Fame di energia, si rilanci il nucleare
di Carlo Jean
da
Ideazione, luglio-agosto 2005
In Italia è ripreso il dibattito sul ritorno al nucleare. Lo
avevamo abbandonato poco meno di vent’anni fa, con lo sperpero di decine
di miliardi di euro e di un patrimonio scientifico, tecnologico e
industriale molto rilevante. A metà degli anni Sessanta eravamo i terzi
produttori mondiali di energia elettronucleare. Oggi importiamo poco
meno del 20 per cento del fabbisogno elettrico nazionale dalle centrali
nucleari di Francia, Svizzera e Slovenia. La causa di tale situazione,
folle più che paradossale, non è il referendum del 1987. Esso fu
influenzato dall’ondata emotiva susseguente l’incidente di Chernobyl
(100 morti rispetto ai 2000 del Vajont!). L’abbandono fu dovuto a
successive decisioni politiche. Esse erano motivate dal basso prezzo del
petrolio o, più probabilmente, da interessi forse non tanto
confessabili. Uno può essere quello legato alle energie rinnovabili:
l’eolico, il solare, le biomasse. Dai dati forniti sul numero 27 di
Aspenia dal prof. Ricci, esse hanno ricevuto finanziamenti per circa 50
miliardi di euro, con il bel risultato di fornire solo l’1 per cento
dell’energia nazionale. Le ultime “trovate” per difendere tali interessi
sono quelle che l’energia elettronucleare costa più delle altre, che il
ritorno al nucleare civile sarebbe giustificato solo se si volessero
costruire armi nucleari, e così via. Sono “piacevolezze” analoghe a
quelle di chi si oppone alle produzioni agricole geneticamente
modificate. Il risultato sarà che entro pochi anni l’agricoltura
italiana sarà fuori mercato. Per ritornare al nucleare, l’Italia non
partirebbe da zero. Mantiene un certo numero di scienziati, di ingegneri
e di tecnici; dispone di una certa capacità industriale, preservata
soprattutto lavorando all’estero. Non siamo nelle condizioni della
Polonia, che invece deve partire dal nulla, ma che ha deciso di aprire
una centrale nucleare nel 2020.
Un’altra inesattezza, spesso ripetuta, è che la costruzione di una
centrale richiederebbe una decina di anni. L’Epr che i francesi
costruiscono in Finlandia sarà completato in 60 mesi. In Cina, India e
Giappone, dove si sta verificando un vero e proprio boom di nuove
centrali, intercorrono da 36 a 48 mesi dall’arrivo del primo bulldozer
all’inizio della produzione. Rimane un grosso problema: quello delle
scorie. Gli altri Stati hanno adottato soluzioni transitorie. Non si
vede perché non possa farlo anche l’Italia. Beninteso, senza un consenso
“bipartisan” non è consigliabile partire. Rischieremmo di buttare via
ancora decine di miliardi di euro. Si dovrà ritornare al nucleare solo
se un solido consenso sarà acquisito e se si potrà programmare la
costruzione di almeno una decina di centrali, con una potenza
complessiva di almeno 15-20 gigawatt. Solo esse sarebbero significative
per non dover pagare miliardi di euro per “Kyoto”. Per produrre un KWh
con gas o carbone si producono da 300 a 600 grammi di CO2. Esistono poi
altre difficoltà. Le prime sono legislative. Abbiamo leggi e regolamenti
tanto restrittivi da bloccare tutto. Se non se ne approvano di simili
agli altri paesi europei, è inutile ricominciare. Inoltre, gli organismi
di autorizzazione e controllo - necessari per garantire la sicurezza dei
cittadini, lavoratori e ambiente - sono stati demoliti. Vanno
ricostruiti. Ciò richiede un tempo forse superiore a quello della
costruzione di nuove centrali.
Il problema dell’energia elettrica potrebbe divenire drammatico in
Italia fra qualche anno. Non solo per l’aumento del prezzo del petrolio,
impiegato ancora per produrre il 40 per cento dell’energia elettrica
nazionale. Lo diventerà per l’applicazione di Kyoto. Incoscientemente
l’Italia ne ha accettato la formulazione con modalità per essa
estremamente punitive. La base del calcolo non è l’emissione pro-capite,
ma il consumo del 1990. L’Italia consuma meno energia e ha emissioni
minori degli altri Stati. Dovrà però pagare 4-5 miliardi di euro
all’anno, che si aggiungeranno alla bolletta elettrica, che è già la più
cara in Europa. Con tale cifra si potrebbero costruire due Epr all’anno.
Ciascuno di essi permetterebbe un risparmio di circa 10 milioni di
tonnellate di CO2 all’anno. Il calcolo è presto fatto. Siamo fuori dai
limiti di Kyoto di 130 milioni di tonnellate. Alle automobili gli
italiani non rinunceranno. Per l’idrogeno - utile per l’autotrazione, ma
non per la produzione di energia, poiché per produrlo se ne consumerebbe
più di quanto esso fornirebbe - ci vorranno ancora decenni. Non pretendo
che i dati che fornisco siano esatti. Sarebbe però il caso che il
problema venisse seriamente affrontato da esperti del settore per poter
dibattere su dati affidabili.
01 settembre 2005
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