Le radici americane della sussidiarietà
di Marco Respinti
da Ideazione, luglio-agosto 2005

D’acchito potrebbe apparire quella proverbiale scusa non richiesta che vale confessione manifesta, ma non è così. Non è infatti che il conservatorismo, essendo una bête noir che scandalizza per i “modi brutali”, abbia bisogno di blandire il pubblico ammorbidendo il proprio impatto. Anzi, esattamente il contrario. Più è “duro”, il conservatorismo, più è capace di “sentire assieme”. Per questo la locuzione “conservatorismo compassionevole” esplicita senz’affatto ridurre. Negli anni Sessanta del secolo scorso, quel milieu culturale che poi prenderà il nome di “neoconservatorismo”, e che allora era ancora composto d’intellettuali liberal pur a disagio, faceva fatica ad accasarsi in quel “movimento” che i propri eroi li aveva avuti nel senatore repubblicano Joseph R. McCarthy, che li aveva nella National Review di allora e che sperava di averli pure alla Casa Bianca con il repubblicano Barry M. Goldwater come presidente. Eppure, a partire dalla metà degli anni Settanta, poi in maniera ancora più vistosa negli anni Ottanta, quindi clamorosamente negli anni successivi fino a oggi, quegl’intellettuali ex radical chic che storcevano il naso alle durezze del “movimento” sono divenuti essi stessi la punta di diamante più acuminata degli affondi politici della destra d’Oltreoceano.

Hanno semplicemente cambiato parere? Affermarlo sarebbe semplicistico. Gli è invece che, abbandonando progressivamente la cultura liberal che li aveva generati, e approfondendo sempre più il senso autentico dell’essere conservatori, quanto un tempo appariva esagerazione si è rivelato nella propria strategica realtà di arma d’assalto. Tutta la questione del neoconservatorismo si risolve infatti in questo. O si tratta di un accomodamento con gli stilemi ideologici, con la political correctness e con la politicizzazione della vita operata dalle culture di sinistra (ed è ciò che sostengono alcuni suoi avversari di destra); oppure è – realisticamente – la sfida a sapersi disfare dei cascami dello Stato-imprenditore, dello Stato-poliziotto, dello Stato terapeutico, dello Stato-chioccia onde radere completamente al suolo (figuratamente, ovvio) le strutture di asservimento dell’uomo ai moloch della modernità. Per poi procedere a ricostruire tutto daccapo e meglio. Il che, al di là delle suggestioni letterarie, non si fa con il napalm, ma con le riforme e con il tempo. E’ infatti evidente che la teoria dell’individualismo assoluto sia l’affermazione paradossale della necessità di liberare la persona umana da quello che Hilaire Belloc definiva «lo Stato servile».

Che il laissez faire sia la testimonianza eccentricamente efficace del bisogno di liberare la società dalla burocratizzazione. Che l’“anarchismo” reazionario sia il grimaldello, pedagogicamente efficiente, per rieducare la persona all’“io”. Strumenti estremi, cioè, per rimediare ai mali estremi provocati da statalismo, welfarismo, keynesismo e criptosocialismo. Ma altrettanto evidente è la pars costruens. Il sociologo Robert A. Nisbet – amato da tradizionalisti, libertarian e neocon – sintetizza il conservatorismo come difesa dei «diritti della società e dei suoi gruppi formatisi nel corso della storia, quali la famiglia, il quartiere, la corporazione e la chiesa, contro il “potere arbitrario” del governo». La radice è un’idea, antica di due secoli, di Edmund Burke: il compito politico primario della persona umana è sovvenire alle necessità di coloro che sono affidati alle nostre cure solo per ciò che ci compete e solo per ciò di cui hanno bisogno, educando la libertà (in inglese si dice to empower: rendere autonomo e responsabile).

Da tutto questo, pubblicando il libro-programma (il libro poi divenuto un programma) Conservatorismo compassionevole, Marvin Olasky ha tratto un manuale, il presidente George W. Bush una politica. Di per sé, il conservatorismo statunitense, che rigetta senza nemmeno discuterla l’etichetta d’“ideologia”, ha sempre rifuggito quel riduzionismo delle cose grandi e importanti che vorrebbe i princìpi rimpiccioliti al formato tascabile, al blueprint buono per tutte le occasioni. Eppure, se una virtù la filosofia politica statunitense l’ha, questa è proprio quella di sapersi trasformare alla bisogna anche in “decalogo”. Del resto, la storia del conservatorismo politico statunitense è costellata di “manuali del buon americano”, da The America Cause (1957) del “padre del conservatorismo” Usa della seconda metà del Novecento Russell Kirk a Il vero Conservatore (1960) di Goldwater: passando oggi appunto per Conservatorismo compassionevole.

Una proposta neocon

Con le basi, sopra richiamate, nel conservatorismo statunitense “communitarista” e “tradizionalista” più puri, l’idea del “conservatorismo compassionevole” è dunque di per sé una creazione del mondo neoconservatore. Padrini ne sono Olasky, che ne ha scritto il “manuale”, e Myron Magnet, direttore del trimestrale di urbanistica cittadina City Journal che da tredici anni viene edito dal Manhattan Institute for Policy Research di New York, che ne ha brillantemente illustrato i contenuti in un articolo “di lancio” pubblicato su The Wall Street Journal del 5 febbraio 1999 intitolato “What Is Compassionate Conservatism?”. Fondato nel 1978 e presieduto da Lawrence J. Mone, il Manhattan Institute vive del motto: «Trasformare l’intelletto in influenza». Oggi è una delle punte di diamante del neoconservatorismo nel cui consiglio di amministrazione siedono, fra altri, Robert Hertog, Mark Gerson, Nathan Glazer, Bruce Kovner, William Kristol, James Piereson e Fareed Zakaria.

