Il declino del modello sociale europeo
di Benedetto Della Vedova
[02 feb 06]
da
Ideazione, novembre-dicembre 2005
I referendum che in Francia ed in Olanda hanno bocciato il Trattato
costituzionale destinato, nelle intenzioni, a ridisegnare le istituzioni
dell’Unione in coincidenza con l’allargamento, hanno determinato uno
stallo nel processo di integrazione. In realtà il voto francese non è
stato un voto sui contenuti delle nuove regole per l’Europa, ridondanti
e frutto di troppi compromessi ma comunque con qualche elemento
positivo, bensì un voto sull’Unione Europea in quanto tale e sugli
effetti dell’allargamento. A vincere è stata la paura, la paura del
futuro che ha visto nell’allargamento dell’Unione il suo capro
espiratorio. Ma a determinare la vittoria dei no alla Costituzione è
stata anche la vaghezza che ormai caratterizza il “modello europeo”. Per
anni il progetto europeo è cresciuto attorno a due certezze granitiche:
la pacificazione, che ha portato al tabù della guerra tra europei (per
altro un dato di fatto per i più giovani), e la crescita economica e del
benessere per i cittadini della Comunità. In entrambi i casi la
progressiva integrazione economica e politica dei paesi membri ha svolto
un ruolo importante.
Oggi queste certezze vacillano. Tutto ciò che va sotto il nome di
globalizzazione ha rapidamente indebolito, per diverse ragioni, le
sicurezze cui gli europei si erano abituati. Sul fronte della crescita
economica la mondializzazione dei mercati ha portato alla ribalta nuovi
protagonisti, capaci di competere direttamente con gli europei
rimettendo in discussione paradigmi sperimentati e la convinzione di un
processo lineare e ineluttabile di crescita della ricchezza per tutti
gli abitanti del vecchio continente. Per quanto riguarda la “pace”,
l’emergere di nuove minacce alla sicurezza interna derivanti dal salto
di qualità del terrorismo fondamentalista d’un tratto ha fatto
precipitare l’Europa in uno stato di conflitto inedito e non dichiarato.
Sul terrorismo e la crisi internazionale che ne è seguita,
l’impreparazione e l’incapacità dell’Unione in quanto tale di
rassicurare gli europei sulla adeguatezza delle istituzioni comuni è
apparsa clamorosa. Le risposte, di segno diverso tra loro, sono arrivate
esclusivamente dai singoli Stati e Bruxelles è apparsa marginale se non
inutile. Quanto alla tenuta dell’economia, le difficoltà provocate dalla
globalizzazione sembrano aver colto di sorpresa l’Europa incapace, tanto
a Bruxelles che in molte capitali, di imporre un’inversione di rotta al
“modello europeo”, che poi è il modello continentale. Le recenti
elezioni politiche in Germania, su cui torneremo, hanno dato segnali
contraddittori. Interessante è la lettura che di esse ha fatto sul
Financial Times Wolfang Munchau, il quale ha sostenuto come l’empasse
tedesco segnali la stanchezza degli elettori per una eterna “stagione
delle riforme”, sempre preannunciate ma mai attuate con la radicalità
sufficiente a determinare un vero cambio di passo o, appunto, di
modello. In Germania le riforme di Schröder hanno puntato a ridurre i
troppo generosi benefici dello Stato sociale ma non hanno affrontato di
petto l’assetto corporativo e consociativo dell’economia tedesca; non vi
è stato alcun affondo significativo sul piano delle liberalizzazioni, le
uniche in grado di rilanciare competitività e crescita e quindi
l’occupazione interna. I tedeschi si sono così trovati con meno
protezione ma anche meno prospettive, e hanno decretato lo stallo. Se
avesse vinto la coalizione tra popolari e liberali questa lacuna sarebbe
probabilmente stata colmata (almeno nelle intenzioni programmatiche), ma
gli elettori tedeschi hanno di fatto bocciato tale prospettiva,
nonostante la vittoria di misura della Merkel sulla coalizione
rossoverde e nonostante l’affermazione dei liberali con la loro
piattaforma liberista.
Fosse vera questa analisi, e probabilmente in buona misura lo è,
significherebbe che per la Germania, ma in definitiva per l’Europa
stessa (visto cosa accade in Francia e nella sostanza anche in Italia),
«la stagione delle riforme è finita prima di cominciare», come conclude
Munchau.
Tanto sul fronte della politica internazionale che su quello della
politica economica l’Europa ha sempre definito il proprio modello
innanzitutto in contrapposizione a quello americano, rifiutando la
politica di potenza per un verso e criticando la durezza del capitalismo
statunitense cui contrapporre la maggiore dimensione “sociale” europea
per un altro.
