Alexis de Tocqueville. Agli albori dello stato sociale
di Vittorio Mathieu
[21 nov 05]
da Ideazione, novembre-dicembre 2005

Siamo abituati a vedere la povertà alle spalle, nel passato. Col tempo il lavoro e il risparmio l’attenuerebbero. La storia mostra bensì inversioni di tendenza per cui si diventa più poveri, ma ciò sarebbe dovuto a cause esogene, in particolare alle guerre. E, almeno un tempo, non senza che all’impoverirsi di qualcuno corrispondesse l’arricchirsi di altri. Le popolazioni dell’impero romano, ad esempio, s’impoverirono senza dubbio in seguito alle invasioni barbariche, ma i goti di Teodorico erano senza paragone più ricchi dei loro antenati. Il concetto dell’economia che nasce dalle guerre tradizionali è un gioco a somma zero: il vincitore si arricchisce di tanto di quanto si impoverisce il vinto. Esempio illuminante di ciò la schiavitù: dandosi schiavo, il vinto conserva la vita ma perde la proprietà, anche di se stesso, e diventa proprietà del padrone. Si noti che nelle civiltà classiche la schiavitù era la forma più efficiente di capitalizzazione. Con la fine della schiavitù nel secolo XIX la guerra diviene fonte di impoverimento per entrambi i contendenti, e la somma non è più la somma algebrica di vantaggi e svantaggi, bensì una somma aritmetica di numeri tutti negativi.

Contemporaneamente, però, si fa strada il concetto di un’attività economica non più a somma zero: in cui, cioè, a chi diviene più ricco non corrisponde necessariamente l’impoverirsi di qualcun altro. Questo concetto dell’economia produttiva fa tutt’uno, nell’età moderna, con la nascita dell’economia politica, su un terreno di riflessioni morali ma non moralistiche: anzi, pseudoimmoralistiche, a partire dalla Favola delle api del Mandeville (vizi privati, pubbliche virtù). Ciascuno perseguendo i propri fini egoistici si incontra con gli altri “per convenienza”, molto più fruttuosamente che imponendo il proprio volere con la forza. In politica la fiducia in questo processo equivale alla democrazia; e l’Atene del V secolo l’aveva, sia pure in misura ridotta, anticipata, quando alcuni proprietari illuminati, avevano scoperto che era più conveniente far lavorare gli schiavi come appaltatori che come semplici esecutori.

Non è strano dunque che Tocqueville, negli stessi anni in cui si occupava della democrazia in America, coltivasse anche studi di economia politica, con spirito dilettantesco, ma acutissimo. Del resto, tutta l’economia politica ebbe origine da dilettanti. Al tempo di Tocqueville il professore di filosofia morale Adam Smith era già un classico, ma viveva ad esempio Jean Baptiste Say, di cui anche il giovane Manzoni era ammiratore, e la cui “legge di Say” (ogni produzione economica genera automaticamente i mezzi per acquistare il prodotto) è stata contestata nel Novecento dai keynesiani solo perché si è confusa la produzione economica con una produzione fisica. In America Tocqueville vedeva l’esempio più luminoso di una democrazia che non fosse dittatura della maggioranza (o, peggio, di una minoranza), bensì un accordo fondato sulla convenienza, cioè su un incontro spontaneo delle volontà. (Adam Smith aveva osservato che ciò che ci permette di trovare sul mercato il pane, la carne e così via non è una particolare benevolenza del panettiere o del beccaio, bensì il loro interesse). L’America, però, al tempo di Tocqueville era appena emergente. Era bensì l’esempio più promettente di un gioco a somma algebrica positiva, ma non era ancora l’esempio più cospicuo. Questo era ancora l’Inghilterra, nel pieno sviluppo della rivoluzione industriale. E l’esperienza sorprendente di Tocqueville fu che in Inghilterra lo svilupparsi rapidissimo della ricchezza era accompagnato dallo svilupparsi del pauperismo: che non è la semplice condizione di povertà, bensì una povertà patologica. Era forse una rivincita del gioco a somma zero? Inevitabilmente Tocqueville se lo domandava, anche perché un fenomeno analogo lo trovava vicino a casa, in Normandia. E l’esempio francese, benché meno impressionante, era ancor più significativo, perché la Francia era ormai un paese di amministrazione uniforme e centralizzata. Colpiva qui trovare che il pauperismo si sviluppava, non nelle regioni più povere, bensì nelle più ricche.

