Il ruolo dell'Italia, tra Europa e Stati Uniti
di Giovanni Castellaneta e
Francesco Maria Talò*
da Ideazione, luglio-agosto 2005

Viviamo in tempi di potere dell’istante, in una sorta di “effimerocrazia”. Immersi nella cronaca, tutto è esaltato dall’immediatezza di Internet. Le valutazioni non mancano, ma nel complesso siamo sopraffatti dalle notizie e la percezione immediata sembra contare più della riflessione su avvenimenti e problemi. La prevalenza dell’effimero è legata alla velocità dei tempi e alla tendenza a giudicare sulla base di pochi dati superficiali. Ciò comporta l’affermazione di stereotipi. Prevale il pregiudizio sul giudizio ponderato e critico. Si rafforzano così apparati intellettuali capaci di imporre verità preconfezionate nelle vesti intoccabili del politicamente corretto. Presi dalle vicende del giorno perdiamo la capacità di analisi strategica e quindi di sintesi dei nostri interessi alla luce di una visione che sappia guardare al passato e quindi proiettarsi verso il futuro. Si rischia di perdere quella capacità di visione connessa all’esercizio della leadership. La fermezza di fronte alle vicende e alle avversità del momento è caratteristica di chi ha una rotta chiara basata su principi e presupposti storici e orientata verso un futuro improntato a valori ben definiti. Per fare questo occorre talvolta lavorare meno con il microscopio delle agenzie di stampa e per così dire rovesciare il cannocchiale per avere un campo visivo più ampio.

Questa miopia visiva e temporale ci può rendere vittime di chi invece ha un proprio piano strategico, che prevede la distruzione del nostro modo di vivere e l’affermazione di valori opposti a quelli che ispirano la nostra cultura. Sono questi gli strateghi che si avvalgono del terrorismo. Nella loro visione esso non è quindi inteso come un fine, ma come un mezzo capace di agevolare il successo nei confronti di chi, preso dalle situazioni drammatiche del momento, non considera in un contesto più ampio le conseguenze di ogni azione: in primo luogo gli effetti del cedimento ai ricatti del terrorismo. Ricatti spesso particolarmente subdoli perché non sempre apertamente manifestati eppure subiti in modo “preventivo” dalle vittime che per ottenere vantaggi illusori si assoggettano a spinte contrarie ai propri interessi di fondo. Scendere a patti, magari in modo inconfessato, con il terrorismo è illusorio. La natura totalitaria del disegno dei terroristi non ammette compromessi se non di natura tattica. Come asseriva Lenin, i regimi totalitari sanno sfruttare bene le debolezze e anche le virtù (come l’amore per la pace) degli avversari: ritengono che saranno le proprie vittime a procurare la corda con la quale saranno impiccate.

Quindi dobbiamo mantenere la rotta e non distaccare le nostre azioni dalla natura intrinseca delle nostre società: i terroristi dell’11 settembre ci hanno attaccato non per quello che facciamo, ma per quello che siamo. I terroristi alla fine non fanno sconti, poco importa chi è al potere, ciò che non possono sopportare è la natura aperta e libera delle nostre società. Per questo al di là delle differenze d’opinione contingenti su singole questioni, che sono sempre esistite e sempre si riproporranno, ai due lati dell’Atlantico siamo legati da un destino comune nella sfida al nuovo nemico totalitario del Ventunesimo secolo. Spesso coloro che si suppongono realisti (ma in realtà sono soprattutto cinici) privilegiano il presente, eventualmente come presupposto per l’immediato futuro, rispetto alla visione delle prospettive più lontane a venire e all’analisi di quanto ci è alle spalle. Per essere davvero realisti dovremmo non incatenarci al presente, che è il prodotto del passato, ma guardare al futuro, che è la prossima realtà.

