Il nuovo scenario politico
di Domenico Mennitti
[21 nov 05]
da Ideazione, novembre-dicembre 2005

Se i più accreditati sondaggisti italiani non hanno perduto – tutti insieme e contemporaneamente – la capacità di interpretare gli umori dei cittadini, le conclusioni che si debbono trarre alla chiusura di due mesi di aspra battaglia politica sono di sostanziale tenuta degli orientamenti elettorali. Questo dato indica che il recupero dei consensi perduti è molto faticoso e che l’acquisizione di nuovi lo è altrettanto. Occorre peraltro sottolineare che non sono trascorsi sessanta giorni qualsiasi, caratterizzati da iniziative vischiose che hanno lanciato deboli segnali di cambiamento politico: abbiamo attraversato due mesi di azioni forti che hanno prodotto effetti dirompenti su vari e significativi fronti.

È cambiato il sistema elettorale, considerato elemento scatenante del terremoto che sconvolse il quadro politico nella primavera del 1994 ed è stato stabilito il ritorno al passato, riproponendo il vecchio proporzionale, caratterizzandolo però con il riconoscimento ai partiti di una dignità che sembrava perduta e che nessuno sa come e quando l’abbiano riconquistata. Tuttavia gli uomini e le donne (queste ultime quante le nomenclature decideranno senza più il vincolo delle quote) che andranno ad occupare gli scanni di Montecitorio e Palazzo Madama non li sceglierà il corpo elettorale, al quale è demandato il compito di indicare la lista preferita; la scelta, se il Senato completerà positivamente l’iter parlamentare in corso, è affidata ai partiti che, male combinati come sono, si riappropriano del potere di vita o di morte dei singoli dirigenti.
E la tanto evocata società civile? Certo, non ha dato grande prova di capacità e sarebbe una ipocrisia rimpiangerla. Però corriamo il rischio che proprio quella parte che si è inserita e si è mostrata inadeguata sia candidata con buone prospettive a perpetuare la presenza nelle istituzioni, grazie al principio che “chi è dentro è dentro e non si sbatte fuori”. Vige l’immortalità (politica, s’intende) per Prodi e Berlusconi. Estenderla senza ragione a troppi potrebbe risultare insopportabile. Soprattutto perché si favorisce la costituzione di una casta chiusa e l’accesso ai nuovi viene di fatto sbarrato.

Queste riflessioni, rapide e confuse, servono ad attestare che chi scrive non è un maggioritario pentito. Questa rivista nacque dodici anni fa sulla spinta del “nuovo modo di eleggere la rappresentanza” e, pur non facendo di un sistema elettorale una scelta da condividere per sempre, conferma l’opinione che la crisi delle istituzioni non sia dipesa da come abbiamo votato, ma da come è stato gestito il successo, dalle riforme mancate, dai ritardi nei processi di evoluzione dei partiti, da tutto quanto insomma nelle sedi politiche ed istituzionali ha continuato a funzionare come prima, ignorando che, per produrre effetti positivi, è indispensabile che il sistema costituzionale sia appunto un sistema, operi nel quadro della sintonia fra tutte le regole del gioco democratico.

Quanto all’offensiva lanciata dal centrodestra occorre registrare che è stata massiccia e ben calibrata ed ha ribadito con forza la leadership nel Polo di Berlusconi. Il premier ha agito con determinazione sul piano interno e su quello esterno, puntando a ristabilire il suo primato ed a fronteggiare l’offensiva dell’Unione. Bisogna riconoscere che ha fatto giustizia anche di un’altra leggenda italica secondo la quale le riforme si decidono con il consenso di tutti, cioè di maggioranza ed opposizione insieme. Se questa remora fosse stata rimossa per tempo, oggi il governo potrebbe presentare una più vasta lista di riforme varate. Berlusconi quindi ha sbaragliato il campo, liberandosi dell’avversario interno individuato in Follini. L’emergente dell’estate è precipitato nel triste epilogo autunnale. Con la sua disfatta si è chiusa la fase della contestazione al premier. Non c’è più bisogno di primarie e, anche se ogni leader guiderà la propria lista, il capo riconosciuto della coalizione è lui, Silvio Berlusconi. Casini promette che non farà sconti, ma la dichiarazione è patetica: gli sconti – tutti lo sanno – li ha fatti Berlusconi a lui quando utilizzava le televisioni Mediaset per gli spot elettorali.