Fondamentali dunque, per capire il pensiero di Tocqueville sulla democrazia, i due Mémoires sul pauperismo che, acutamente, André Jardin datò tra il 1833 e il 1835, dato che l’autore vi parla del suo primo viaggio in Inghilterra e non del secondo. Scritti contemporanei, dunque, alla stesura del primo saggio su La democrazia in America (1835) e completati da una lettera sul pauperismo in Normandia, probabilmente coeva, ma incompiuta, e diretta non si sa a chi. Nella loro traduzione per Ideazione editrice (Roma, 1998) Anton Marino Revedin, in una lunga prefazione, chiarì una volta per tutte che, fin da allora, Tocqueville non aveva nulla in comune con Rousseau, di cui, anzi, era l’antitesi (come del resto erano stati tutti gli illuministi: Voltaire, Hume eccetera). Rousseau, tutti sanno, era un “buonista”. Come tale è alla radice della rivoluzione francese, dovuta alla secolarizzazione del calvinismo, tramite Rousseau e Robespierre; e, in certo senso, perfino delle rivoluzioni comunistiche del secolo scorso. Tocqueville, al contrario, era un liberale, quindi tutt’altro che buonista. Buonisti sono semmai i liberal, nonché qualche studioso influenzato dal laburismo inglese, come Alessandro Passerin d’Entreves, che ha tentato di vedere in Rousseau un ascendente del liberalismo, ma senza successo. Smentito, ad esempio, da Sergio Cotta. Si noti che sono regolarmente “cattivi”, come i liberali, anche gli economisti di una delle due sole scuole in cui Maffeo Pantaleoni era solito dividere l’economia politica: la scuola di quelli che l’economia politica la conoscono (l’altra essendo la scuola di quelli che non la conoscono). L’opposto del buonismo sono ad esempio, – oltre a Smith, Hume, Ricardo eccetera – Pareto, von Hayek, Ricossa.

Tocqueville studia dunque il caso inglese, che farà scuola anche sul Continente dopo la seconda guerra mondiale, per l’influsso esercitato dal laburismo più che dal marxismo. Il caso inglese nasce dalla Riforma anglicana, che poco o nulla ha a che fare col dogma e con la religione, ma molto con i beni ecclesiastici (si pensi che l’intero Hyde Park era proprietà di un ordine “mendicante”). Subentrando alla Chiesa cattolica come proprietaria dei beni ecclesiastici (in teoria Enrico VIII vi subentrò anche come suprema istanza dogmatica, ragione per cui Tommaso Moro preferì farsi uccidere che accettare l’Atto di supremazia, pur dichiarando non colpevoli – probabilmente perché incapaci di intendere – i vescovi che lo avevano sottoscritto) la corona dovette subentrare anche nel compito di lenire la mendicità. I mendicanti inglesi erano in gran parte itineranti, anche per poter scegliere le parrocchie più ospitali. Da alcuni comuni, come Hull e Halifax fuggivano come dall’inferno (onde la canzone From hell Hull and Halifax libera nos domine). Poiché vagabondavano, era difficile conoscere il loro reale stato di bisogno; e il giudice di pace doveva spesso convocare gli amministratori comunali incaricati di distribuire gli aiuti, per dirimere le questioni. La descrizione di una di queste udienze (pp. 103-108) è impressionante. Lo Stato assistenziale non ha fatto da allora che pochi progressi. Chi distribuisce, anche quando abbia le migliori intenzioni, per essere giusto dovrebbe conoscere ciascun singolo caso e applicarvi una legge adatta. Infatti la legislazione assistenziale fa di tutto per ottenere questi scopi, gonfiandosi sempre di più; ma le leggi sono generiche, mentre i casi sono infinitamente diversi. Inevitabile, quindi, che si finisca col distribuire per categorie, passando sopra enormi disparità e creando ingiustizie insanabili. Inevitabile che non si riesca a distinguere tra chi non trova momentaneamente lavoro e chi non vuole affatto lavorare, perché è più conveniente farsi mantenere. Fenomeni consueti nella Germania d’oggi, ma colpisce constatare che la situazione della Germania d’oggi non è diversa da quella dell’Inghilterra del 1830.

