La casa comune dei moderati e dei riformisti
di Pierluigi Mennitti
da Ideazione, luglio-agosto 2005

A guardarlo con l’occhio del notista politico, il dibattito fra i partiti dopo le elezioni regionali di aprile e il fallito referendum di giugno appare denso di aspettative e interesse. Il centrodestra ha trovato nell’idea del partito unico l’ancora di salvataggio rispetto a una deriva, che pareva inesorabile, verso la definitiva sconfitta del suo ciclo politico. Il centrosinistra, al contrario, non ha saputo sfruttare il vento favorevole incrociato alle elezioni e, invece di prendere l’abbrivio per la volata finale, è rimasto schiacciato dalle sue mille contraddizioni, esplose ben prima di aver vinto le elezioni politiche: ora è in discussione anche la leadership di Romano Prodi, apparso di colpo, a gran parte dei suoi, non adeguato a soddisfare le aspettative dell’Italia d’inizio secolo. In poco più di un mese, complici anche due micro-test elettorali di non secondaria importanza come Catania e Bolzano e il bagno referendario, quel che appariva una sceneggiatura ormai scritta è diventato un canovaccio ancora tutto da inventare. Su quel canovaccio, i protagonisti di questa interminabile transizione italiana si muovono incerti come personaggi in cerca d’autore.

A dodici anni dalla sua nascita, la Seconda Repubblica cerca ancora un suo senso compiuto, incerta fra il rimpianto di un passato oggi idealizzato, e che tuttavia non ritornerà, e la spinta a completare il cambiamento avviato, con la speranza di trovare sull’altra sponda la terra promessa della stabilità e dell’efficienza. Dal punto di vista del notista politico, dunque, questo momento è certamente interessante. Accadono molte cose e nessuna scontata. Ma non siamo certi che, cambiando la prospettiva dall’addetto ai lavori al cittadino comune, tutta questa movida partitica appassioni davvero. Non ce la figuriamo proprio l’ormai mitizzata casalinga di Voghera (che nel frattempo sarà entrata in carriera, avrà bruciato i suoi risparmi nei bond argentini e nelle azioni Parmalat, sarà stata espulsa dal processo produttivo e maledirà ogni giorno l’euro e la concorrenza cinese) fremere di passione per il decalogo del partito unico di Berlusconi o per le primarie che dovranno restituire a Romano Prodi lo smalto perduto.

Per dirla con parole semplici, l’impressione è che il paese reale stia perdendo il suo legame con la politica, con tutti i personaggi che – come suggerisce un tormentone di questi anni – hanno calcato il teatrino della Seconda Repubblica. L’impressione è che continuino a mandare segnali disperati ai naviganti, bocciando ad ogni tornata il governo in carica, nella difficoltà di comprendere come fare del bene alla politica ma avendo capito benissimo, almeno, come farle del male. Un esempio? Le elezioni regionali in Puglia. Quel che sorprende non è tanto il fatto che sia stato eletto un rappresentante dell’ala più radicale dello schieramento di sinistra, quanto che sia stato eletto in quanto estraneo a una rete di rapporti e di interessi che i cittadini hanno percepito (a torto o a ragione) come consolidata e asfissiante. Nichi Vendola ha vinto due volte contro l’establishment, sia quello di sinistra (nelle primarie contro Boccia, l’uomo di D’Alema) sia quello di destra (nelle elezioni contro Fitto, l’uomo di Berlusconi).

