Alla ricerca del Nirvana sessuale
di Eugenia Roccella
da
Ideazione, luglio-agosto 2005
Ancora negli anni Sessanta, le rubriche di posta del cuore sui
settimanali femminili erano appannaggio di popolari autrici di romanzi
rosa. In particolare, era amatissima Brunella Gasperini, scrittrice
deliziosa e madre virtuale di un vasto pubblico di ragazze, che le
spedivano centinaia di lettere appassionate, affollate di dubbi. La
modernizzazione, che cambiava i costumi e le abitudini quotidiane,
lasciava le donne sole con mille quesiti, alle prese con un’immagine
femminile tradizionale ormai inadeguata, ma senza nuovi modelli di
riferimento. Tra i tanti temi dibattuti colpiva la frequenza con cui le
lettrici ponevano un problema, quello della cosiddetta “prova d’amore”.
Perdere o no la verginità di fronte alle insistenze del fidanzato era un
dubbio irrisolvibile: l’esperienza insegnava che una buona metà veniva
abbandonata in lacrime dal maschio fedifrago con l’accusa di essere una
“ragazza facile”, mentre l’altra metà entrava baldanzosamente nella
schiera delle emancipate. La Gasperini, intelligentemente, evitava di
fornire ricette comode, uguali per tutte, e invitava all’autonomia
intellettuale e morale, alla difesa della propria dignità, a una misura
personale che andava cercata individualmente, senza appiattirsi sul
conformismo benpensante.
Non tutte le signore della piccola posta erano altrettanto illuminate.
Donna Letizia, per esempio, sentenziava: «Che la prima tappa sia
l’altare», considerando la purezza come la migliore merce di scambio per
ottenere un buon matrimonio. Altre invece prendevano posizione, davano
battaglia. La giornalista Gabriella Parca, anche lei titolare di una
rubrica del cuore, pubblicava nel ’59 lo scandaloso Le italiane si
confessano, in cui aveva raccolto le lettere ingenue e tormentate delle
sue lettrici; nel ’65 ripeteva il successo con I sultani, mentalità e
comportamento del maschio italiano. Il risultato dell’inchiesta era
desolante: il 66 per cento degli uomini italiani pretendeva che la
futura moglie fosse vergine, e nel Sud uno su dieci dichiarava che
avrebbe ucciso la figlia o la sorella se avessero perduto la purezza.
Una decina d’anni dopo, il panorama è radicalmente trasformato. Beatnik,
figli dei fiori e hippy hanno fatto la loro comparsa, mentre il
movimento delle donne ha imposto nel dibattito pubblico temi da sempre
relegati nell’ombra, che riguardano il privato, il corpo, il sesso. I
comportamenti sessuali degli italiani sono mutati con una velocità
impensata, e così le consapevolezze e le ambizioni femminili. In poco
tempo un paese considerato sovrappopolato (vedi l’articolo di Giulia
Galeotti su De Marchi), afflitto da una perniciosa tendenza a fare
troppi figli, diventa una delle nazioni europee con il tasso di natalità
più basso.
Il femminismo, che è stato un fenomeno politicamente disomogeneo, e ha
prodotto un pensiero complesso e variegato, viene metabolizzato sia a
livello di costume che a livello istituzionale, trasformandosi in
qualcos’altro, un volenteroso bignami dell’autorealizzazione femminile e
dei diritti delle donne. Le rubriche cambiano di conseguenza. La posta
del cuore non ospita più i dilemmi di ragazze che non sanno come
comportarsi con il fidanzato intraprendente, ma lettere che raccontano
esperienze di ogni tipo, e non pongono quasi mai quesiti morali.
Continuano però a testimoniare, forse in misura ancora maggiore, i mille
diversi modi di soffrire per amore. L’idea, diffusa negli anni della
rivoluzione dei fiori, che la libertà sessuale avrebbe portato alla
felicità sessuale (e sentimentale) appare come un miraggio. Accanto alla
posta del cuore c’è sempre, ormai, la rubrica di consigli del
sessuologo: trasformato in un sapere specialistico, il know-how sessuale
deve essere trasmesso dall’esperto, dispensato in modo tecnico e avulso
da altre forme di consapevolezza di sé e di crescita interiore. Il
classico romanzo di formazione di una volta raccontava il passaggio
all’età adulta attraverso una presa di coscienza, di cui l’esperienza
sentimentale era il cuore. Oggi l’interezza dell’esperienza umana tende
a spezzettarsi, a suddividersi in canali non comunicanti.