Si evolve dunque è:
dinamismo contro staticità

Un atteggiamento dinamico contrasta con lo straordinario culto del concetto di stabilità, che ha caratterizzato l’Europa negli ultimi decenni. Si tratta di una tendenza culturale e psicologica che ha talvolta prodotto effetti dannosi in politica come in economia ed è uno dei caratteri di maggiore distinzione tra gli europei e gli americani. La stabilità negli anni Novanta era certo un’esigenza per affrontare i pericoli dell’inflazione in economia e della conflittualità cronica in politica (interna come estera). Sono così nati i Patti di stabilità (nella Ue come nei Balcani), ma molti hanno dimenticato che si tratta di strumenti (anche se utili e importanti) mentre l’obiettivo è la crescita, il miglioramento delle condizioni umane. Si è così passati dal valore strumentale della stabilità a un mito utilizzato pigramente. Come spesso accade, il conformismo si è impadronito di un concetto e, riaffermandolo di continuo, ne ha sclerotizzato la natura. In realtà il concetto di stasi è antitetico alla stessa natura della storia per la quale si parla infatti di un corso. Una storia che, differentemente da quanto si è potuto credere in un momento di effettiva svolta (con la caduta del mito del comunismo), non è affatto finita (né ieri né mai), ma è invece infinita.

Guardando al passato (una visione storica ci soccorre per costruire il futuro), gli europei non hanno sempre avuto un atteggiamento così immobilista. Nel Rinascimento è stata proprio l’Italia il motore dell’innovazione in tutti i campi dell’attività umana e la nostra cultura rimane ancora fondata su quel periodo d’oro. Dovremmo quindi costruire con l’America un rapporto non più basato sul presupposto pessimistico dei cambiamenti quale fonte di pericolo e pertanto della necessità di conservare a tutti i costi una stabilità, che ci può preservare dal peggio. Dovrebbe ormai essere chiaro che per il presidente Berlusconi la stabilità non è un valore in sé. In economia, senza crescita stabilità vuol dire stagnazione; in politica, senza progresso vuol dire conservazione di uno status quo spesso inaccettabile. Dobbiamo superare una visione pigra degli affari internazionali per adattare l’impegno di noi europei al dinamismo del mondo contemporaneo, che esige non solo una pronta reazione alle sfide, ma anche un’attiva capacità propositiva.

Il presidente del Consiglio Berlusconi può essere annoverato nella categoria degli “amici di Bush” soprattutto perché condivide con il presidente americano una visione della vita e della politica improntata alla chiarezza nella definizione dei valori ed alla fermezza nel loro perseguimento. Italia e Stati Uniti lavorano fianco a fianco nell’affrontare i problemi internazionali. Noi ci impegnamo affinché tale rapporto includa l’insieme dell’Unione Europea, che deve affermare una personalità di politica estera adeguata alla sua storia e capacità economica. Tale nostro impegno è comunque caratterizzato da una “sensibilità europea” (che è del resto tipicamente italiana) per l’affermazione del diritto internazionale e il raggiungimento degli obiettivi del millennio, fissati dai capi di Stato e di governo dell’Onu per superare le ingiustizie e le crisi che affliggono il pianeta. Se l’Europa non si conquisterà il ruolo che le compete lo faranno altre realtà emergenti, forse a scapito dei nostri paesi: la politica internazionale – come la fisica – ha orrore del vuoto ed è chiaro che il vuoto di politica all’interno dell’Europa può essere riempito solo dall’Unione e non da velleitarie affermazioni nazionalistiche di singoli paesi membri.