Politica tornata al punto di partenza

La Seconda Repubblica sembra dunque tornata al punto di partenza di dodici anni fa. A quel lontano 1993 quando la fibrillazione politica era al suo apice, il vecchio sistema ormai frantumato e il nuovo stentava a nascere sotto i colpi imbizzarriti di una magistratura che alla sua irruzione moralizzatrice stava accompagnando un’opera chirurgica di selezione politica. Gli ingredienti ci sono tutti, compresi quelli di una crisi economica e competitiva che allora prendeva le sembianze della svalutazione della moneta nazionale e che oggi si misura nei dati recessivi della crescita, nella crisi di competitività del sistema industriale e nella discussione attorno alla moneta unica europea i cui benefici non sono percepiti né dai cittadini né dal fragile tessuto produttivo. Lo Stivale appoggiato alle stampelle che il settimanale The Economist ha ritratto in una copertina di fine maggio, rappresenta con crudo realismo, anche se con qualche compiacimento britannico, lo stato del paese. Bisogna essere onesti: il declino italiano è un prodotto di lungo periodo dell’economia, della politica, della cultura e solo una cattiva polemica politica può utilizzarlo come una clava da scaricare sul governo in carica. Il declino è un dato di fatto e forse ha già determinato tutte le conseguenze negative che poteva.

E’ per di più un fenomeno europeo, almeno di quell’Europa occidentale che ha vissuto una lunga parabola di crescita e benessere nella seconda metà del secolo scorso e che oggi deve completamente reinventarsi se vuole trovare la strada della ripresa nella competizione globale. Insomma, nel dibattito politico il declino è diventato un alibi per restare bloccati, per crogiolarsi nelle vecchie certezze scaricando sugli avversari del momento (oggi il centrodestra, domani chissà) le comuni pigrizie riformiste. Il declino è il rifugio dei conservatori, incapaci di vedere il nuovo laddove si realizza, di inseguirlo, di progettarlo per il nostro paese: in tal senso è diventata la colonna sonora di questa stanca Seconda Repubblica. La politica, in questo quadro non proprio ottimistico, fa per intero la sua parte. Ha consumato molte aspettative suscitate negli anni Novanta: la speranza di un sistema più efficiente, capace di dare al paese un’equilibrata alternanza tra due poli, la bontà di leadership forti alle quali imputare il buongoverno o la cattiva amministrazione, un panorama partitico semplificato, un progressivo assorbimento delle spinte estremiste a vantaggio di un moderatismo di base sul quale poggiare una visione condivisa dei valori repubblicani.

Poco di tutto questo è sopravvissuto alle turbolenze di un paese troppo diviso e di una classe politica e intellettuale che non ha mai voluto riconoscere ai propri avversari politici legittimità e funzione. La storia di questi dodici anni è intessuta di un odio viscerale, antropologico verso l’avversario, che ha impedito al nuovo sistema politico di sedimentarsi: nell’immaginario collettivo nazionale la Seconda Repubblica si va sempre più configurando come un sistema confuso e instabile, incapace di selezionare una classe dirigente preparata e competente e di garantire al paese la guida politica necessaria ad affrontare le scelte decisive che l’Italia rinvia da troppo tempo. Nasce da qui la crescente nostalgia verso la Prima Repubblica, ma un paese che guarda al futuro con la testa rivolta indietro non è un paese in buona salute.

Alla ricerca dell’unione dei moderati

La prospettiva del partito unico, poi ribattezzato unitario per renderlo nominalmente più appetibile, rilanciata con forza nel centrodestra, cioè di un rassemblement popolare e moderato che raccolga e unifichi in un’unica espressione partitica dall’anima plurale le esperienze che si sono riconosciute nella Casa delle Libertà, può dunque servire a guardare avanti in un momento così delicato. E’ un tentativo, forse l’ultimo, di restituire un senso a dodici anni della nostra vita politica: completare la transizione, riformare le istituzioni e adeguarle alle aspettative suscitate dal nuovo sistema elettorale, passare dal bipolarismo al bipartitismo alla ricerca di quell’efficienza che un cambiamento a metà non poteva assicurare. Per il centrodestra, che meglio di altri ha saputo interpretare le ansie di rinnovamento degli anni Novanta, si tratta di adempiere alla missione storica che in fondo si era dato alla sua nascita e che ha smarrito in una pratica amministrativa non proprio entusiasmante.

