Il ruolo dell'Italia, tra Europa e Stati Uniti
di Giovanni Castellaneta e
Francesco Maria Talò*
da
Ideazione, luglio-agosto 2005
Viviamo in tempi di potere dell’istante, in una sorta di
“effimerocrazia”. Immersi nella cronaca, tutto è esaltato
dall’immediatezza di Internet. Le valutazioni non mancano, ma nel
complesso siamo sopraffatti dalle notizie e la percezione immediata
sembra contare più della riflessione su avvenimenti e problemi. La
prevalenza dell’effimero è legata alla velocità dei tempi e alla
tendenza a giudicare sulla base di pochi dati superficiali. Ciò comporta
l’affermazione di stereotipi. Prevale il pregiudizio sul giudizio
ponderato e critico. Si rafforzano così apparati intellettuali capaci di
imporre verità preconfezionate nelle vesti intoccabili del politicamente
corretto. Presi dalle vicende del giorno perdiamo la capacità di analisi
strategica e quindi di sintesi dei nostri interessi alla luce di una
visione che sappia guardare al passato e quindi proiettarsi verso il
futuro. Si rischia di perdere quella capacità di visione connessa
all’esercizio della leadership. La fermezza di fronte alle vicende e
alle avversità del momento è caratteristica di chi ha una rotta chiara
basata su principi e presupposti storici e orientata verso un futuro
improntato a valori ben definiti. Per fare questo occorre talvolta
lavorare meno con il microscopio delle agenzie di stampa e per così dire
rovesciare il cannocchiale per avere un campo visivo più ampio.
Questa miopia visiva e temporale ci può rendere vittime di chi invece ha
un proprio piano strategico, che prevede la distruzione del nostro modo
di vivere e l’affermazione di valori opposti a quelli che ispirano la
nostra cultura. Sono questi gli strateghi che si avvalgono del
terrorismo. Nella loro visione esso non è quindi inteso come un fine, ma
come un mezzo capace di agevolare il successo nei confronti di chi,
preso dalle situazioni drammatiche del momento, non considera in un
contesto più ampio le conseguenze di ogni azione: in primo luogo gli
effetti del cedimento ai ricatti del terrorismo. Ricatti spesso
particolarmente subdoli perché non sempre apertamente manifestati eppure
subiti in modo “preventivo” dalle vittime che per ottenere vantaggi
illusori si assoggettano a spinte contrarie ai propri interessi di
fondo. Scendere a patti, magari in modo inconfessato, con il terrorismo
è illusorio. La natura totalitaria del disegno dei terroristi non
ammette compromessi se non di natura tattica. Come asseriva Lenin, i
regimi totalitari sanno sfruttare bene le debolezze e anche le virtù
(come l’amore per la pace) degli avversari: ritengono che saranno le
proprie vittime a procurare la corda con la quale saranno impiccate.
Quindi dobbiamo mantenere la rotta e non distaccare le nostre azioni
dalla natura intrinseca delle nostre società: i terroristi dell’11
settembre ci hanno attaccato non per quello che facciamo, ma per quello
che siamo. I terroristi alla fine non fanno sconti, poco importa chi è
al potere, ciò che non possono sopportare è la natura aperta e libera
delle nostre società. Per questo al di là delle differenze d’opinione
contingenti su singole questioni, che sono sempre esistite e sempre si
riproporranno, ai due lati dell’Atlantico siamo legati da un destino
comune nella sfida al nuovo nemico totalitario del Ventunesimo secolo.
Spesso coloro che si suppongono realisti (ma in realtà sono soprattutto
cinici) privilegiano il presente, eventualmente come presupposto per
l’immediato futuro, rispetto alla visione delle prospettive più lontane
a venire e all’analisi di quanto ci è alle spalle. Per essere davvero
realisti dovremmo non incatenarci al presente, che è il prodotto del
passato, ma guardare al futuro, che è la prossima realtà.
Si evolve dunque è:
dinamismo contro staticità
Un atteggiamento dinamico contrasta con lo straordinario culto del
concetto di stabilità, che ha caratterizzato l’Europa negli ultimi
decenni. Si tratta di una tendenza culturale e psicologica che ha
talvolta prodotto effetti dannosi in politica come in economia ed è uno
dei caratteri di maggiore distinzione tra gli europei e gli americani.