Riannodare con fiducia le relazioni transatlantiche

Con il secondo mandato di Bush, significativamente iniziato con una visita alla Ue e alla Nato per incontrare gli alleati europei, pensiamo che si possa guardare in termini più costruttivi al futuro. Ognuno deve pensare a fare la sua parte. Per noi europei ciò vuol dire soprattutto smettere di puntare l’indice verso l’asserito unilateralismo americano, ma impegnarsi per dare efficacia al nostro multilateralismo e renderlo credibile. Ciò vuol dire anche archiviare velleitarismi multipolari. Bisogna rendersi conto che i grandi rivolgimenti del Ventunesimo secolo stanno forse portando al superamento di alcuni concetti legati al vecchio sistema degli equilibri tra potenze. I fatti dimostreranno come fosse ingiusta la descrizione dell’attuale Amministrazione americana come un monolitico blocco neoconservatore: essa è una realtà fluida sapientemente guidata dalla Casa Bianca. Sta anche ai paesi Ue dare credibilità ad un rapporto basato sul multilateralismo efficace, attraverso il nostro impegno in campo nazionale (a cominciare dalla crescita del sistema di sicurezza, ovvero delle risorse da destinare al comparto esteri-difesa), europeo (con l’attuazione degli impegni assunti con la Politica Europea di Sicurezza e di Difesa) e transatlantico (colmando almeno in parte l’enorme divario tra le nostre capacità e quelle americane).

Occorre affermare una distinzione tra approccio multilaterale (da promuovere con gli americani quale metodo di lavoro più efficace per una lungimirante difesa degli interessi comuni) e affermazione del multipolarismo (da evitare per il carattere divisivo che potrebbe assumere nel contesto transatlantico). In genere i fautori del multipolarismo perseguono l’obiettivo di “Europa potenza” al fine di costituire un “contrappeso” (secondo un termine in voga tra gli analisti di Washington) al potere americano. è peraltro significativa la contraddittorietà tra tali ambizioni europeiste e il sostegno ad aspirazioni di carattere nazionalistico di alcuni paesi nell’ambito del Consiglio di Sicurezza o alla tendenza ad affermare il ruolo di direttori di pochi paesi per l’indirizzo della politica europea. Riteniamo quindi che la definizione dell’Europa come “contrappeso” sia al contempo (come in genere accade) velleitaria e pericolosa. Si scontrerebbe con un irrigidimento della posizione americana e l’opposizione di numerosi tra gli stessi paesi europei (non disposti a farsi mettere sotto tutela da direttori ristretti). Pertanto ostinarsi a voler affermare l’Europa quasi in contrapposizione (pur se amichevole) agli Stati Uniti causerebbe non solo divisioni tra le due coste dell’Atlantico ma anche all’interno dell’Unione Europea, finendo con l’indebolire quella crescita politica della Ue che si vuole ottenere.

Per noi europei è meglio continuare a puntare sull’“euroatlantismo” e per gli americani dovrebbe essere preferibile assecondare il rafforzamento del ruolo politico dell’Unione Europea in quanto tale, comprendendo che essa potrà costituire la migliore garanzia per un più equo burden sharing nel perseguimento di valori condivisi. Convincendo gli americani della serietà del nostro impegno sulla strada dell’integrazione europea e nei rapporti euroatlantici, potremmo ottenerne un definitivo riconoscimento della Ue quale soggetto non solo economico ma anche politico, con cui Washington dovrà trattare sempre di più alla pari. Potremo allora affermare con più forza le sensibilità proprie delle nostre opinioni pubbliche, che abbiamo sviluppato anche attraverso elaborati strumenti giuridici: dalla difesa dell’ambiente a quella dei diritti umani. Si tratterà insomma di costruire una “Europa potenza”, che non sia però potenza concorrente agli Stati Uniti, ma complementare perché inserita in un contesto di relazioni internazionali che superi tanto la logica dei blocchi contrapposti, quanto l’affermazione di antichi equilibri (e contrasti) tra potenze. Ciò sarà reso più facile dalla consapevolezza di appartenere (nonostante le tante differenze culturali che rendono di moda i discorsi sull’Atlantico più largo) ad un’unica civiltà, che deve guardare all’avvenire con fiduciosa convinzione nei propri valori. In definitiva, dobbiamo imparare ad essere anche noi europei (insieme agli americani che già lo sono) costruttori del nostro destino, fabbri del nostro futuro e non disincantati e magari eruditi spettatori, pronti solo a dispensare critiche a chi agisce.

