Le due repubbliche del lavoro
di Vittorio Macioce
da Ideazione, settembre–ottobre 2005

È l’Italia del 2005, questa. Autunno. Quello che hai davanti è un paese dove il lavoro incerto, flessibile, precario non è più l’inferno dei primi anni Novanta. È una condizione esistenziale, sofferta, con cui alla fine si è cercato di fare i conti. Sono pochi, immagini, quelli che si presentano sul mercato del lavoro con l’idea del posto fisso, della carriera lineare, del destino già scritto. È una rivoluzione culturale, pagata cara. Se lavori in un call center qualche volta pensi che questo sia il peggiore dei mondi possibili. Lavori tanto, con uno stipendio da metalmeccanico e una laurea buttata da qualche parte. Qualche volta ti viene la tentazione d’incorniciarla, ma poi pensi che anche questa è una spesa inutile. Sei, secondo le statistiche dell’Inps o del sindacato, un lavoratore atipico, uno con il posto “flessibile”, con un orizzonte piatto e un futuro che non si nomina mai.

Fai parte di un popolo, di una generazione, forse di una classe sociale. Tu pensi solo di essere nato in un tempo sbagliato. Ma poteva andare peggio. Jeremy Rifkin, dieci anni fa, profetizzava una mezza apocalisse sociale: la fine del lavoro. C’è il rischio – diceva – di una disoccupazione di massa. Non è andata proprio così. Non andrà così. Buona parte degli atipici lavora di più. Ha la stessa ansia dei liberi professionisti di un tempo o degli artigiani, giornate che non finiscono mai, un impegno che va dall’alba al tramonto. Solo che guadagna di meno. E poi non ha un lavoro soltanto, ma due o tre, uno finisce e l’altro comincia, o tutti in contemporanea, per occupare tutti gli spazi lasciati liberi dal mercato, per non sprecare neppure mezza occasione, perché dietro ogni porta che apri ci può essere quello cerchi, il posto fisso, la scrivania, la carriera lineare dei tempi di tuo padre, le ferie pagate, la malattia idem, il sabato fascista, il week-end lungo, il ponte dell’otto dicembre, la pasquetta in montagna, il ferragosto al mare. E la pensione sicura, naturalmente.

Tutto questo non è finito, solo che alcuni ce l’hanno e altri no. È il paradosso, molto italiano, delle due repubbliche del lavoro. C’è chi è garantito in tutto, chi in quasi nulla. C’è chi può ritirare i remi in barca e lasciarsi cullare dagli scatti d’anzianità e dal contratto nazionale di lavoro e chi deve inventarsi ogni giorno un’opportunità. La riforma Biagi, in questa storia, ha messo un po’ di ordine, ma non ha risolto il problema. La verità è che ci vorrà tempo ed è per questo, forse, che tu sei nato nel tempo sbagliato. Ma la guerra, dicono i nonni, era peggio. E così, superate le colonne d’Ercole del Novecento, ti è stato revocato anche il diritto di lamentarti: la flessibilità non è una scelta, ma una necessità.

Ma ora questi appelli non servono più. Il lavoratore italiano, soprattutto quello di nuova generazione, è flessibile. Ha risposto, con un costo umano anche alto, alle richieste del mercato. Dopo dieci anni si può affermare che il posto fisso non è un diritto, ma una conquista. È cambiato l’orizzonte. È cambiato il lavoro. L’ufficio, la scrivania, il luogo fisico dove si svolge l’attività non sono più il centro, l’architrave del sistema. Il tempo non è più scandito dalle otto ore, dai cinque giorni a settimana, dai trenta giorni di ferie. Non c’era forse neppure bisogno di aumentare il grado di flessibilità, il margine, come richiesto dalla legge Biagi, introducendo altre forme di lavoro instabile, con il risultato di portare a 21 il numero di tipi di rapporto di lavoro “pienamente atipici”. Forse, invece, è arrivato il momento di riflettere sul resto, su chi sta dall’altra parte, sull’impresa, sul sindacato, sulle istituzioni economiche e finanziarie, sul salario e sugli oneri sociali. Il lavoratore è flessibile, ma il resto com’è? Chi ha chiesto meno rigidità cosa ha dato in cambio? Il capitale umano della flessibilità come è stato investito dalle aziende?

L’insicurezza è il colore di questo tempo e non si tornerà indietro. Nulla scorre più lungo i binari, neppure l’economia, neppure il lavoro. Se il sogno dei padri era la tranquillità, quello dei figli è l’opportunità. Hanno imparato a navigare senza bussola e questo li rende, soprattutto in momenti di crisi, più esperti dei propri genitori. Ma c’è un problema: le aziende, e la società in genere, non sono ancora pronte a sfruttare questo talento. Le metropoli del lavoro sono ancora calibrate sui vecchi uffici, per le otto di mattina e le cinque della sera. Non hanno seguito l’evoluzione del lavoro, ora che i giorni sono più lunghi e le settimane più corte. John Maynard Keynes, nel 1930, immaginava giornate di tre ore e invece è successo il contrario. Sta cambiando la struttura del tempo sociale, ci sono lavoratori impegnati in media per quattro giorni, magari alternando settimane di tre e di cinque. Ci sono aziende come Vodafone, Merloni, Zanussi o Auchan che adottano orari variabili, basati su preferenze personali.