La stabilità negli anni Novanta era certo un’esigenza per affrontare i
pericoli dell’inflazione in economia e della conflittualità cronica in
politica (interna come estera). Sono così nati i Patti di stabilità
(nella Ue come nei Balcani), ma molti hanno dimenticato che si tratta di
strumenti (anche se utili e importanti) mentre l’obiettivo è la
crescita, il miglioramento delle condizioni umane. Si è così passati dal
valore strumentale della stabilità a un mito utilizzato pigramente. Come
spesso accade, il conformismo si è impadronito di un concetto e,
riaffermandolo di continuo, ne ha sclerotizzato la natura. In realtà il
concetto di stasi è antitetico alla stessa natura della storia per la
quale si parla infatti di un corso. Una storia che, differentemente da
quanto si è potuto credere in un momento di effettiva svolta (con la
caduta del mito del comunismo), non è affatto finita (né ieri né mai),
ma è invece infinita.
Guardando al passato (una visione storica ci soccorre per costruire il
futuro), gli europei non hanno sempre avuto un atteggiamento così
immobilista. Nel Rinascimento è stata proprio l’Italia il motore
dell’innovazione in tutti i campi dell’attività umana e la nostra
cultura rimane ancora fondata su quel periodo d’oro. Dovremmo quindi
costruire con l’America un rapporto non più basato sul presupposto
pessimistico dei cambiamenti quale fonte di pericolo e pertanto della
necessità di conservare a tutti i costi una stabilità, che ci può
preservare dal peggio. Dovrebbe ormai essere chiaro che per il
presidente Berlusconi la stabilità non è un valore in sé. In economia,
senza crescita stabilità vuol dire stagnazione; in politica, senza
progresso vuol dire conservazione di uno status quo spesso
inaccettabile. Dobbiamo superare una visione pigra degli affari
internazionali per adattare l’impegno di noi europei al dinamismo del
mondo contemporaneo, che esige non solo una pronta reazione alle sfide,
ma anche un’attiva capacità propositiva.
Il presidente del Consiglio Berlusconi può essere annoverato nella
categoria degli “amici di Bush” soprattutto perché condivide con il
presidente americano una visione della vita e della politica improntata
alla chiarezza nella definizione dei valori ed alla fermezza nel loro
perseguimento. Italia e Stati Uniti lavorano fianco a fianco
nell’affrontare i problemi internazionali. Noi ci impegnamo affinché
tale rapporto includa l’insieme dell’Unione Europea, che deve affermare
una personalità di politica estera adeguata alla sua storia e capacità
economica. Tale nostro impegno è comunque caratterizzato da una
“sensibilità europea” (che è del resto tipicamente italiana) per
l’affermazione del diritto internazionale e il raggiungimento degli
obiettivi del millennio, fissati dai capi di Stato e di governo dell’Onu
per superare le ingiustizie e le crisi che affliggono il pianeta. Se
l’Europa non si conquisterà il ruolo che le compete lo faranno altre
realtà emergenti, forse a scapito dei nostri paesi: la politica
internazionale – come la fisica – ha orrore del vuoto ed è chiaro che il
vuoto di politica all’interno dell’Europa può essere riempito solo
dall’Unione e non da velleitarie affermazioni nazionalistiche di singoli
paesi membri.
Riannodare con fiducia le relazioni
transatlantiche
Con il secondo mandato di Bush, significativamente iniziato con una
visita alla Ue e alla Nato per incontrare gli alleati europei, pensiamo
che si possa guardare in termini più costruttivi al futuro. Ognuno deve
pensare a fare la sua parte. Per noi europei ciò vuol dire soprattutto
smettere di puntare l’indice verso l’asserito unilateralismo americano,
ma impegnarsi per dare efficacia al nostro multilateralismo e renderlo
credibile. Ciò vuol dire anche archiviare velleitarismi multipolari.