La scelta euroatlantica va confermata appunto perché non confondiamo i dati di fondo con pur comprensibili percezioni contingenti. Pertanto non condividiamo l’allarme sulla crescente divergenza tra i valori delle società europee e quelli americani. Siamo in presenza di un’evoluzione certo difficile da gestire e non sempre sincrona ai due lati dell’Atlantico. Dobbiamo peraltro fronteggiare anche fenomeni comuni ad Europa e America e probabilmente legati al parallelismo tra le spinte alla globalizzazione e quelle alla frammentazione delle nostre società. Non solo è complessa l’Europa (lo è quasi per definizione), ma lo divengono sempre di più gli Stati Uniti con la distinzione tra l’America profonda e quella degli Stati marittimi, che in parte coincide con quella elettorale tra Red States e Blue States. Dobbiamo insomma essere consapevoli del fatto che tra Europa e Stati Uniti possiamo avere sensibilità (per quanto concerne l’ambiente), valutazioni (circa la Corte Penale Internazionale) e anche interessi diversi (ad esempio in campo commerciale), ma non dobbiamo ritenere che ciò significhi avere differenti valori di fondo. L’Europa (che intendiamo non limitata alla Ue, ma inclusiva della Russia e degli altri paesi non appartenenti all’Unione) e l’America (includendo certamente anche il Canada) sono “condannate” dalle comuni origini culturali ad essere portatori degli stessi valori, in un mondo dove le crisi (spesso di crescita) di civiltà diverse dalle nostre e con cui dovremo comunque sviluppare il dialogo ci imporranno una ricerca delle identità comuni.

L’impegno a favore della libertà nel mondo confermato con tanta evidenza da Bush in occasione del suo discorso di insediamento non è che un’espressione di ideali nati in Europa e con cui la nostra cultura politica, tradizionalmente ideologizzata, dovrebbe avvertire una immediata sintonia. In fondo il cosiddetto “globalismo democratico”, che sembra contraddistinguere l’attuale Amministrazione, non è altro che una variante dell’“internazionalismo liberale” di grandi presidenti democratici, come Wilson e F.D. Roosevelt. In tal senso i repubblicani di oggi (come in passato avvenne con Reagan, che è stato considerato un repubblicano anomalo) sono contraddistinti da una impostazione che riprende molti aspetti della tradizione internazionalista democratica. Una politica che si discosta da quella di amministrazioni repubblicane più pragmaticamente orientate da equilibri di potenza (ad esempio quella Nixon-Kissinger ed in parte dello stesso Bush padre). I toni retorici e i riferimenti religiosi evidenziano il carattere etico della politica estera di Bush, che si avvicina così all’impostazione delle presidenze Reagan e di esponenti democratici come F.D. Roosevelt ed in una certa misura lo stesso Clinton (associato a Blair). Tali riferimenti hanno un valore particolare per un presidente che dopo l’11 settembre sembra avvertire fortemente un propria missione storica.
E’ rilevante, al riguardo, il riferimento nei discorsi del presidente americano all’impegno per la libertà nel mondo nel quale si inserisce la missione in Iraq. Un impegno affermato – come ha sottolineato Bush – nel celebre discorso di Roosevelt sulle «quattro libertà» (di espressione, di credo, dal bisogno e dalla paura) che contribuì alla nascita dell’Onu, poi dalla dottrina Truman all’inizio della guerra fredda («gli Stati Uniti hanno la supremazia ed il diritto di intervento ovunque nel mondo [...] gli Usa aiuteranno politicamente ed economicamente i paesi minacciati dal comunismo») e quindi dalla sfida di Reagan all’Impero del male. Si tratta di riferimenti ideologici utili a confutare le affrettate contestazioni che spesso in Europa vengono mosse alla politica americana. D’altronde a Washington sono grandemente apprezzati i frequenti riferimenti del presidente Berlusconi alla necessità di diffondere la democrazia nel mondo e al profondo impatto dell’11 settembre sulla coscienza di ogni americano. Al riguardo gli europei che si trovavano a New York quell’11 settembre ed hanno visto con i propri occhi le Torri Gemelle sotto attacco sono testimoni particolari di cosa voleva dire quel giorno sentirsi tutti americani. Con questo non cerchiamo di introdurre una categoria di reduci, ma certo quelle immagini sono un ricordo indelebile: quel giorno siamo stati tutti aggrediti perché hanno voluto colpire i valori di noi tutti, americani ed europei.

