legge senza per questo doverli fondare su un principio assolutistico o su una legge naturale, non cede mai né ad un irriducibile pessimismo né ad un nichilismo devastante. Una capacità che Oakeshott riconobbe e apprezzò in Hobbes – ritenuto il più grande filosofo politico di tutti i tempi – come tratto distintivo e centrale, tanto da porla alla base della propria filosofia politica, conseguenza naturale di un sistema filosofico generale che rifiuta ogni forma di fondamento ultimo. La carriera accademica di Oakeshott fu interrotta dallo scoppio della seconda guerra mondiale, alla quale partecipò arruolandosi nel 1940. L’esperienza della guerra e dell’immediato dopoguerra, che vide al potere per la prima volta un governo laburista, segnarono nel cammino intellettuale di Oakeshott un passaggio a tematiche di natura più spiccatamente politica. Tra il 1947, anno in cui venne incaricato della direzione dell’appena fondato Cambridge Journal, e il 1951, quando salì sulla prestigiosa cattedra di scienza della politica della London School of Economics, egli pubblicò una serie di saggi (raccolti e pubblicati nel 1962 con il titolo Rationalism in Politics) attraverso i quali portò a compimento un’accusa sferzante al collettivismo e ad ogni forma di pianificazione sociale, in quanto fondati e giustificati dalla fallace teoria del razionalismo.

La critica al razionalismo, che si inserisce all’interno della più ampia mobilitazione intellettuale mossa contro di esso e che nel dopoguerra fu iniziata da numerosi pensatori tra i quali Hayek, Popper e Berlin, viene sviluppata da Oakeshott lungo due direttrici strettamente collegate: lo scetticismo e il conservatorismo. All’atteggiamento riduzionistico del razionalismo, inteso a considerare la complessità dell’esperienza come semplificazione schematica sintetizzabile in universali principi astratti, egli oppose il presupposto scettico, ovvero l’idea dell’impossibilità di arrivare a conoscenze ultime e infallibili. Ma più in particolare il suo intento fu quello di mettere in luce i disastrosi esiti che una concezione filosofica quale quella del razionalismo poteva riflettere sul modo di concepire e di condurre l’attività politica. In politica il razionalismo si traduce in ideologia, poiché mira ad organizzare e giustificare l’attività politica in vista di un fine stabilito aprioristicamente dalla ragione umana e per questo stesso motivo considerato giusto. Il politico, che si ispira al razionalismo, finisce così per indossare la veste dell’ingegnere con l’intento di cambiare il mondo secondo questo fine e individua nella politica lo strumento per distruggere e smantellare quanto ancora sopravvive del vecchio in vista della costruzione di un futuro migliore.

E’ in contrasto a questa posizione che Oakeshott delineò la propria visione della politica, intesa come attività secondaria che agisce sospinta dagli eventi, capace di suggellare, ma non di promuovere, un cambiamento che di per sé si sta già consumando nella comunità. Si tratta di un’attività che non può anticipare gli eventi manipolando la realtà, ma deve accontentarsi del limite che la legge e la consuetudine le impongono, relegando il suo ruolo a quello di un moderatore di conversazione, capace di contemperare le diverse istanze al fine di trovare un modus vivendi. Il punto di partenza della politica è allora l’esistenza di una realtà storicamente data dalla quale non è possibile prescindere poiché, mancando nella visione di Oakeshott qualsiasi fondamento filosofico, sia esso la ragione, Dio o la Natural Law, essa costituisce l’unica certezza da cui muove la condotta umana. E’ questo il fulcro del conservatorismo di Oakeshott, evidente più che altrove nel saggio On Being Conservative del 1956, dove egli stesso definì l’uomo conservatore come colui che all’ignoto futuro preferisce la familiarità del passato e dove è chiaro che il presupposto scettico non mira a negare il cambiamento quanto piuttosto gli effetti totalizzanti dell’innovazione; espressione, quest’ultima, di radicali trasformazioni che si concretizzano in sovvertimenti radicali, capaci di dar vita ad un numero imprevedibile di conseguenze indesiderate ed infinitamente maggiore rispetto a quelle implicate da un cambiamento.

11 gennaio 2006

* Alexia Redini, dottoranda in Sistemi Politici e Cambiamento Istituzionale, presso la scuola imt Alti Studi di Lucca

 



 

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