Bisogna rendersi conto che i grandi rivolgimenti del Ventunesimo secolo
stanno forse portando al superamento di alcuni concetti legati al
vecchio sistema degli equilibri tra potenze. I fatti dimostreranno come
fosse ingiusta la descrizione dell’attuale Amministrazione americana
come un monolitico blocco neoconservatore: essa è una realtà fluida
sapientemente guidata dalla Casa Bianca. Sta anche ai paesi Ue dare
credibilità ad un rapporto basato sul multilateralismo efficace,
attraverso il nostro impegno in campo nazionale (a cominciare dalla
crescita del sistema di sicurezza, ovvero delle risorse da destinare al
comparto esteri-difesa), europeo (con l’attuazione degli impegni assunti
con la Politica Europea di Sicurezza e di Difesa) e transatlantico
(colmando almeno in parte l’enorme divario tra le nostre capacità e
quelle americane).
Occorre affermare una distinzione tra approccio multilaterale (da
promuovere con gli americani quale metodo di lavoro più efficace per una
lungimirante difesa degli interessi comuni) e affermazione del
multipolarismo (da evitare per il carattere divisivo che potrebbe
assumere nel contesto transatlantico). In genere i fautori del
multipolarismo perseguono l’obiettivo di “Europa potenza” al fine di
costituire un “contrappeso” (secondo un termine in voga tra gli analisti
di Washington) al potere americano. è peraltro significativa la
contraddittorietà tra tali ambizioni europeiste e il sostegno ad
aspirazioni di carattere nazionalistico di alcuni paesi nell’ambito del
Consiglio di Sicurezza o alla tendenza ad affermare il ruolo di
direttori di pochi paesi per l’indirizzo della politica europea.
Riteniamo quindi che la definizione dell’Europa come “contrappeso” sia
al contempo (come in genere accade) velleitaria e pericolosa. Si
scontrerebbe con un irrigidimento della posizione americana e
l’opposizione di numerosi tra gli stessi paesi europei (non disposti a
farsi mettere sotto tutela da direttori ristretti). Pertanto ostinarsi a
voler affermare l’Europa quasi in contrapposizione (pur se amichevole)
agli Stati Uniti causerebbe non solo divisioni tra le due coste
dell’Atlantico ma anche all’interno dell’Unione Europea, finendo con
l’indebolire quella crescita politica della Ue che si vuole ottenere.
Per noi europei è meglio continuare a puntare sull’“euroatlantismo” e
per gli americani dovrebbe essere preferibile assecondare il
rafforzamento del ruolo politico dell’Unione Europea in quanto tale,
comprendendo che essa potrà costituire la migliore garanzia per un più
equo burden sharing nel perseguimento di valori condivisi. Convincendo
gli americani della serietà del nostro impegno sulla strada
dell’integrazione europea e nei rapporti euroatlantici, potremmo
ottenerne un definitivo riconoscimento della Ue quale soggetto non solo
economico ma anche politico, con cui Washington dovrà trattare sempre di
più alla pari. Potremo allora affermare con più forza le sensibilità
proprie delle nostre opinioni pubbliche, che abbiamo sviluppato anche
attraverso elaborati strumenti giuridici: dalla difesa dell’ambiente a
quella dei diritti umani. Si tratterà insomma di costruire una “Europa
potenza”, che non sia però potenza concorrente agli Stati Uniti, ma
complementare perché inserita in un contesto di relazioni internazionali
che superi tanto la logica dei blocchi contrapposti, quanto
l’affermazione di antichi equilibri (e contrasti) tra potenze. Ciò sarà
reso più facile dalla consapevolezza di appartenere (nonostante le tante
differenze culturali che rendono di moda i discorsi sull’Atlantico più
largo) ad un’unica civiltà, che deve guardare all’avvenire con fiduciosa
convinzione nei propri valori. In definitiva, dobbiamo imparare ad
essere anche noi europei (insieme agli americani che già lo sono)
costruttori del nostro destino, fabbri del nostro futuro e non
disincantati e magari eruditi spettatori, pronti solo a dispensare
critiche a chi agisce.