Questo della propaganda in vista delle elezioni è un altro fronte che il capo del governo ha aperto con determinazione. Berlusconi ha sempre creduto molto agli effetti che produce una adeguata presenza in televisione. Quando decise di affrontare direttamente la lotta politica seguì con meticolosa cura il rito televisivo: assunse subito l’atteggiamento del vincitore, sistemandosi in poltrona, dietro una scrivania che ricordava quella del capo dello Stato. Ora è il presidente del Consiglio, va in tv interpretando il ruolo alto che svolge, però vuole rafforzare la comunicazione e far saltare la par condicio: chiede più spot, punta ad entrare nelle famiglie con la creatività e la fantasia che gli sono proprie, non attraverso la polemica velenosa degli avversari. Che però non disdegna, anzi si getta a capofitto nella zuffa, assumendo a tema primario dei suoi ragionamenti la rivendicazione all’Italia della libertà d’informazione, che l’opposizione contesta senza farsi scrupolo d’esportare sin nelle istituzioni europee questa bugia che il nostro premier sente come una infamia.

Berlusconi sa che questi sono tempi nei quali vince chi riesce meglio a mobilitare i propri sostenitori e non è affatto vero che la vita nel Palazzo abbia ridotto la sensibilità delle sue antenne. Sa che la sintonia con gli elettori è giù di tono e pensa di recuperare il rapporto alzando il livello della polemica. Fa molto conto sull’antipatia dei denigratori, che non hanno fatto tesoro delle esperienze passate e sono lì che fremono per venire alla ribalta. Travaglio, Guzzanti, Santoro e compagnia al seguito sono gli alleati sui quali fa maggiore affidamento. Non è per caso che la replica a Celentano sia giunta forte dopo qualche giorno: è intervenuto quando la prima ondata polemica era esaurita e dopo essersi reso conto che il ritorno di Santoro, simbolo della protervia di sinistra, aveva determinato una larga reazione spontanea.

Di eguale intensità è stato il terremoto che Berlusconi ha provocato nell’Unione, dove tutto era stato predisposto modellandolo sulla vecchia legge elettorale. Questa legge, come abbiamo già rilevato, non ci esalta, però è impossibile non cogliere la fragilità dello schieramento di sinistra, che è rimasto spiazzato dall’iniziativa avversaria ed è piombato di nuovo in un mare di tensioni e di contestazioni. Le certezze di qualche mese fa sono andate in frantumi e l’ostruzionismo messo in atto in Parlamento non ha prodotto alcun risultato: non di merito, perché il testo finale della legge ha accolto solo le modifiche suggerite dal Quirinale, e neppure di opinione, perché non è montata l’onda dell’indignazione che i partiti del centrosinistra pensavano di sollevare. Non è montata neppure contro la legge finanziaria, che resta un provvedimento da tempo di guerra e tuttavia ha sommato una serie di giudizi positivi. Comunque non quelli che la sinistra aveva catastroficamente previsto.

Altri e gravi problemi sono sul tavolo del dibattito interno all’Unione. La necessità di scegliere un partito o, almeno, una lista ha messo Prodi in ambascia e, qualunque sarà la scelta finale, è come se gli avessero strappato di dosso la veste che l’accorta regia diessina gli aveva cucito in occasione delle primarie. Da leader indiscusso sopra le parti, è stato costretto a riprendere posto fra gli altri, un po’ più avanti ma non quanto serve per imporre una linea politica definita. Leader sì, come ha stabilito l’alto numero dei suffragi, ma primus inter pares, in mezzo a tanti che si sentono uguali e rivendicano la stessa dignità nella redazione del programma, tuttora una grande scommessa, considerate le divergenze che permangono, alcune inconciliabili soprattutto in politica estera.

È fin troppo facile prevedere che una intesa sarà comunque raggiunta per la campagna elettorale, per quanto la richiesta perentoria di Bertinotti («stando ai risultati delle primarie, ritengo di dover incidere sul programma almeno per un quarto») avrà già procurato qualche brivido a Prodi ed ai partiti di centro. Però, quando incombono le elezioni, prevale la tendenza a prendere voti, che poi confligge con la capacità di governo. È una esperienza già vissuta dalla coalizione di centrosinistra e che incombe come un incubo sul futuro dell’Unione. La prospettiva di accordi parlamentari alternativi che non abbiano più il significato del tradimento assume una dimensione angosciante.
In due mesi uno scenario che sembrava immobile e scontato si è velocemente mosso aprendo nuovi orizzonti. Ce ne sono altri cinque da affrontare. Saranno sufficienti a ribaltare previsioni che sembravano definitive?

21 novembre 2005

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