E’ l’unica proposta innovativa in grado di arrestare il cupio dissolvi della Seconda Repubblica e sulla quale possono scommettere quanti non hanno perso la fiducia in un sistema politico più competitivo ma devono trovare il coraggio dei volenterosi per condurre in porto la riforma istituzionale. Non può essere una scorciatoia elettorale. Perché se anche fosse stata solo una boutade del Cavaliere per sparigliare le carte e fermare la caccia al leader che si era aperta nel suo schieramento all’indomani della sconfitta amministrativa, questa del partito unico è una buona idea, che va perseguita ben al di là della contingenza elettorale del 2006, di cui comunque i partiti devono tener conto. Tanto buona che ad un mese dalla prima conferenza pubblica promossa da un pool di riviste di area l’argomento è divenuto centrale nell’agenda politica del centrodestra, ha contribuito a scombinare i giochi nella coalizione avversaria, ha rimesso in movimento un’intera area che non voleva esaurire la propria esperienza decennale in una probabile sconfitta elettorale.

L’idea di un nuovo inizio

C’è aria di un nuovo inizio. A fianco delle riviste che hanno avviato il dibattito sono sorte altre aggregazioni, forum, convegni, conferenze. Gli strumenti e i contenuti di questa nuova formazione politica sono analizzati nelle pagine stampate delle riviste e dei giornali e su quelle telematiche delle pubblicazioni on line. Ha invaso la discussione tra i blog, il fenomeno internettiano che sta cambiando i connotati dell’informazione e della comunicazione politica. E’una discussione fervida e appassionata, spesso molto anarchica, che in qualche modo ricorda il fenomeno che precedette la nascita di Forza Italia e la svolta del 1994. Lo segnaliamo, in tutta umiltà, ai tanti colleghi giornalisti sempre a caccia di nuove informazioni che potrebbero utilmente tastare il polso di quella che altrove si chiamerebbe “la base” e che da questa parte del versante politico-culturale è il tessuto disperso di uomini e donne che rappresentano la metà del paese che non si schiera a sinistra. E ne consigliamo la lettura anche ai politici, ai loro sherpa, a quanti lavorano operativamente alla realizzazione del partito unico affinché non procedano, ancora una volta, da soli ma sappiano adeguare il nuovo progetto alle esigenze di un consolidato elettorato di centrodestra.

Questa spinta composita ha soprattutto costretto i politici della maggioranza a interrompere l’inutile resa dei conti interna, come se la vita politica fosse finita all’indomani del 13 giugno, e non fosse rimasto altro che attendere rassegnati una nuova ghigliottina elettorale rimanendo aggrappati a quel simulacro di potere che è Palazzo Chigi. Non per questo era nata la Casa delle Libertà, anche se nel corso di dieci anni essa s’è appesantita di modesti professionisti della politica (perché quelli di buon livello, chissà perché, ha preferito emarginarli in nome di un motto che sa tanto di autobus: non disturbare il conducente). Ma il conducente andava disturbato perché nel formicaio impazzito del centrodestra s’era aperta una discussione poco costruttiva sul dopo-Berlusconi, con l’obiettivo di accelerare la successione nella speranza di ereditare voti e consensi che in questi anni hanno fatto di Forza Italia il perno centrale di un particolare moderatismo italiano. Non era la strada giusta.

Serve ancora un partito liberale di massa?

Nelle ultime settimane di giugno e all’inizio di questo caldo mese di luglio Silvio Berlusconi ha imposto un’ulteriore accelerazione alla realizzazione del soggetto unitario. L’obiettivo è quello del 2006, le elezioni generali del prossimo giugno che segneranno un nuovo, fondamentale passaggio nella vita politica del paese. Molte ipotesi si addensano attorno a questo processo: si parla di semplice maquillage politico, una sorta di lifting estetico a una coalizione indebolita da cinque anni di governo nazionale ma anche di vera e propria rivoluzione, con tanto di rottura verso il passato, rimodellamento sostanziale dei partiti, novità sul piano della leadership. E sul piano dei contenuti, della linea strategica: una profonda riflessione su quanto sia cambiata l’Italia dal lontano 1994, quanto diversi siano gli scenari internazionali, quanto complesse siano diventate le aspettative degli italiani, quanto il contenitore inventato negli anni Novanta, quello del partito liberale di massa, sia ormai diventato incapace di contenere in un’unica formazione uomini e movimenti che si scompongono trasversalmente di fronte alle sfide di valore del nuovo secolo (il referendum sulla fecondazione assistita è stato solo l’iceberg di nuove fratture politiche che stanno scompaginando il quadro politico italiano).