Peraltro le basi teoretiche del “conservatorismo compassionevole” Olasky le ha gettate anni prima, pubblicando un libro meno famoso, ma forse più importante del suo fortunato titolo del 2000, vale a dire The Tragedy of American Compassion, del 1992. Con esso, e certamente con gli sviluppi affidati al libro del 2000, Olasky definisce il “conservatorismo compassionevole” come l’attenzione specifica dei conservatori ai problemi sociali e alla loro proposta di una soluzione alternativa a quella liberal. E questo a ribadire che questioni come la sanità, l’immigrazione e l’ambiente non sono né debbono essere considerate “battaglie perse” dalla destra, e però nemmeno venire trasformate in varianti “di destra” di un discorso di suo eminentemente progressista. Come, cioè, se ai conservatori non rimanesse altro che dichiararsi, fra le righe, battuti in campi così importanti e così attuali, e talora addirittura di emergenza, e confinarsi a proporre solo versioni “moderate” dell’estremismo liberal. Il “conservatorismo compassionevole” sostiene infatti l’esatto contrario. E’ la sinistra ad avere fatto propri, fino a monopolizzarli, alcuni ambiti d’intervento politico generando l’idea che siano specificamente “questioni di sinistra”.

Da questo punto di vista va riconosciuta – è implicito nel discorso di Olasky – la vittoria della sinistra sul piano della propaganda, ma soprattutto del linguaggio politico. La sinistra si è cioè dimostrata abilissima nell’accaparrarsi alcuni ambiti politici e nel presentarli come esclusivamente propri, battendo così in radice i propri avversari per sottrazione del campo. Ma è qui che la proposta odierna di Olasky, di Magnet e quindi di Bush jr. si fa dirompente. Essa svelle infatti l’idea che di questioni sociali cogenti debba essere solo il pensiero progressista a occuparsi, secondo la teoria che solo il progressismo abbia le carte ideologiche in regola per rispondere e per risolvere guai che – è il corollario più importante – proprio la “politica di destra” ha creato. L’idea insomma che la “scelta capitalista” della destra produca inevitabilmente, anzi strutturalmente, danni sociali tali a cui essa non sarebbe poi, per natura, in grado di rispondere e che quindi chiedono interventi ispirati a proposte ideologiche fondamentalmente diverse. Così facendo, peraltro, risulta evidente come la “responsività sociale” della sinistra sia solo strumentale e miri a demolire sin dalle basi l’impianto principale, valoriale e culturale su cui si fonda invece l’opzione conservatrice.

Un’idea nuova, dunque antica. O antica, e quindi nuova

E’ dunque non meno evidente che la proposta neoconservatrice del “conservatorismo compassionevole” sia invece un’articolazione della preoccupazione culturale di quello che la storiografia della destra statunitense definisce social conservatism, ovvero quell’inclinazione “comunitaria” e “tradizionale” del conservatorismo che è un modo complessivo d’intendere la convivenza sociale a partire da una determinata idea di uomo. Il “conservatorismo compassionevole” si fa così risposta attiva alle contraddizioni del progresso e della modernità proponendo non soluzioni preconfezionate, ma ipotesi di lavoro che partano anzitutto da una corretta impostazione antropologica. Ovvero non svilente né spersonalizzante, e quindi in questo autenticamente conservatrice. A questo punto, il “conservatorismo compassionevole”, fattispecie del conservatorismo, non poteva, negli Stati Uniti, che incrociarsi con la questione etica e dunque religiosa, al punto da divenire un cavallo di battaglia della cosiddetta “destra cristiana”, la quale magna pars svolge nel mondo neoconservatore attuale e nel mondo culturale che vede in Bush un buon presidente. I numerosi studi dedicati ieri e oggi per esempio alla questione dell’aborto, della giustizia, della laicità e della fede portata anche sul piano pubblico e politico lo dimostrano ampiamente. Al cuore sta l’idea infatti che non basta, come fa la sinistra, criticare il “sistema” quasi esso fosse indipendente dalle persone che lo animano e che lo amministrano.

Come ha affermato Stephen Goldsmith nell’articolo “What Compassionate Conservatism Is-and is Not”, pubblicato sul fascicolo n. 4 del 2000 del prestigioso Hoover Digest della Hoovee Institution on War, Revolution, and Peace dell’università californiana di Stanford, la prospettiva è il passaggio dall’idea che sia lo Stato a dover risolvere i problemi sociali (il pensiero, cioè, dei liberal, dalla “Great Society” in poi) alle persone come soggetto primario della vita socio-politica pubblica. Una sorta di “rivoluzione culturale”, dunque, che rimette al centro i singoli, l’iniziativa privata e le libere associazioni fra le persone, secondo un’idea sussidiaria che eventualmente ed ultimamente chiede, laddove sia indispensabile, la presenza dello Stato affinché al privato sia permesso di agire in piena autonomia. Conservatorismo classico, insomma, riproposto a fronte alle urgenze di oggi e soprattutto dopo il clamoroso fallimento del ricettario liberal. Un’idea nuova, cioè antica quanto il conservatorismo. E anzitutto la riformulazione di quel “Contract with America” di metà anni Novanta che allora non ha funzionato come invece avrebbe dovuto probabilmente per una certa, allora, mancanza di lucidità. Quanto meno di quella lucidità che oggi fa addirittura sì che sia un capo di Stato a farsi suo alfiere.

15 luglio 2005

 

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