Legata al tempo, per contro, almeno in apparenza, era la situazione dell’economia agricola inglese (la sola che poté aver dato occasione ad associare Tocqueville con Rousseau). Nell’età moderna le enclosures di terreni un tempo comuni e i fidecommessi avevano fatto sì che, al contrario che in altri luoghi, «la proprietà fondiaria si agglomeri incessantemente, anziché dividersi» (p. 90). Ciò induce il contadino a non risparmiare, mancando l’obiettivo di acquistare un terreno in proprio. Secondo Tocqueville «il mezzo più efficace di prevenire il pauperismo fra le classi agricole è sicuramente la divisione della proprietà fondiaria» (p. 122). Non sono da lui considerati i vantaggi che possono derivare dalla concentrazione, grazie ad economie di scala e ad una migliore applicazione dei costi comparati. In compenso egli vede chiaramente che il vantaggio della suddivisione del capitale reale non può applicarsi alla proprietà industriale «senza renderla improduttiva» (ivi). Se anche gli si fossero affacciati alla mente rimedi come la polverizzazione della proprietà azionaria, la partecipazione, o l’economia sociale di mercato, è certo che li avrebbe giudicati inefficaci. Forse avrebbe apprezzato, per contro, l’economia mista, agricolo-industriale, di un Adriano Olivetti. Tocqueville si preoccupa anche della disoccupazione, dovuta in agricoltura al latifondo e nell’industria all’introduzione di macchine. Fresca era la memoria del luddismo, che aveva fatto spargere sangue tra i manifestanti vent’anni prima; e non era facile rispondere a chi faceva notare che l’introduzione di macchine abbassa bensì i costi, ma fa crescere la disoccupazione. Neppure oggi si riesce a persuadere certi sindacati che si tratta di una disoccupazione momentanea e facile da riassorbire, purché il sistema rimanga abbastanza elastico. Questo implica, però, che il lavoratore sia capace di imparare rapidamente mestieri diversi; e, se un appunto può muoversi a Tocqueville, quando osserva che gli impiegati nell’industria sono più danneggiati dal cambiamento che gli agricoltori, è di non aver osservato che il lavoro nei campi è molto più vario e articolato che nelle officine. Un buon agricoltore, lungo tutto l’anno, fa molti mestieri diversi; un operaio specializzato si adatta meno facilmente al cambiamento.

Così nel secolo Ventesimo – e in Italia in particolare dopo la seconda grande guerra – il trasferimento dalla campagna all’industria di grandi masse contadine non ha creato problemi insolubili. Anche un operaio, però, potrà cambiare lavoro tanto più facilmente quanto meglio si sarà specializzato. E lo stesso può dirsi anche delle occupazioni intellettuali. Di qui l’importanza della formazione, che nelle campagne avveniva soprattutto in ambito familiare, ma di cui oggi si occupano con grande difficoltà i poteri pubblici. Interessanti, ancora, le considerazioni di Tocqueville sulle banche popolari, che avevano cominciato a raccogliere i risparmi dei lavoratori e avevano difficoltà a collocare bene il denaro. Qualcuno proponeva già allora di impiegarlo in lavori socialmente inutili (il keynesianesimo è eterno, non dipende solo da lord Keynes). Tocqueville obietta che questo non risolve il problema di remunerare il capitale, tanto più se l’interesse praticato ai depositanti è superiore all’interesse di mercato. Tocqueville, non affronta il problema principale delle banche d’oggi, che è il dover concedere a enti raccomandati – per garantirsi un appoggio politico – prestiti destinati ad andare in sofferenza; con la necessità conseguente di rifarsi sulla clientela normale, con tante piccole ma fastidiose esazioni. Ai suoi tempi la finanza moderna era già nata, ma era ancora giovane. Non aveva ancora avuto il tempo di peggiorare.

21 novembre 2005

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