Ricordiamo l’atteggiamento di chi durante la guerra fredda era soggetto ad una sorta di sudditanza psicologica nei confronti del comunismo e pur non condividendone la teoria e la pratica disumana ne considerava quasi ineluttabile l’avanzamento. è stato un uomo nuovo dell’America, Ronald Reagan, il presidente cow-boy tanto disprezzato dagli intellettuali europei, a dare al sistema sovietico lo scossone, che ha tanto contribuito alla sua caduta. Al Vertice G8 di Sea Island è stata varata un’iniziativa a favore delle riforme nella vasta regione del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale. Gli avvenimenti di queste settimane sembrano dare ragione all’intuizione di assecondare la sete di cambiamenti di quella regione. Dovremmo adesso anche ricordare lo scetticismo con cui molti avevano accolto l’idea di “esportare la democrazia”. L’Italia si è invece impegnata per far emergere il carattere aperto di un’iniziativa che non vuole imporre modelli. Lo abbiamo fatto con lo stesso spirito del nostro impegno a fianco del popolo iracheno che ha votato in gennaio e della nostra adesione al progetto della “Comunità delle democrazie”. Al riguardo l’Italia, insieme alla Turchia e allo Yemen, ha assunto un ruolo guida nel “Dialogo per l’assistenza alla democrazia”, contribuendo così alla prima riunione del “Forum per il futuro” che nel dicembre scorso ha riunito i ministri del G8 con quelli di molti paesi del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale. Come si vede, il tempo fa giustizia di molti pregiudizi. Noi non crediamo che esistano popoli e culture destinati a non conoscere la democrazia e la libertà, anche se siamo consapevoli che tali valori possono assumere forme diverse e evolvere in tempi differenti.

La sfida del terrorismo e il dialogo tra le civiltà

Crollato il comunismo, si presenta la sfida del terrorismo. Con essa il dilemma tra il soccombere ai ricatti di chi vuole distruggere il nostro sistema di valori e la rinuncia a garanzie civili. Difficile equazione connessa anche al corretto equilibrio tra sicurezza e libertà. Si tratta di non cadere nella trappola dello scontro tra civiltà, che è il vero obiettivo degli estremisti. Una prospettiva da rifiutare ma che non possiamo esorcizzare ignorandola. Il presidente pakistano Musharraf, che è stato ricevuto a Roma dal presidente Berlusconi, ha affermato la necessità di impedire che una nuova “cortina di ferro” cada tra l’Occidente e il mondo islamico. Siamo ancora in tempo: dobbiamo prevenire che si realizzi il disegno dei terroristi. Per questo vogliamo promuovere un dialogo tra civiltà che, per quanto differenti, devono sempre essere accomunate da valori di umanità. I nostri avversari, che utilizzano il terrorismo come strumento per il raggiungimento dei loro obiettivi, rappresentano invece semplicemente l’inciviltà che vuole distruggere in primo luogo le più nobili tradizioni dell’Islam e quindi conquistare ogni spazio secondo una concezione totalitaria del mondo.