La riflessione, posta in questi termini, che sono gli unici che ci appassionano e ci interessano, non può realisticamente esaurirsi nel breve spazio di pochi mesi. Tanto più che alla base di tutto dovrebbe esserci un’onesta disamina su cosa non ha funzionato nella costruzione di Forza Italia, il movimento simbolo della Seconda Repubblica: operazione impossibile da condurre nel pieno di una campagna elettorale. Ecco dunque che il viaggio verso il partito unitario dei moderati e dei riformisti non può che svolgersi su due tempi, ben distinti. Il primo, di breve orizzonte, legato a una federazione dei partiti esistenti, un più stretto collegamento operativo a livello dirigenziale e parlamentare e magari anche simbolico sulla lista elettorale. Obiettivo: vincere le elezioni del 2006 con Silvio Berlusconi alla guida della coalizione. Il secondo, di medio-lungo periodo, la formazione del partito unitario vero e proprio, il grande blocco moderato e riformista che dovrà realizzarsi su coordinate ben più politiche e democratiche di quanto non sia accaduto nel decennio emergenziale post-tangentopoli. Per questo progetto fusionista, se si vuol farlo seriamente, servirà qualcosa di più di un lavoro di marketing, del decalogo preconfezionato del buon soldato, delle scenografie del Truman Show che mascherano la povertà intellettuale e morale della classe dirigente. E questo secondo tempo è quello del dopo Berlusconi.

In questo senso, il riferimento di copertina ad Alcide De Gasperi, non è il subdolo tentativo di appropriarsi di un padre nobile, che appartiene legittimamente alla storia intera del nostro paese e a quella della Democrazia cristiana in particolare. E’ semmai il tentativo di far riferimento a quanto di meglio la tradizione moderata democratica abbia offerto all’Italia in termini di consapevolezza politica: un esempio di statista politico da tenere ben presente nel momento di dare forza e sostanza a un progetto politico che ha bisogno di una nuova partenza. Ideazione non esaurirà la sua analisi nei dodici mesi che ci separano dalle elezioni del 2006. Le sue pagine conterranno una profonda riflessione sui contenuti necessari alla nuova formazione moderata del centrodestra: i suoi valori, i suoi confini, le sue coordinate economiche, il blocco sociale di riferimento, l’organizzazione pratica, la formazione della leadership e la selezione di una valida classe dirigente, i modelli istituzionali, il rapporto con la storia nazionale, i legami internazionali, l’Europa, l’America, l’Occidente. Una riflessione a puntate, numero per numero, a cominciare da questo fascicolo estivo.

Lo schema è semplice: il punto del bimestre sull’andamento dei “lavori in corso”, luna sorta di diario di bordo affidato al vice direttore de il Giornale Mario Sechi; gli interventi di intellettuali, giornalisti, docenti universitari non necessariamente “di area” che svilupperanno secondo le proprie sensibilità le riflessioni sull’argomento. Cercando di inquadrare almeno tre aspetti: i riferimenti culturali del nuovo soggetto partitico, l’organizzazione e l’articolazione territoriale, la leadership e la classe dirigente. E, dal prossimo numero, una serie di ampie interviste agli esponenti politici del centrodestra destinati a giocare un ruolo di primo piano nei futuri sviluppi del partito moderato (partiremo a settembre con il presidente del Senato Marcello Pera). E’ il nostro contributo, come sempre libero e critico, nei confronti del mondo politico cui questa rivista fa riferimento. Nella consapevolezza che, solo attraverso la capacità di dar voce e rappresentanza alla vivacità intellettuale che si è riaccesa attorno a questo progetto, il partito unitario potrà ottenere la solidità e l’efficacia che i singoli partiti della Seconda Repubblica, a soli dieci anni dalla loro nascita, non hanno più.

15 luglio 2005

 

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