Colmare il deficit di politica
di Pierluigi Mennitti*
[11 gen 06]
da Ideazione, gennaio-febbraio 2006

Schematizziamo un po’. Di là c’è il declino, di qua la ripresa. Di là la competizione globale perduta, di qua il riscatto industriale. Di là il lamento sulle piccole imprese spazzate dalla concorrenza cinese, di qua la forza di imprese divenute medie e capaci di aggredire nuovi mercati. Di là «l’addio alla dolce vita», di qua «le schegge di vitalità economica». Di là l’Economist, di qua il censis. Ma non semplificheremo sino al punto di sostenere che di là c’è l’Unione e di qua la Casa delle Libertà, anche se il centrosinistra ha impostato la sua campagna elettorale sul lamento autocompiacente dei tempi magri e il centrodestra sulla bontà di un miracolo economico oggi difficile da rintracciare. Fatto sta che l’Italia si avvia alla campagna elettorale per rinnovare Parlamento e governo dipinta con colori diversi da due “istituzioni” europee: usa colori cupi il più autorevole settimanale economico continentale, tinteggia con colori pastello il più accreditato centro studi italiano. Nessuna delle due “istituzioni” può essere tacciata di parzialità. Vero che l’Economist rappresenta gli interessi dell’establishment finanziario britannico, ma non v’è dubbio che quando si passi dai commenti alle analisi sul campo, il magazine londinese rappresenti un punto di riferimento irrinunciabile. Così come i sospetti per una certa accondiscendenza del censis verso la realtà nazionale che osserva, vengono dissipati da decenni di indagini serie e precise che hanno sempre segnalato, e spesso anticipato, le tendenze della società italiana.

Gli italiani, depressi dai reportage dell’Economist, sperano che il censis abbia saputo trovare nelle pieghe nascoste del nostro paese quegli elementi di riscatto che fanno sperare in un futuro migliore. Si augurano, insomma, che se il settimanale inglese è stato capace di sintetizzare nel declino il presente e il recente passato, cioè i venti anni che separano questo 2006 dai tumultuosi e vincenti (ma chissà perché a sinistra sempre vituperati) anni Ottanta, l’istituto italiano abbia pescato ancora una volta le carte giuste per anticipare il futuro e tingerlo di pacato ottimismo. Il Rapporto annuale 2005, presentato nei primi giorni dello scorso dicembre, indica dunque la prossima fine del tunnel, la voglia di ripresa che poggia non tanto su semplici aspettative ma su dati reali che la società e l’economia italiane hanno saputo realizzare nel pieno di questi anni difficili. Sono segnali incoraggianti, che impregnano le attività del mondo economico e imprenditoriale tanto quanto le organizzazioni, le famiglie, i gruppi sociali e che la politica deve saper leggere, interpretare e rappresentare. Lo devono fare entrambi gli schieramenti se vorranno offrire un programma di governo che incontri le attese degli elettori, tanto più che la politica sembra sempre più autoreferenziale e sorda rispetto ai movimenti della società. Si potrebbe quasi sostenere, in Italia come in altre parti dell’Europa, che la società si muova e cresca in assenza di politica, nonostante la politica, al di fuori di essa.

E’ accaduto in Germania (come abbiamo documentato nello scorso numero), dove le imprese si sono ristrutturate senza attendere le riforme tardive del governo Schröder e si sono attrezzate per affrontare i tempi nuovi della concorrenza globale. Accade in Italia, dove nascono nuove piccole imprese capaci di ritagliarsi mercati di nicchia e di qualità (a dispetto della nuova moda di considerarle troppo mini per poter competere) e le medie stanno qualificando la propria presenza internazionale, dove l’italian style si afferma come sofisticata frontiera del Made in Italy, dove il sistema finanziario ha vissuto una profonda ristrutturazione e anche il tanto bistrattato mondo bancario, pur tra grandi e note fatiche, esce rafforzato da una rinnovata competizione interna (vedi a proposito l’articolo in questo stesso numero di Alessandro Carpinella). Il Rapporto censis tiene a sottolineare come questa estraneità alla politica si riscontri non solo nei comportamenti degli operatori economici ma anche all’interno dei meccanismi sociali e privati dei cittadini: «Stare nelle cose con continuità, pazienza, emozioni reali sono scelte che rinascono dal fondo più intimo della società italiana e che non hanno bisogno di progettualità politica, perché avvengono senza passare per quei processi di precomprensione e di precodificazione della realtà che sono indispensabili per fare lavoro politico e progettuale. Nella complessità italiana le cose avvengono, e di solito avvengono prima che le si capisca e le si codifichi ex-ante».