La scelta euroatlantica va confermata appunto perché non confondiamo i
dati di fondo con pur comprensibili percezioni contingenti. Pertanto non
condividiamo l’allarme sulla crescente divergenza tra i valori delle
società europee e quelli americani. Siamo in presenza di un’evoluzione
certo difficile da gestire e non sempre sincrona ai due lati
dell’Atlantico. Dobbiamo peraltro fronteggiare anche fenomeni comuni ad
Europa e America e probabilmente legati al parallelismo tra le spinte
alla globalizzazione e quelle alla frammentazione delle nostre società.
Non solo è complessa l’Europa (lo è quasi per definizione), ma lo
divengono sempre di più gli Stati Uniti con la distinzione tra l’America
profonda e quella degli Stati marittimi, che in parte coincide con
quella elettorale tra Red States e Blue States. Dobbiamo insomma essere
consapevoli del fatto che tra Europa e Stati Uniti possiamo avere
sensibilità (per quanto concerne l’ambiente), valutazioni (circa la
Corte Penale Internazionale) e anche interessi diversi (ad esempio in
campo commerciale), ma non dobbiamo ritenere che ciò significhi avere
differenti valori di fondo. L’Europa (che intendiamo non limitata alla
Ue, ma inclusiva della Russia e degli altri paesi non appartenenti
all’Unione) e l’America (includendo certamente anche il Canada) sono
“condannate” dalle comuni origini culturali ad essere portatori degli
stessi valori, in un mondo dove le crisi (spesso di crescita) di civiltà
diverse dalle nostre e con cui dovremo comunque sviluppare il dialogo ci
imporranno una ricerca delle identità comuni.
L’impegno a favore della libertà nel mondo confermato con tanta evidenza
da Bush in occasione del suo discorso di insediamento non è che
un’espressione di ideali nati in Europa e con cui la nostra cultura
politica, tradizionalmente ideologizzata, dovrebbe avvertire una
immediata sintonia. In fondo il cosiddetto “globalismo democratico”, che
sembra contraddistinguere l’attuale Amministrazione, non è altro che una
variante dell’“internazionalismo liberale” di grandi presidenti
democratici, come Wilson e F.D. Roosevelt. In tal senso i repubblicani
di oggi (come in passato avvenne con Reagan, che è stato considerato un
repubblicano anomalo) sono contraddistinti da una impostazione che
riprende molti aspetti della tradizione internazionalista democratica.
Una politica che si discosta da quella di amministrazioni repubblicane
più pragmaticamente orientate da equilibri di potenza (ad esempio quella
Nixon-Kissinger ed in parte dello stesso Bush padre). I toni retorici e
i riferimenti religiosi evidenziano il carattere etico della politica
estera di Bush, che si avvicina così all’impostazione delle presidenze
Reagan e di esponenti democratici come F.D. Roosevelt ed in una certa
misura lo stesso Clinton (associato a Blair). Tali riferimenti hanno un
valore particolare per un presidente che dopo l’11 settembre sembra
avvertire fortemente un propria missione storica.
E’ rilevante, al riguardo, il riferimento nei discorsi del presidente
americano all’impegno per la libertà nel mondo nel quale si inserisce la
missione in Iraq. Un impegno affermato – come ha sottolineato Bush – nel
celebre discorso di Roosevelt sulle «quattro libertà» (di espressione,
di credo, dal bisogno e dalla paura) che contribuì alla nascita
dell’Onu, poi dalla dottrina Truman all’inizio della guerra fredda («gli
Stati Uniti hanno la supremazia ed il diritto di intervento ovunque nel
mondo [...] gli Usa aiuteranno politicamente ed economicamente i paesi
minacciati dal comunismo») e quindi dalla sfida di Reagan all’Impero del
male. Si tratta di riferimenti ideologici utili a confutare le
affrettate contestazioni che spesso in Europa vengono mosse alla
politica americana. D’altronde a Washington sono grandemente apprezzati
i frequenti riferimenti del presidente Berlusconi alla necessità di
diffondere la democrazia nel mondo e al profondo impatto dell’11
settembre sulla coscienza di ogni americano. Al riguardo gli europei che
si trovavano a New York quell’11 settembre ed hanno visto con i propri
occhi le Torri Gemelle sotto attacco sono testimoni particolari di cosa
voleva dire quel giorno sentirsi tutti americani. Con questo non
cerchiamo di introdurre una categoria di reduci, ma certo quelle
immagini sono un ricordo indelebile: quel giorno siamo stati tutti
aggrediti perché hanno voluto colpire i valori di noi tutti, americani
ed europei.