La fortuna e la banalizzazione delle categorie e del linguaggio usati
dai sessuologi, hanno comportato una tecnicizzazione del sesso, che
lascia fuori quanto di non strettamente fisico è legato alla fisicità:
le relazioni affettive, le emozioni spirituali, i desideri profondi
connessi alla maternità, la forza devastante dell’inconscio, il mondo di
valori intimamente e storicamente intrecciato all’erotismo. La visione
che Kinsey e compagni ci hanno trasmesso è quella di una pratica
igienica, del sesso che “fa bene”: un’immagine speculare rispetto a
quella precedente, che imponeva di guardarsi, in questo campo, da
eccessi che potevano nuocere alla salute. Dunque, una sorta di esercizio
clinico, che garantisce, se correttamente esercitato, il benessere e la
felicità individuale. E’ illuminante, in questo senso, la definizione
fornita dall’Onu: «La salute sessuale e riproduttiva è uno stato di
completo benessere fisico, mentale e sociale». Nel fiorire di nuovi
diritti, anche il diritto alla felicità sessuale accampa le sue pretese.
Però è un diritto che nessuno, nemmeno i sessuologi, sono riusciti a
garantire. Tecnicizzando e medicalizzando si ottiene soltanto una
visione sostanzialmente meccanicista, che presuppone una fede
incrollabile nell’approccio normativo e clinico.
Si tratta di una forma minore e divulgativa di utopia
tecnico-scientifica, che ignora tutto quello che del corpo non è
biologico, quindi misurabile e registrabile; che ignora le ombre del
desiderio, le pieghe della memoria e della storia umana. Come in
un’addizione impossibile, fatta sommando le patate ai pomodori (ovvero
tecnica più diritto), non si riesce comunque ad ottenere il risultato
voluto, cioè la felicità sessuale. In compenso, sono aumentate
smisuratamente le aspettative individuali. In tanti si pongono una
domanda angosciante: se la felicità sessuale mi spetta di diritto, e se
per ottenerla basta affinare gli strumenti conoscitivi e la tecnica,
perché io non riesco a raggiungerla? Nel bilancio della rivoluzione
sessuale bisogna mettere in conto anche le ansie da prestazione e in
genere l’ansia di non essere all’altezza dei modelli proposti e
immaginati. Si diffonde l’illusione che l’irraggiungibile Nirvana
prospettato dalle Nazioni Unite esista davvero, da qualche parte della
terra; e questa convinzione alimenta il sospetto allarmante che qualcun
altro (non noi) ci sia arrivato. Naturalmente si tratta di una leggenda
metropolitana, un mito postmoderno. La «condizione di completo benessere
fisico, mentale e sociale» è un trompe-l’oeil bugiardo, la felicità è
per sua natura contraddittoria e sfuggente, e soprattutto non si dà
nella forma di desiderio perpetuamente realizzato.
Come scriveva Auden, «tra coloro che ritengono che la vita sia un
romanzo di formazione, e coloro per i quali vivere vuol dire
essere-visibili-ora, si apre un golfo che nessun abbraccio può colmare».
In L’amore e l’Occidente, Denis De Rougemont scriveva che la nostra
concezione dell’amore si è formata sulla letteratura trobadorica; siamo
stati plasmati dal fuoco sacro dell’amore impossibile, il cui modello è
l’infelice passione di Tristano e Isotta. L’oggetto del desiderio, vedi
anche la splendida e fuggitiva Angelica, è sempre inafferrabile e
proibito. Non sappiamo mantenere la stessa tensione erotica se la
persona che amiamo è a portata di mano, banalizzata dalla vicinanza
quotidiana. In realtà questa imprendibilità è la natura stessa del
desiderio, su cui è impossibile fondare il matrimonio e la coppia, se
pretendiamo che durino nel tempo. Ma questa è l’aspettativa che
nutriamo, e che viene costantemente incoraggiata dalla nostra cultura:
l’amore dev’essere eterno ma sempre giovane, solido ma passionale come
il primo giorno. Il sesso, in questa visione, è centrale: desiderarsi è
un obbligo, la vita sessuale di una coppia deve scavalcare ogni
ostacolo, l’invecchiamento, i mutamenti interiori ed esterni, le
lontananze che nel tempo emergono. Non ci sono più scuse, nessuno è
risparmiato: non ti salva l’età, la sgradevolezza fisica, la
misantropia, l’ignavia.
Il sesso e il desiderio sono imperativi categorici, senza i quali si è
dei poveracci senza speranza. Per le donne, la questione è più dura.
Lungi dall’aver modificato sostanzialmente le regole dei ruoli,
l’immaginario erotico, le strutture simboliche profonde (vedi le
modalità rituali della pornografia, che non sono mai riuscite a
registrare in qualche modo il mutamento dei rapporti tra i sessi), la
rivoluzione sessuale ha posto nuovi problemi di adeguatezza.
