Ricerco, ergo sum
di
Paola Liberace*
[11 gen 06]
da
Ideazione, gennaio-febbraio 2006
La verità è nuovamente ritenuta degna di considerazione. Il recente
dibattito culturale, che pure lo ha generalmente riconosciuto, è
riuscito a scavare solchi incolmabili tra filosofi, teologi, scienziati
e politici. Posizioni opposte, ma accomunate dall’errore che ciascuna
imputa alle altre; sembrerebbe di essere alla riedizione di un vecchio
scontro, se non che stavolta l’errore è stato battezzato con il nome di
relativismo. Da un lato, ecco filosofi e teologi mettere in guardia
contro lo scientismo e l’approccio multiculturale: ugualmente rei di
negare una verità superiore, e quindi inevitabilmente prede del
relativismo etico. Dall’altro, ecco scienziati e filosofi archiviare
come inopportuna la pretesa di assolutezza della fede: la religione è
relativa e lo mostra la molteplicità delle confessioni di fronte
all’unità della scienza. In entrambi i casi, è chiara la valenza
positiva acquisita dalla verità; almeno quanto la stigmatizzazione di un
atteggiamento culturale caduto in disuso, che partendo da un generico
scetticismo afferma l’equivalenza (e la sostituibilità) di punti di
vista. Se il passaggio dal relativismo all’antirelativismo, per gli
spettatori, si è concentrato in momenti topici (eventi editoriali,
interventi accademici, pronunciamenti religiosi e politici), non basta
per attribuire l’evoluzione di idee a singole volontà (intellettuali,
politiche o ecclesiastiche), in cospirazione più o meno sordida.
La cronologia del dibattito potrebbe mostrare il ruscello delle opinioni
che progressivamente s’ingrossa: se sono visibili solo i flutti più
impetuosi (la pubblicazione in Italia a inizio 2005 del libro Genealogia
della verità, di Bernard Williams, o il discorso contro il relativismo
di Ratzinger, il giorno prima di essere eletto Papa), le acque giungono
da lontano (il libro di Williams era apparso in lingua originale nel
2002; le posizioni di Ratzinger erano state espresse in altre, meno
celebri occasioni precedenti). Sarebbe ingenuo, in altri termini,
attribuire a un’iniziativa del papato di Roma, o dei neocon, o dei
filosofi continentali europei il mutamento di indirizzo di un sentire
complessivo. Del resto, quando si tratta di compendiare e diffondere un
messaggio inconsueto, è inevitabile esperire un certo grado di
approssimazione, associata alla necessità di penetrare nel mainstream.
Così, la distinzione – netta, ma sommaria – tra relativismo e verità
assoluta, contesi ora dall’uno ora dall’altro, può essere spiegata con
l’urgenza di costruire discorsi di immediata utilità nella quotidiana
retorica politica. Se però si tratta di abbandonare il livello più
superficiale, è necessario sgombrare il campo dalle semplificazioni di
entrambi i tipi.
Argomentazioni simili si basano su una visione statica della verità, sia
strutturalmente che storicamente. Sul piano strutturale, l’approccio
statico trascura le possibili articolazioni del vero: dal grado
soggettivo, a quello oggettivo e infine all’assoluto, per dirla con il
vocabolario della filosofia moderna. Si finisce così per livellare,
nella dialettica culturale, sfaccettature che permetterebbero a
posizioni lontane di rivelarsi conciliabili. Sul piano storico, la
verità è vista come un dato, piuttosto che come un risultato – il
risultato di un percorso di conoscenza. La magra alternativa, in
quest’ottica, resta quella tra un vero attinto immediatamente per
illuminazione, e una congerie di difficoltose supposizioni, che dal vero
si ritraggono timidamente senza mai sfiorarlo. Al contrario, in una
prospettiva dinamica appare come la ricerca del vero si svolga in un
processo mediato, che individua una serie di tappe, faticose da
percorrere, ma precise e affidabili. E’ questo il percorso del metodo:
un progresso lento, ma inesorabile, scandito dalla ragione e dallo
spirito critico, verso un obiettivo che è possibile e auspicabile
raggiungere. Alla fatica del percorso si accompagna la fiducia del
ricercatore nelle sue facoltà – limitate, ma certe – di giungere alla
meta, con l’ausilio degli strumenti cognitivi.
Una considerazione irriflessa della verità porrebbe qui difficoltà
ancora maggiori, arrivando paradossalmente a giustificare tanto la
posizione relativista che quella antirelativista. Quest’ultima,
ammonendo l’intelletto umano di aprirsi a una verità più alta, intende
scongiurare il rischio che la ricerca si erga ad arbitra di se stessa,
indulgendo a uno sperimentalismo capriccioso. D’altro canto,
l’insistenza sulla limitatezza delle umane risorse apre la strada al
dubbio radicale sull’opportunità di confidare in queste risorse. Le
implicazioni di questo atteggiamento sono gnoseologiche e didattiche. Se
non vale la pena di impiegare i fallibili strumenti a disposizione della
ragione umana per attingere un’oggettività, tanto vale dedicarsi a
saperi alternativi, che nel migliore dei casi si traducono in propaggini
di pensiero debole, e nel peggiore in puri vagheggiamenti lontani da
ogni contributo di ricerca, fedeli al solo assunto originario del
relativismo: non esiste alcuna verità accessibile, quindi tutte le
verità – potenzialmente infinite – si equivalgono. Questa conseguenza
minaccia già le università italiane, in particolare nelle facoltà
umanistiche e nei dipartimenti di più recente generazione, pervase oggi
da progetti di ricerca di dubbia consistenza. I riflessi sul patrimonio
della ricerca del nostro paese sono evidenti: oltre che delle “fughe di
cervelli”, ci sarebbe da preoccuparsi anche della qualità delle
produzioni scientifiche dei ricercatori rimasti. Se non c’è metodo
osservabile e riproducibile, d’altro canto, non c’è metodo insegnabile.