Ricordiamo l’atteggiamento di chi durante la guerra fredda era soggetto
ad una sorta di sudditanza psicologica nei confronti del comunismo e pur
non condividendone la teoria e la pratica disumana ne considerava quasi
ineluttabile l’avanzamento. è stato un uomo nuovo dell’America, Ronald
Reagan, il presidente cow-boy tanto disprezzato dagli intellettuali
europei, a dare al sistema sovietico lo scossone, che ha tanto
contribuito alla sua caduta. Al Vertice G8 di Sea Island è stata varata
un’iniziativa a favore delle riforme nella vasta regione del Medio
Oriente e dell’Africa settentrionale. Gli avvenimenti di queste
settimane sembrano dare ragione all’intuizione di assecondare la sete di
cambiamenti di quella regione. Dovremmo adesso anche ricordare lo
scetticismo con cui molti avevano accolto l’idea di “esportare la
democrazia”. L’Italia si è invece impegnata per far emergere il
carattere aperto di un’iniziativa che non vuole imporre modelli. Lo
abbiamo fatto con lo stesso spirito del nostro impegno a fianco del
popolo iracheno che ha votato in gennaio e della nostra adesione al
progetto della “Comunità delle democrazie”. Al riguardo l’Italia,
insieme alla Turchia e allo Yemen, ha assunto un ruolo guida nel
“Dialogo per l’assistenza alla democrazia”, contribuendo così alla prima
riunione del “Forum per il futuro” che nel dicembre scorso ha riunito i
ministri del G8 con quelli di molti paesi del Medio Oriente e
dell’Africa settentrionale. Come si vede, il tempo fa giustizia di molti
pregiudizi. Noi non crediamo che esistano popoli e culture destinati a
non conoscere la democrazia e la libertà, anche se siamo consapevoli che
tali valori possono assumere forme diverse e evolvere in tempi
differenti.
La sfida del terrorismo e il dialogo tra le
civiltà
Crollato il comunismo, si presenta la sfida del terrorismo. Con essa il
dilemma tra il soccombere ai ricatti di chi vuole distruggere il nostro
sistema di valori e la rinuncia a garanzie civili. Difficile equazione
connessa anche al corretto equilibrio tra sicurezza e libertà. Si tratta
di non cadere nella trappola dello scontro tra civiltà, che è il vero
obiettivo degli estremisti. Una prospettiva da rifiutare ma che non
possiamo esorcizzare ignorandola. Il presidente pakistano Musharraf, che
è stato ricevuto a Roma dal presidente Berlusconi, ha affermato la
necessità di impedire che una nuova “cortina di ferro” cada tra
l’Occidente e il mondo islamico. Siamo ancora in tempo: dobbiamo
prevenire che si realizzi il disegno dei terroristi. Per questo vogliamo
promuovere un dialogo tra civiltà che, per quanto differenti, devono
sempre essere accomunate da valori di umanità. I nostri avversari, che
utilizzano il terrorismo come strumento per il raggiungimento dei loro
obiettivi, rappresentano invece semplicemente l’inciviltà che vuole
distruggere in primo luogo le più nobili tradizioni dell’Islam e quindi
conquistare ogni spazio secondo una concezione totalitaria del mondo.
Solo una visione storica, che ci rafforzi nel senso di identità
imperniato sui nostri valori, può consentirci di affrontare sfide
epocali come quella del terrorismo e la connessa trappola dello scontro
tra civiltà. Forti della nostra identità, possiamo coniugare fermezza e
dialogo e superare ricatti e suggestioni dettate dalle emozioni del
momento. Questo non vale solo per noi europei. Più in generale, in
un’ottica che trascenda dalla cronaca, va tenuto conto del rilievo che
assume il patrimonio culturale per il senso di identità nazionale di
popoli colpiti dai conflitti interni o internazionali. Il recupero di
tale patrimonio, e quindi delle radici culturali, può essere essenziale
(anche economicamente – ad esempio per il turismo – ma soprattutto
politicamente) nei paesi dove le Nazioni Unite sono impegnate in
complesse missioni di pace e di ricostruzione post-conflittuale.