Fintanto che non si sono posti seri problemi di sicurezza e che
l’economia europea al riparo dei venti asiatici ha goduto, pur tra alti
e bassi, di buona salute, questa vaghezza dei riferimenti non costituiva
realmente un ostacolo all’integrazione; anzi, per molti aspetti la
facilitava. Nei decenni che abbiamo alle spalle (sicuramente fino al
trattato di Maastricht) la costruzione europea era un fine in sé,
esaltato dalla politica alta dei fondatori come Monnet, Schuman e De
Gasperi o dal mutuo sostegno di Kohl e Mitterrand che ha portato alla
moneta unica come precondizione per una maggiore integrazione politica.
Di fronte alle difficoltà epocali di questo inizio del terzo millennio,
però, i cittadini europei hanno guardato all’Europa non più come un fine
in sé, ma come un governo da cui attendersi risposte e soluzioni. Non
diversamente da come si guarda ai governi nazionali, ma con la
differenza che mentre dei governi nazionali vengono messe in discussione
le politiche ma non l’esistenza, delle istituzioni comunitarie si
discute non solo l’efficacia ma anche l’utilità (in questo ha giocato
spesso il vizio delle capitali di scaricare su Bruxelles le
responsabilità di politiche di cui non si aveva il coraggio di
addossarsi la piena titolarità, temendo l’impopolarità). Nel momento in
cui l’Europa cessa di essere vista soprattutto come un fine e diviene
uno strumento di governo emergono le contraddizioni.
Da un lato queste contraddizioni risiedono in un disegno istituzionale
barocco e inefficace, in cui i contrappesi valgono assai più dei pesi, i
contropoteri dei poteri. Dall’altro la difesa di un evanescente modello
europeo – che come abbiamo detto si definisce più in negativo, ciò che
non è o non vuole essere, piuttosto che in positivo – è divenuta un
pericoloso elemento di paralisi. L’ortodossia monetarista e il rigore
nei conti pubblici ancorati al trattato di Maastricht, rimasti orfani di
adeguate politiche di flessibilità e dinamizzazione dei sistemi
economici che ne avrebbero dovuto rappresentare il complemento, sono
finiti ingiustamente sul banco degli imputati. Da questo punto di vista,
però, le responsabilità proprie dell’Unione sfumano in una indistinta
politica conservatrice che, in definitiva, accomuna Bruxelles con
Berlino, Parigi o Roma. Non è un caso che le esperienze di maggior
successo siano eccentriche rispetto alla tradizione europea, come il
blairismo neo-tatcheriano in Gran Bretagna o lo zapaterismo in Spagna,
che gestisce la continuità dell’approccio riformatore dei governi
precedenti (oppure, e ci verremo, nel caso dei nuovi paesi membri). In
Italia il berlusconismo ha promesso una stagione riformatrice e liberale
che superasse d’un balzo la stagione corporativa e consociativa ma, come
sappiamo, non ha poi saputo o potuto fino ad ora mantenere fede in
misura adeguata alle aspettative.
Il rischio che le elezioni tedesche segnino un punto di svolta e
preannuncino una rinuncia alle politiche riformatrici è dunque reale.
L’erosione del consenso popolare alle scelte di innovazione e di
distruzione creatrice è uno spettro che potrebbe materializzarsi,
complice l’invecchiamento della popolazione e dell’elettorato: le
generazioni che hanno vissuto una stagione di certezze e di benevolo
paternalismo statale ed assistenziale potrebbero razionalmente scegliere
di rinviare il più possibile il superamento di quel “modello”; un lento
declino potrebbe essere percepito come a loro più favorevole rispetto ad
una stagione di cambiamenti. Gli outsider e i giovani, coloro che hanno
meno da perdere e più da guadagnare da un tentativo di rivitalizzare
l’economia europea mettendone in discussione gli assetti, sono in
minoranza o comunque sottorappresentati politicamente.