Innanzitutto l’estetica: per tutte, ormai, c’è l’obbligo di restare
giovani, sempre attraenti, sempre competitive sul mercato. Nemmeno la
nascita di nipoti consente di ritirarsi, di lasciarsi un po’ andare,
magari di ingrassare serenamente. Le mamme non imbiancano più. Certo,
non era esattamente questa la rivoluzione che le femministe volevano,
non quella dei corpi “chirurgicamente assistiti”, bloccati nella fissità
irreale di un’età indefinita. E i sessantottini libertari non si
aspettavano che la rivoluzione sessuale si integrasse così perfettamente
con l’odiato capitalismo, anzi ne diventasse una colonna portante, un
sostegno fondamentale, un’incitazione perpetua alla voluttà del consumo.
A rileggere oggi Reich, o anche solo il nostro De Marchi, viene da
sorridere: patetica l’idea della forza liberatoria del sesso, dello
scompaginamento dei rapporti di produzione, o almeno dell’eliminazione
delle sovrastrutture culturali ad essi collegati. l film-simbolo di
queste analisi fallite potrebbe essere Full Monty, in cui un gruppo di
operai licenziati trova il suo riscatto ideologico e morale
nell’organizzazione di uno spettacolo di spogliarello maschile.
Licenziati, sì, ma ancora spendibili sul mercato come maschi
desiderabili. Il fallimento della rivoluzione sessuale si misura sulla
dispersione consumista dei risultati, e sul crollo dei presupposti
utopici.
La libertà dalle costrizioni dei ruoli e dall’ipocrisia borghese doveva
portare non solo a una maggiore felicità collettiva, ma ad alcuni
risultati concreti, che invece non si sono realizzati. Per esempio, al
calo della prostituzione, a figli desiderati e quindi felici, a
un’accettazione consapevole del corpo e dei suoi bisogni, a una
sensibile diminuzione degli aborti, a una sessualità meno codificata.
Invece la prostituzione è diventata un’offerta più variegata,
trasgressiva e abbondante sul mercato globale; il numero di aborti,
nonostante ormai nel mondo occidentale la contraccezione sia ampiamente
diffusa, oscilla (in Italia diminuisce, in Francia aumenta) ma
complessivamente rimane alto; sui figli c’è sicuramente una maggiore
attenzione, che però si risolve spesso in un allontanamento della
maturità (ragazzi-Peter Pan che restano a casa molto più a lungo); la
sessualità, ampiamente legittimata e promossa, resta ancorata a schemi
sociali che negli anni Settanta si sarebbero definiti come “borghesi”.
Dell’accettazione del corpo abbiamo detto: l’obbligo di seguire modelli
prefissati e astratti è sempre più opprimente, e alcune patologie, come
l’anoressia, sono legate a questo costante confronto con un’estetica
irraggiungibile e condizionante. Il potenziale anarchico del sesso si è
dimostrato, nei fatti, illusorio. L’idea di liberare finalmente energie
represse in grado di scardinare l’articolazione dei modelli di
comportamento privati e delle gerarchie sociali appare, oggi, un’utopia
ingenua. La libertà sessuale è confluita senza inciampi nel grande mare
dell’individualismo occidentale e delle sue opzioni, la cui bandiera è
la libera scelta.
Organizzato attraverso un suo particolare marketing, il sesso si è
rivelato perfettamente omogeneo alla dimensione di mercato,
trasformandosi in un consumo come gli altri. Dalle matrici culturali che
avevano segnato l’ideologia libertaria degli anni Settanta, si sono
sviluppate nuove forme di controllo sul corpo e sulla riproduzione. Per
uno dei mille paradossi che rovesciano la storia, quella che era nata
come una ribellione “carnale”, legata all’irriducibile forza di pulsioni
profonde, all’impossibilità di disciplinare e reprimere quella sorta di
potere oscuro del corpo che è componente essenziale dell’umano, si è
rovesciata nel suo opposto: una tendenza sempre più spinta alla
medicalizzazione asettica, all’intervento tecnologico e invasivo, alla
riduzione del corpo a materiale biologico manipolabile. Attraverso
soprattutto il controllo sulla fertilità femminile, i corpi (in
particolare quelli delle donne) e la sessualità sono sempre più
ricondotti sotto disciplina medica, e diventano oggetto di una
biopolitica che tende a sfuggire al controllo democratico. Attraverso
l’utopia scientista, la vecchia utopia libertaria è stata messa in un
angolo, e ridotta a fornire qualche giustificazione ideologica. Il
futuro è della tecnoscienza, con tutti i suoi rischi per l’individuo e
la sua libertà: Reich e i suoi seguaci forse hanno posto le premesse per
la propria assoluta sconfitta.
15 luglio 2005
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