Solo una visione storica, che ci rafforzi nel senso di identità imperniato sui nostri valori, può consentirci di affrontare sfide epocali come quella del terrorismo e la connessa trappola dello scontro tra civiltà. Forti della nostra identità, possiamo coniugare fermezza e dialogo e superare ricatti e suggestioni dettate dalle emozioni del momento. Questo non vale solo per noi europei. Più in generale, in un’ottica che trascenda dalla cronaca, va tenuto conto del rilievo che assume il patrimonio culturale per il senso di identità nazionale di popoli colpiti dai conflitti interni o internazionali. Il recupero di tale patrimonio, e quindi delle radici culturali, può essere essenziale (anche economicamente – ad esempio per il turismo – ma soprattutto politicamente) nei paesi dove le Nazioni Unite sono impegnate in complesse missioni di pace e di ricostruzione post-conflittuale. L’Italia, che con i propri militari già dà tanto per la pace nel mondo, contribuisce alla ricomposizione e alla prevenzione dei conflitti anche con specialisti nei vari settori dei beni culturali. Ecco che, superando una visione contingente degli avvenimenti internazionali, il ruolo del recupero del patrimonio artistico per la pace e la sicurezza internazionale si impone accanto a quello ormai affermato dei fattori economici. In quanto superpotenza culturale, che detiene una quota esorbitante del patrimonio artistico mondiale, l’Italia ha un dovere di tutelare i beni culturali degli altri paesi e il diritto di giocare un ruolo di primo piano.

In questo contesto è importante il nostro accordo con l’Unesco per assistere i paesi colpiti da disastri naturali o da conflitti interni e internazionali nel recupero del loro patrimonio culturale. Un’iniziativa che ha fatto parlare di “caschi blu della cultura” con riferimento agli italiani impegnati in tanti settori scientifici e artistici per assicurare un futuro alla stessa identità nazionale di paesi usciti da situazioni di conflitto. Potrebbe anche essere interessante analizzare il significato del peso assunto dalle questioni morali nel determinare le scelte degli elettori americani. Il prevalere di tali temi nelle motivazioni di voto rispetto ad altri molto dibattuti, quali la situazione economica e quella in Iraq, sembra dimostrare che i cittadini non sempre privilegiano i problemi più legati all’attualità. Ciò potrebbe testimoniare una tendenza a privilegiare l’essere rispetto al fare, che è del resto intrinseca in elezioni personalizzate come quelle presidenziali. Questo è un altro indizio di come, nonostante le apparenze, il fiume carsico delle grandi linee di fondo della politica può prevalere sugli umori del momento ed indurre ad analisi e visioni più ampie dei temi da affrontare. Spesso non si riflette su un aspetto della forza del multilateralismo strettamente connesso con queste riflessioni. Talvolta è grazie ad obblighi internazionali multilaterali che i governi possono assumersi impegni rispondenti agli interessi di lungo periodo delle proprie comunità, ma che possono contrastare con esigenze avvertite nell’immediato dalle opinioni pubbliche. Non si tratta di aggirare i processi democratici: la sovranità resta comunque nazionale e i procedimenti di ratifica parlamentare e, nel caso della Ue, la democraticità delle istituzioni garantiscono il rispetto della volontà popolare.

Nulla è più effimero del permanente

Il potere dell’effimero ci impedisce di sviluppare strategie che superino interessi particolari e momentanei per guardare al bene generale e a prospettive di lunga durata. Proprio la spinta dettata da interessi particolari, in questo caso nazionali, fa parlare di nuovi membri permanenti nazionali per il Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Ecco la contraddizione, l’ossimoro: nulla è più effimero del permanente. Ciò che oggi appare attuale e perciò vogliamo rendere permanente è per sua natura destinato a divenire domani anacronistico, ci si ingessa in soluzioni che in breve tempo potranno essere oggetto delle stesse critiche rivolte alla attuale situazione. Paradossalmente l’ossessione di cogliere il momento per superare l’attuale anacronistica situazione si traduce inevitabilmente in un nuovo anacronismo: ogni fotografia è destinata a invecchiare e a divenire il ricordo di un tempo superato. Un seggio permanente ai supposti potenti di oggi in futuro si tradurrebbe in un’ulteriore anacronistica ingiustizia. Poiché due errori non fanno una cosa giusta, è evidente che la saggezza dovrebbe sconsigliare l’istituzione di nuovi membri permanenti nazionali.