L’Italia, che con i propri militari già dà tanto per la pace nel mondo,
contribuisce alla ricomposizione e alla prevenzione dei conflitti anche
con specialisti nei vari settori dei beni culturali. Ecco che, superando
una visione contingente degli avvenimenti internazionali, il ruolo del
recupero del patrimonio artistico per la pace e la sicurezza
internazionale si impone accanto a quello ormai affermato dei fattori
economici. In quanto superpotenza culturale, che detiene una quota
esorbitante del patrimonio artistico mondiale, l’Italia ha un dovere di
tutelare i beni culturali degli altri paesi e il diritto di giocare un
ruolo di primo piano.
In questo contesto è importante il nostro accordo con l’Unesco per
assistere i paesi colpiti da disastri naturali o da conflitti interni e
internazionali nel recupero del loro patrimonio culturale. Un’iniziativa
che ha fatto parlare di “caschi blu della cultura” con riferimento agli
italiani impegnati in tanti settori scientifici e artistici per
assicurare un futuro alla stessa identità nazionale di paesi usciti da
situazioni di conflitto. Potrebbe anche essere interessante analizzare
il significato del peso assunto dalle questioni morali nel determinare
le scelte degli elettori americani. Il prevalere di tali temi nelle
motivazioni di voto rispetto ad altri molto dibattuti, quali la
situazione economica e quella in Iraq, sembra dimostrare che i cittadini
non sempre privilegiano i problemi più legati all’attualità. Ciò
potrebbe testimoniare una tendenza a privilegiare l’essere rispetto al
fare, che è del resto intrinseca in elezioni personalizzate come quelle
presidenziali. Questo è un altro indizio di come, nonostante le
apparenze, il fiume carsico delle grandi linee di fondo della politica
può prevalere sugli umori del momento ed indurre ad analisi e visioni
più ampie dei temi da affrontare. Spesso non si riflette su un aspetto
della forza del multilateralismo strettamente connesso con queste
riflessioni. Talvolta è grazie ad obblighi internazionali multilaterali
che i governi possono assumersi impegni rispondenti agli interessi di
lungo periodo delle proprie comunità, ma che possono contrastare con
esigenze avvertite nell’immediato dalle opinioni pubbliche. Non si
tratta di aggirare i processi democratici: la sovranità resta comunque
nazionale e i procedimenti di ratifica parlamentare e, nel caso della
Ue, la democraticità delle istituzioni garantiscono il rispetto della
volontà popolare.
Nulla è più effimero del permanente
Il potere dell’effimero ci impedisce di sviluppare strategie che
superino interessi particolari e momentanei per guardare al bene
generale e a prospettive di lunga durata. Proprio la spinta dettata da
interessi particolari, in questo caso nazionali, fa parlare di nuovi
membri permanenti nazionali per il Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Ecco
la contraddizione, l’ossimoro: nulla è più effimero del permanente. Ciò
che oggi appare attuale e perciò vogliamo rendere permanente è per sua
natura destinato a divenire domani anacronistico, ci si ingessa in
soluzioni che in breve tempo potranno essere oggetto delle stesse
critiche rivolte alla attuale situazione. Paradossalmente l’ossessione
di cogliere il momento per superare l’attuale anacronistica situazione
si traduce inevitabilmente in un nuovo anacronismo: ogni fotografia è
destinata a invecchiare e a divenire il ricordo di un tempo superato. Un
seggio permanente ai supposti potenti di oggi in futuro si tradurrebbe
in un’ulteriore anacronistica ingiustizia. Poiché due errori non fanno
una cosa giusta, è evidente che la saggezza dovrebbe sconsigliare
l’istituzione di nuovi membri permanenti nazionali.