Insomma il declino è la fotografia di un paese che potremmo a breve gettarci alle spalle, e la politica che nei prossimi anni vorrà interpretare questa nuova rinascita deve essere in grado di parlare un linguaggio di competenza ma anche di ottimismo, perché puntare tutto sulla letteratura del declino per scaricarla addosso ai governanti dell’ultima tornata è francamente un esercizio di strumentalizzazione smaccato che sottintende una sfiducia di fondo sulle possibilità di continuare a rilanciare il paese. Anche perché, su questo terreno, nessuno dei due raggruppamenti può ritenere di avere le carte in regola, visto che nell’ultimo decennio entrambi hanno diviso la guida del governo senza riuscire a incidere svolte decisive. Se il centrodestra sconta l’inevitabile combinato di delusioni per le riforme non attuate e di risentimenti per quelle invece avviate (una delle contraddizioni di chi resta in mezzo al guado), il centrosinistra non convince appieno né gli osservatori imparziali (il giudizio negativo dell’Economist sull’Italia è motivato anche dalla sfiducia che la sinistra possa realizzare le riforme necessarie) né gli elettori che nei sondaggi d’opinione non assegnano un vantaggio tale da far considerare chiusa la partita. Se ne sono accorti i Ds che negli ultimi tempi hanno rimodulato i toni della campagna elettorale, mettendo in ombra i lamenti e le enfatizzazioni sul “disastro italiano” e puntando sull’idea che un governo diverso sarebbe in grado di stimolare le potenzialità del paese: lo slogan di Fassino è “coesione e competizione”.

Ora tocca al centrodestra impostare la propria campagna elettorale. Sempre spulciando le osservazioni contenute nell’ultimo Rapporto censis, c’è un elemento che spicca tra gli altri e che riguarda i sentimenti prevalenti nella società: gli italiani reagiscono al declino con «una collettiva propensione a reinstaurare le tracce su cui si era mosso lo sviluppo italiano dal 1950 in poi». Che tradotto in comportamenti generali, significa soprattutto scegliere di stare dentro le cose, di privilegiare la continuità evolvendosi all’interno del tessuto quotidiano, di recuperare l’affettività: nei termini sociologici del censis «di dar cioè tonalità emozionale ai vari comportamenti, individuali e collettivi che siano». Passione. Partecipazione. Condivisione dei problemi. Questo esprime oggi la società italiana: una ripulsa verso i grandi progetti di palingenesi che negli anni Novanta sono stati la cifra di ogni programma politico e che hanno irrorato le diverse compagnie dei nuovisti che si sono succedute sull’uno e sull’altro versante dello schieramento politico, una stanchezza verso i personalismi e gli antagonismi esasperati della politica e la ricerca pragmatica e quotidiana di percorsi più misurati, meno roboanti e più operosi. La grande novità del Rapporto è quella di individuare in questa scelta non un ripiego nostalgico verso il passato, una rinuncia a crescere e a confrontarsi con le sfide globali, ma il sentiero individuale e collettivo deciso da una società per sbloccare l’impasse, il declino, lo stallo della politica.

La copertina di Ideazione di tre numeri fa, quella dedicata ad Alcide De Gasperi, aveva a suo modo inquadrato questi sentimenti: non era un’indicazione politica (un impossibile ritorno al centrismo post-bellico) né un tentativo di appropriazione indebita (lo statista trentino appartiene tutto alla tradizione della Democrazia cristiana che è cosa ben diversa dall’attuale coalizione della Casa delle Libertà) ma era più semplicemente l’appello – innanzitutto ai politici del centrodestra – di ritrovare la dimensione del sentimento, della partecipazione, del coinvolgimento delle opinioni pubbliche nella loro azione politica. Era, insomma, l’indicazione di uno stile di governo della cosa pubblica. Segnali come un ritrovato spirito di radicamento nel territorio, di ritorno alla dimensione comunitaria, di spostamento verso il locale – tutti presenti nell’analisi censis – non sono indici di ripiegamento e ridimensionamento ma di ricerca di coesione e compattamento. Verrebbe da sostenere che la società esprima nel suo complesso valori moderati che una classe dirigente conservatrice e cattolico-liberale dovrebbe essere in grado di intercettare meglio degli avversari. Ma così ancora non è.

Qualcosa si è mosso sul fronte di un rinnovato dialogo con la Chiesa, alla ricerca di valori comuni di buon senso che rappresentano il patrimonio di questo paese e il tessuto migliore della sua organizzazione sociale. Per il resto, c’è molto da fare. Si sono perse le guide di Regioni e Comuni, lasciando alla sinistra il compito di rappresentare il terminale politico più vicino ai cittadini. Ma ci si illude se si pensa di vincere con una campagna elettorale modellandola su quelle degli anni passati, con un leader solo al comando, parole d’ordine secche come slogan e cifre, dati, numeri a ridisegnare un sogno pragmatico che non scalda più i cuori. Una politica fredda non è politica: oggi non si chiede ai governanti solo di raggiungere degli obiettivi ma come quegli obiettivi si vogliono raggiungere. Bisogna dare risposte efficaci all’esigenza di partecipazione, coinvolgendo l’elettore nelle scelte che il governo ha compiuto e nelle difficoltà che ha trovato: non negandole ma spiegandole e dimostrando che impegno c’è stato e che si ha chiara la strada da seguire. C’è ancora tempo per cambiare la musica. Poco, ma c’è.

11 gennaio 2006

* Pierluigi Mennitti, direttore di Ideazione

 



 

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