Molto meglio puntare sulla flessibilità delle istituzioni e adattarle al divenire dei tempi, essere pronti ai cambiamenti del futuro e non solo riflettere quelli del passato. Chi, dovendo costituire un organo collegiale, un consiglio d’amministrazione, sceglie componenti irrevocabili, piuttosto che rappresentanti scelti per la loro capacità e giudicabili per i loro risultati, responsabili di fronte agli azionisti? La risposta è evidente, dettata dal buon senso prima ancora da elementari esigenze di democrazia e efficienza. Le caratteristiche di fluidità proprie dell’acqua sono più adatte ad adattarsi alle forme e poi eventualmente a modellarle, che non l’illusoria rigidità del ghiaccio. Si tratta in realtà di evitare in particolare che il concetto di permanenza sia associato a Stati nazionali senza possibilità di scrutinio. Diverso è il discorso se si considerano dei “seggi permanenti” piuttosto che “membri permanenti”. Particolare è comunque la situazione di grandi paesi che hanno caratteristiche intrinsecamente, e quindi permanentemente, tali da renderne opportuna la presenza in Consiglio di Sicurezza. è il caso degli Stati Uniti (uno Stato semicontinentale, la più grande potenza militare ed economica del mondo), della Russia (il paese più vasto del mondo che si estende su larghe porzioni di due continenti) e della Cina (il paese più popoloso del mondo dove vive circa un quinto dell’umanità).

In un’ottica di crescente peso per il regionalismo può invece accettarsi l’ipotesi di seggi permanenti per continenti o grandi regioni geografiche, assegnati a rotazione (eventualmente secondo criteri scelti dai paesi della regione interessata o dalle Organizzazioni Internazionali di riferimento). Questo è il caso dell’Africa, il continente con il maggiore numero di Stati membri dell’Onu (53), che è toccato dal maggior numero di crisi rilevanti per la sicurezza internazionale e che certo dovrebbe avere un maggior peso nell’ambito del Consiglio di Sicurezza. Per questo rifiutiamo privilegi eterni. Gli organi decisionali della comunità internazionale non possono essere strutturati come una Camera Alta con dei membri a vita, che sono più uguali degli altri. Occorre costruire organismi che esaltino il multilateralismo efficace e non rievochino in alcun modo i nefasti nazionalismi dello scorso secolo.
Al riguardo sono eloquenti le parole di Alexis de Tocqueville il quale ha osservato che gli americani «considerano la società un corpo in progresso; l’umanità come un quadro cangiante in cui nulla è, né deve essere, permanente e ammettono che ciò che sembra loro bene oggi possa essere sostituito da qualcosa di meglio domani». Anche oggi, mentre riflettiamo sui motivi forti che rendono indispensabile il legame transatlantico, ci soccorrono le parole di Tocqueville. Non si tratta di guardare semplicemente all’America come ad un esempio, non proponiamo un rapporto a senso unico: siamo alla presenza di un’analisi svolta da un intellettuale profondamente europeo, un americano forse non avrebbe potuto cogliere con altrettanta lucidità certe caratteristiche della sua società che traggono origine da valori nati in Europa. I valori sono quelli di tolleranza, democrazia e libertà, ma per la loro difesa è essenziale una fiducia nel futuro, un costruttivo ottimismo basato su due caratteristiche apparentemente contraddittorie, ma in realtà complementari: una coppia antitetica alle categorie dell’effimero e del permanente, di cui abbiamo rilevato i pericolosi effetti.

Da una parte la perseveranza nella difesa e nella diffusione dei valori nei quali si crede, quindi la capacità di resistere alla tendenza a far prevalere interessi particolari ed effimeri. Dall’altra la flessibilità, la capacità di adattarsi ai tempi per sviluppare le strategie più efficaci per affermare i valori (questi sì permanenti) nelle società in evoluzione, nei diversi contesti socio-culturali, più in generale nella comunità internazionale. La perseveranza, la capacità di mantenere la rotta nonostante le avversità del momento, è la caratteristica dei grandi leader , anche e forse soprattutto nei paesi democratici. Un nome per tutti quello di Churchill, l’uomo che ha combattuto l’appeasement, che fino in fondo ha guidato la Gran Bretagna contro il nazismo che conquistava l’Europa, che poi ha descritto lucidamente la calata di una cortina di ferro, del dilagare di un’altra dittatura negatrice dei nostri valori. Reagan ha raccolto il testimone e dopo il nazismo anche il comunismo è stato sconfitto. L’Occidente ha avuto la fortuna di avere statisti che non hanno creduto nel carattere permanente di questi regimi disumani, che non hanno ceduto alla convenienza di compromessi dettati dalle esigenze del momento e dalla pressione, anche comprensibile, delle opinioni pubbliche.