Ci sono imprese, poche, che favoriscono le banche del tempo. Desincronizzazione del tempo lavorativo, la chiamano i tecnici. «In Italia – scrive Aris Accorsero, docente di Sociologia industriale alla Sapienza di Roma – il nuovo modo di gestire il tempo è una conquista ormai consolidata. Fin dalla prima metà degli anni Novanta, imprenditori e sindacati hanno raggiunto numerose intese che consentono regimi e calendari flessibili ad hoc se non proprio personalizzati. Le imprese possono così accrescere il tempo di utilizzo degli impianti e rendere flessibile la propria capacità produttiva, mentre i lavoratori possono compattare il tempo per massimizzare il tempo di non lavoro». Lavorare dieci, dodici ore per restare a casa uno o due giorni in più. E forse è un modo per arrivare all’utopia di Marx del “tempo liberato” da un’altra strada, paradossalmente non riducendo l’orario giornaliero di lavoro, ma aumentandolo.

Ma la precarietà esistenziale per la società italiana resta un difetto, un marchio di non affidabilità. È la diffidenza delle aziende nel concedere il lavoro a casa o il famoso job sharing, stesso stipendio da dividere tra due persone, che per chi paga è solo il raddoppio di rotture di scatole burocratiche e di oneri sociali. È la sfiducia delle banche nel concedere prestiti e mutui a chi non ha un contratto a tempo indeterminato, come se questo strano tipo d’imprenditore salariato sia destinato a un’esistenza di mezzo fallito. Il paradosso è qui: il capitalismo ha chiesto al lavoratore di diventare flessibile, ma ora non si fida della sua flessibilità. E la utilizza al minimo, non come una risorsa su cui investire, ma come braccia e menti da sfruttare. I lavoratori sono diventati imprenditori, le aziende sono tornate alla logica dei caporali.

Il rischio, è questo il problema. Il lavoratore, il vecchio salariato, ha assunto su di sé una parte di quell’imprevisto che, dai tempi dei mercanti medioevali, era l’anima dell’imprenditore, la sua ragione d’essere filosofica, l’orgoglio e il dovere di chi sfida i mercati e la sorte. La sua ricchezza era in qualche modo la ricompensa del suo coraggio, il premio per una vita senza paracadute, per le notti passate a disegnare nuove strategie. Il nuovo modello di lavoratore ha, quindi, condiviso una parte del rischio d’impresa. Ma cosa ha ricevuto in cambio? Le statistiche salariali italiane dicono che non ha ricevuto nulla. Anzi, meno di zero.

Tutto è cominciato con l’accordo del ’93 sulla concertazione, firmato da Ciampi e dai sindacati. Scrive Emilio Reyneri, docente di Sociologia del lavoro alla Bicocca di Milano: «L’ultimo rapporto Istat mostra come a parità di potere d’acquisto i lavoratori italiani siano agli ultimi posti della graduatoria dei paesi della vecchia Unione Europea e, soprattutto, che dal 1996 al 2002 le loro retribuzioni non siano praticamente cresciute, mentre in tutti gli altri paesi gli aumenti sono stati cospicui, con percentuali a due cifre. La moderazione salariale, nata con la crisi economica e politica dei redditi decisa nel 1993 per l’ingresso nell’euro, è proseguita anche dopo, quando la disoccupazione diminuiva, grazie proprio a una dinamica retributiva molto bassa. La quota dei redditi da lavoro dipendente sul reddito nazionale si è fortemente ridotta a favore sia dei profitti sia delle rendite (finanziarie e immobiliari). I salari più bassi restano ancora quelli dei lavoratori flessibili o precari, utilizzati spesso come apprendisti o riserva stagionale e, di rado, come liberi professionisti o lavoratori a progetto, come è nei sogni della legge Biagi».

È il prezzo da pagare per una flessibilità a macchia di leopardo. I precari sono ancora utilizzati come manodopera rozza, il salario è ancora quantitativo e non qualitativo, si guarda insomma più alle ore passate in “ufficio” e non alla “risoluzione del problema”. E questo è un bug nella teoria del valore che nasce da un orizzonte fordista del lavoro. Un “buco nero” che penalizza soprattutto il proletariato intellettuale, i colletti blu nati da due figure classiche del vecchio capitalismo: gli operai e gli impiegati. Un ibrido sociale che è il simbolo della metamorfosi che la società italiana sta vivendo. Il passaggio dalla “società del salario” alla “società dei lavori” ha lasciato tutti i costi dell’evoluzione sulle spalle di questa “classe provvisoria”. Ed è – come ha scritto su questa stessa rivista Giuliano Cazzola qualche tempo fa – una strana forma di razzismo generazionale. I “colletti blu” non hanno un sindacato, un welfare, un sistema previdenziale che li tuteli. Sono il risultato di riforme abbozzate e mai portate a termine e del sacrificio dell’ingresso nella zona euro. Sono i “reduci” di una guerra mai combattuta.

22 settembre 2005

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