Molto meglio puntare sulla flessibilità delle istituzioni e adattarle al
divenire dei tempi, essere pronti ai cambiamenti del futuro e non solo
riflettere quelli del passato. Chi, dovendo costituire un organo
collegiale, un consiglio d’amministrazione, sceglie componenti
irrevocabili, piuttosto che rappresentanti scelti per la loro capacità e
giudicabili per i loro risultati, responsabili di fronte agli azionisti?
La risposta è evidente, dettata dal buon senso prima ancora da
elementari esigenze di democrazia e efficienza. Le caratteristiche di
fluidità proprie dell’acqua sono più adatte ad adattarsi alle forme e
poi eventualmente a modellarle, che non l’illusoria rigidità del
ghiaccio. Si tratta in realtà di evitare in particolare che il concetto
di permanenza sia associato a Stati nazionali senza possibilità di
scrutinio. Diverso è il discorso se si considerano dei “seggi
permanenti” piuttosto che “membri permanenti”. Particolare è comunque la
situazione di grandi paesi che hanno caratteristiche intrinsecamente, e
quindi permanentemente, tali da renderne opportuna la presenza in
Consiglio di Sicurezza. è il caso degli Stati Uniti (uno Stato
semicontinentale, la più grande potenza militare ed economica del
mondo), della Russia (il paese più vasto del mondo che si estende su
larghe porzioni di due continenti) e della Cina (il paese più popoloso
del mondo dove vive circa un quinto dell’umanità).
In un’ottica di crescente peso per il regionalismo può invece accettarsi
l’ipotesi di seggi permanenti per continenti o grandi regioni
geografiche, assegnati a rotazione (eventualmente secondo criteri scelti
dai paesi della regione interessata o dalle Organizzazioni
Internazionali di riferimento). Questo è il caso dell’Africa, il
continente con il maggiore numero di Stati membri dell’Onu (53), che è
toccato dal maggior numero di crisi rilevanti per la sicurezza
internazionale e che certo dovrebbe avere un maggior peso nell’ambito
del Consiglio di Sicurezza. Per questo rifiutiamo privilegi eterni. Gli
organi decisionali della comunità internazionale non possono essere
strutturati come una Camera Alta con dei membri a vita, che sono più
uguali degli altri. Occorre costruire organismi che esaltino il
multilateralismo efficace e non rievochino in alcun modo i nefasti
nazionalismi dello scorso secolo.
Al riguardo sono eloquenti le parole di Alexis de Tocqueville il quale
ha osservato che gli americani «considerano la società un corpo in
progresso; l’umanità come un quadro cangiante in cui nulla è, né deve
essere, permanente e ammettono che ciò che sembra loro bene oggi possa
essere sostituito da qualcosa di meglio domani». Anche oggi, mentre
riflettiamo sui motivi forti che rendono indispensabile il legame
transatlantico, ci soccorrono le parole di Tocqueville. Non si tratta di
guardare semplicemente all’America come ad un esempio, non proponiamo un
rapporto a senso unico: siamo alla presenza di un’analisi svolta da un
intellettuale profondamente europeo, un americano forse non avrebbe
potuto cogliere con altrettanta lucidità certe caratteristiche della sua
società che traggono origine da valori nati in Europa. I valori sono
quelli di tolleranza, democrazia e libertà, ma per la loro difesa è
essenziale una fiducia nel futuro, un costruttivo ottimismo basato su
due caratteristiche apparentemente contraddittorie, ma in realtà
complementari: una coppia antitetica alle categorie dell’effimero e del
permanente, di cui abbiamo rilevato i pericolosi effetti.
Da una parte la perseveranza nella difesa e nella diffusione dei valori
nei quali si crede, quindi la capacità di resistere alla tendenza a far
prevalere interessi particolari ed effimeri. Dall’altra la flessibilità,
la capacità di adattarsi ai tempi per sviluppare le strategie più
efficaci per affermare i valori (questi sì permanenti) nelle società in
evoluzione, nei diversi contesti socio-culturali, più in generale nella
comunità internazionale. La perseveranza, la capacità di mantenere la
rotta nonostante le avversità del momento, è la caratteristica dei
grandi leader , anche e forse soprattutto nei paesi democratici. Un nome
per tutti quello di Churchill, l’uomo che ha combattuto l’appeasement,
che fino in fondo ha guidato la Gran Bretagna contro il nazismo che
conquistava l’Europa, che poi ha descritto lucidamente la calata di una
cortina di ferro, del dilagare di un’altra dittatura negatrice dei
nostri valori. Reagan ha raccolto il testimone e dopo il nazismo anche
il comunismo è stato sconfitto. L’Occidente ha avuto la fortuna di avere
statisti che non hanno creduto nel carattere permanente di questi regimi
disumani, che non hanno ceduto alla convenienza di compromessi dettati
dalle esigenze del momento e dalla pressione, anche comprensibile, delle
opinioni pubbliche.