Il problema didattico, lungi dal riguardare la sola accademia, si
riferisce a tutti i gradi dell’istruzione, nei quali è fondamentale
educare i discenti alla pratica di un metodo che li guiderà nei
successivi stadi dell’apprendimento. Questo metodo è lo stesso che anima
la ricerca, in tutte le discipline gradualmente sottoposte all’allievo.
Negarne l’importanza significa rendere difficili, se non impossibili, i
progressi futuri, a cui il metodo apre la strada. Il rischio di gettare
via il bambino con l’acqua sporca, insomma, è forte. Per sottrarsi alle
opposte tentazioni di svilire il percorso della ricerca o di
ipostatizzarlo, è quanto mai necessario ricordare che la verità non è un
impenetrabile monolita. Il legittimo obiettivo del ricercatore è
raggiungere la verità oggettiva: il fatto che gli strumenti della
ricerca siano legati alla ragione non li rende necessariamente arbitrari
o capricciosi, se non a condizione di perdere di vista questo obiettivo,
applicandoli indebitamente. Allo stesso modo, sostenere la bontà del
metodo non vuol dire ignorarne la fallibilità, o la limitatezza rispetto
a traguardi inaccessibili al discernimento umano. In entrambi i casi,
non si tratta di essere razionalisti, scientisti o fideisti, ma solo di
aderire a un atteggiamento usare il buon senso che impedisce di
commisurare finito e infinito, di decretare l’onnipotenza del pensiero,
di mescolare il mondo con ciò che lo trascende.
Un atteggiamento che è frutto comune di secoli di filosofia occidentale,
sia laica che religiosa: a ricordarlo non è un teologo, ma un matematico
come Giorgio Israel. Così, persino lo scientismo più accanito non nega
la possibilità di discipline alternative alle scienze esatte, ma
sostiene che rispondano a esigenze diverse dalla ricerca della verità
oggettiva, riferita alla realtà osservabile. Del resto, è interessante
che, proprio in nome del metodo, uno scientista “confesso” come
Piergiorgio Odifreddi metta in dubbio la scientificità della biologia e
della medicina, che pure nel recente confronto tra le ragioni della
scienza e quelle della vita hanno fatto del progresso scientifico la
propria bandiera. C’è scienza dove c’è metodo: in questo punto
convergono posizioni che, per altri versi, appaiono opposte. La disputa
si sposta qui dalla verità al percorso per raggiungerla: se il cammino è
garanzia della possibilità di accedere al vero, diventa cruciale
stabilire quale sia quello giusto. Problema affatto nuovo, se si pensa
alla lunga querelle sull’argomento. Il pensiero corre al Discorso sul
metodo di Cartesio, che stabilisce una frattura chiara tra il campo
scientifico, regno del sapere razionale, e quello esistenziale, dalla
quale il primo viene “depurato”. Stefano Di Bella ricorda che, dalla
dottrina cartesiana in poi, si sono susseguiti vari tentativi di rendere
questa frattura meno scabrosa, rivalutando gli aspetti soggettivi,
emotivi e storici nell’approccio dell’uomo al mondo, e quindi nel
percorso metodologico.
Un approdo possibile è, ancora una volta, la dissoluzione della ricerca
nel relativismo, di fronte alla quale si staglia l’irrigidimento di
certa scienza. Approdo possibile: ma non necessario, né l’unico. La
metodologia delle scienze sociali, che allarga senz’altro il campo
scientifico fino alla sociologia, alla storia e alla linguistica, mostra
che è possibile recuperare alla scienza ambiti del sapere umano non
riducibili all’esattezza matematica, senza per questo cedere alle
“ragioni del cuore”. Il presupposto dell’estensione è la condivisione di
un procedimento razionale, riconoscibile e tramandabile, per ricercare
la verità. Nelle pagine di Dario Antiseri la temibile scienza,
esorcizzata da relativisti e antirelativisti, assume un volto più vicino
al vissuto umano, senza perdere il rigore che garantisce l’attendibilità
delle matematiche. Non occorre qui entrare nel merito dei risvolti più
“tecnici” della questione. Basterà rilevare la tensione all’obiettivo
veritativo, che accomuna le varie interpretazioni, e il generale accordo
sui requisiti che contraddistinguono il percorso della ricerca. Il
metodo appare in definitiva come una declinazione del rapporto tra uomo
e verità, ossia tra la conoscenza finita dell’uomo e la verità che le è
accessibile. Il procedimento per raggiungerla implica rigore e fatica;
restituisce risultati affidabili, e insieme mai definitivi. Il percorso
della ricerca è mediato: pone tappe precise, e per questo può essere
osservato, riprodotto e insegnato. E’ questa una delle principali
acquisizioni della cultura occidentale; misconoscerla significherebbe
rinunciare a una parte importante del futuro, tanto della conoscenza,
quanto della formazione.
11 gennaio 2006
* Paola Liberace,
giornalista, si è laureata in Filosofia del linguaggio presso la Scuola
Normale Superiore di Pisa.
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