A questo scenario esiziale per il futuro dell’Europa ne va contrapposto
uno di segno opposto e su di esso va ricercato il consenso. Proprio
l’analisi di quanto sta accadendo in Germania offre un buon punto di
partenza. L’unificazione tedesca, per come è stata realizzata, è stata
fin qui del tutto deludente. L’ex Ddr resta una regione arretrata in cui
sale il malcontento, nonostante il massiccio travaso di risorse ad opera
della Germania occidentale, sia da parte pubblica che privata. L’idea di
poter integrare nel “modello sociale europeo” con una operazione
dirigista e a tappe forzate una parte di territorio per decenni vittima
della scientifica distruzione della libertà economica, si è rivelata
illusoria. I tedeschi orientali si sono sentiti in diritto di accedere
immediatamente agli standard di protezione e di salario del resto del
paese, senza però che la loro produttività lo giustificasse. Mentre il
sogno di fratellanza e di uguaglianza – e di potenza – di Kohl si è
infranto rapidamente, qualche centinaio di chilometri più a est, invece,
altri paesi e altre popolazioni che avevano parimenti subito il giogo
del socialismo realizzato hanno compiuto un percorso diverso e ottenuto
risultati ben più promettenti.
La Polonia, l’Ungheria, le repubbliche baltiche e quella della ex
Cecoslovacchia hanno dovuto guadagnarsi l’ingresso nell’Unione Europea
attraverso un serrato programma di riforme economiche – e non solo
economiche, naturalmente – per soddisfare i criteri di adesione. Questi
paesi, mi si passi la semplificazione, hanno fatto scelte assai più
“americane” che “renane” e si trovano oggi nella condizione di essere in
molti settori decisamente competitivi con i più blasonati paesi
dell’Europa a quindici. Per tutte valgono le scelte in campo fiscale,
con aliquote assai meno onerose e in alcuni casi l’adozione della flat
tax. A differenza di quanto accade nella Germania orientale dove le
imprese occidentali che hanno investito si sono non di rado trovate a
ritirarsi con perdite, negli altri paesi un tempo oltre cortina gli
investimenti internazionali, europei ed extraeuropei, abbondano. I paesi
dell’allargamento, pur con i tanti problemi aperti, hanno saputo fare
delle sfavorevoli condizioni di partenza un vantaggio comparato e oggi
sono visti come competitori da cui difendersi secondo le parole d’ordine
che valgono per la Cina, prima tra tutte l’accusa di dumping sociale.
Ma anziché porsi con un riflesso protezionista nei confronti di queste
economie emergenti, il resto dell’Europa farebbe bene a riflettere su
due elementi. Il primo è che un’area di dinamismo economico all’interno
dell’Unione non può che portare benefici all’economia del mercato unico
nel suo complesso, stimolando la competizione e accelerando quei
mutamenti nelle specializzazioni produttive utilissime per giocare da
protagonisti sui mercati internazionali. Il secondo è che un’economia
più flessibile è possibile – e vincente – anche nel cuore del vecchio
continente.
Gli interessi costituiti e le rendite di posizione, che in Europa
continuano a godere di protezione più che negli Stati Uniti e che
vengono messe in discussione perfino nel tradizionalista Giappone (la
privatizzazione delle Poste di cui Koizumi ha fatto il dirompente
elemento simbolico della sua recente e vittoriosa campagna elettorale ne
è la testimonianza) sono i veri nemici della tenuta dell’economia e
della capacità di continuare a generare ricchezza. Il declino verso cui
rischierebbe di incamminarsi un’Europa che decretasse il superamento
della stagione delle riforme (in gran parte incompiute) potrebbe
rivelarsi ben più rapido del previsto e finire per travolgere anche
quanti, elettori, lo sostenessero.
Il futuro dell’Europa si gioca oggi come cinquanta o quarant’anni fa sul
coraggio e la visione delle leadership. Visione di un ruolo
internazionale che l’Europa potrà avere solo se prenderà atto che i
mutati equilibri demografici ed economici impongono quell’unità nella
politica estera e di difesa che ancora è lontana, come dimostra il
contenzioso tra i paesi membri sulla riforma dell’Onu, dove le velleità
dei singoli Stati hanno prevalso. Ma anche e soprattutto visione di un
nuovo “modello” sociale ed economico europeo, sottratto all’ipoteca
corporativa e statalista e restituito al protagonismo responsabile di
imprenditori e consumatori: un’Europa ri-fondata sul merito e la
concorrenza. Questa visione di chi, pur consapevole di alcune differenze
irriducibili che sarebbe stupido prima che velleitario pensare di
cancellare, punta alla convergenza più che al conflitto con il “modello
americano”, si contrappone alla scelta della conservazione e del
protezionismo in nome di una specificità che, se mai la si potesse
definire in positivo, rischierebbe di consegnare la supremazia europea
per sempre ai libri di storia.
L’Europa del terzo millennio per conservare il proprio ruolo deve
riscoprire una vocazione antica, quella liberale (e liberista), fondata
su regole che esaltino la libertà anziché sacrificarla ai miti dello
Stato protettore e della redistribuzione assistenzialista.
02 febbraio 06 |