Dopo il nazismo e il comunismo, il nemico da battere è adesso il fanatismo di chi vuole farci cadere nella trappola di una guerra di civiltà e utilizza il terrorismo per indurci a rifugiarci in un illusorio isolamento oppure a utilizzare strumenti che negano i nostri valori di democrazia e tolleranza. I terroristi ci ritengono succubi della dittatura dell’effimero, ma sono vittime della propria propaganda che dipinge la nostra società come debole, corrotta e consumistica. Per batterli dobbiamo dimostrare di essere capaci di perseguire con fermezza i nostri disegni per lo sviluppo del benessere, della libertà e della democrazia nel mondo, rispettando le diversità culturali e promuovendo il dialogo tra civiltà e religioni. Continueremo a leggere le notizie d’agenzia, ma non ne saremo prigionieri. Manterremo una prospettiva storica, una capacità di analisi per studiare il passato e sviluppare prospettive di lungo periodo. Con tale consapevolezza, alleati del mondo islamico moderato, ci batteremo contro il fanatismo che vuole dividerci per poi affermare una supremazia mondiale. La flessibilità, la capacità di sviluppare le strategie più adatte alle circostanze, è la caratteristica che consente alla perseveranza di essere efficace e quindi duratura. Il punto di riferimento di ogni scelta sono comunque i valori. Solo così la flessibilità non è opportunismo né uno spregiudicato uso dei mezzi pur di raggiungere i fini. Occorre considerare le trasformazioni di fondo che attraversano la comunità internazionale, cambiamenti che superano l’alternarsi delle amministrazioni determinate dai mutamenti dell’opinione pubblica.

L’11 settembre abbiamo forse superato un giro di boa che avevamo iniziato con il crollo del Muro di Berlino il 9 novembre 1989 (dall’11.9 al 9.11). Compiuto il secolo breve delle ideologie che hanno diviso l’Occidente, si è aperto un nuovo periodo. Sarà il periodo della guerra tra civiltà o quello del superamento dell’ordine di Westfalia che regge la comunità internazionale basata sulla sovranità statale dal 1648? Torniamo agli imperi? Quale sarà il ruolo dell’Europa? Come conciliare le esigenze delle espressioni della società civile nella comunità internazionale con quelle degli Stati e in definitiva della rappresentanza democratica che essi esprimono (o dovrebbero esprimere)? è possibile che le armi di distruzione di massa finiscano nelle mani di fanatici che odiano i nostri valori? Le risposte dipendono dalle azioni politiche di oggi. Occorre che noi europei ed americani ce ne rendiamo conto per poterci impegnare in un dialogo strategico euroatlantico, che superi le polemiche legate a campagne elettorali e ad urgenze che di volta in volta sembrano esaurire il dibattito politico.

01 settembre 2005

*Giovanni Castellaneta è Consigliere diplomatico del presidente del Consiglio e rappresentante personale per il G8. Vice-chairman di Finmeccanica. Ambasciatore a Teheran e Canberra, sarà il prossimo ambasciatore d’Italia a Washington.

*Francesco Maria Talò tratta presso l’Ufficio del Consigliere diplomatico del presidente del Consiglio le questioni concernenti le Nazioni Unite, la Nato, il Medio Oriente e l’Europa centro-orientale. Ha prestato servizio a Tokyo, Bonn e alla Rappresentanza permanente presso l’Onu a New York.

 

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