Dopo il nazismo e il comunismo, il nemico da battere è adesso il
fanatismo di chi vuole farci cadere nella trappola di una guerra di
civiltà e utilizza il terrorismo per indurci a rifugiarci in un
illusorio isolamento oppure a utilizzare strumenti che negano i nostri
valori di democrazia e tolleranza. I terroristi ci ritengono succubi
della dittatura dell’effimero, ma sono vittime della propria propaganda
che dipinge la nostra società come debole, corrotta e consumistica. Per
batterli dobbiamo dimostrare di essere capaci di perseguire con fermezza
i nostri disegni per lo sviluppo del benessere, della libertà e della
democrazia nel mondo, rispettando le diversità culturali e promuovendo
il dialogo tra civiltà e religioni. Continueremo a leggere le notizie
d’agenzia, ma non ne saremo prigionieri. Manterremo una prospettiva
storica, una capacità di analisi per studiare il passato e sviluppare
prospettive di lungo periodo. Con tale consapevolezza, alleati del mondo
islamico moderato, ci batteremo contro il fanatismo che vuole dividerci
per poi affermare una supremazia mondiale. La flessibilità, la capacità
di sviluppare le strategie più adatte alle circostanze, è la
caratteristica che consente alla perseveranza di essere efficace e
quindi duratura. Il punto di riferimento di ogni scelta sono comunque i
valori. Solo così la flessibilità non è opportunismo né uno
spregiudicato uso dei mezzi pur di raggiungere i fini. Occorre
considerare le trasformazioni di fondo che attraversano la comunità
internazionale, cambiamenti che superano l’alternarsi delle
amministrazioni determinate dai mutamenti dell’opinione pubblica.
L’11 settembre abbiamo forse superato un giro di boa che avevamo
iniziato con il crollo del Muro di Berlino il 9 novembre 1989 (dall’11.9
al 9.11). Compiuto il secolo breve delle ideologie che hanno diviso
l’Occidente, si è aperto un nuovo periodo. Sarà il periodo della guerra
tra civiltà o quello del superamento dell’ordine di Westfalia che regge
la comunità internazionale basata sulla sovranità statale dal 1648?
Torniamo agli imperi? Quale sarà il ruolo dell’Europa? Come conciliare
le esigenze delle espressioni della società civile nella comunità
internazionale con quelle degli Stati e in definitiva della
rappresentanza democratica che essi esprimono (o dovrebbero esprimere)?
è possibile che le armi di distruzione di massa finiscano nelle mani di
fanatici che odiano i nostri valori? Le risposte dipendono dalle azioni
politiche di oggi. Occorre che noi europei ed americani ce ne rendiamo
conto per poterci impegnare in un dialogo strategico euroatlantico, che
superi le polemiche legate a campagne elettorali e ad urgenze che di
volta in volta sembrano esaurire il dibattito politico.
01 settembre 2005
*Giovanni Castellaneta
è Consigliere diplomatico del presidente del Consiglio e rappresentante
personale per il G8. Vice-chairman di Finmeccanica. Ambasciatore a
Teheran e Canberra, sarà il prossimo ambasciatore d’Italia a Washington.
*Francesco Maria Talò tratta presso
l’Ufficio del Consigliere diplomatico del presidente del Consiglio le
questioni concernenti le Nazioni Unite, la Nato, il Medio Oriente e
l’Europa centro-orientale. Ha prestato servizio a Tokyo, Bonn e alla
Rappresentanza permanente presso l’Onu a New York.
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