L’illusione prodiana di gestire il declino
di Pierluigi Mennitti
da Ideazione, maggio-giugno 2005

Dodici regioni al centrosinistra contro due al centrodestra, fibrillazione nella Casa delle Libertà, crisi di governo, consultazioni, strappi e trattative, quindi il varo di un terzo governo Berlusconi con un esecutivo che, sostanzialmente, riproduce la stessa compagine che era andata in crisi. Con tre cambiamenti che potrebbero segnare una nuova linea. Primo, Giulio Tremonti alla vicepresidenza del Consiglio: con Berlusconi sempre più impegnato nel partito in vista della campagna elettorale e Fini assorbito dal lavoro alla Farnesina, sarà lui (e non Letta) il regista del nuovo esecutivo. Secondo, il nuovo ministero per il Mezzogiorno, affidato a Gianfranco Micciché, che dovrebbe riequilibrare l’azione nord-centrica del precedente governo: è Forza Italia che guiderà questa virata, non An né l’Udc. Terzo, qualche tecnico in meno, qualche politico in più: il “governo del fare” cessa come esperimento e come retorica, si apre una nuova fase nella quale il Cavaliere certifica la fine del “berlusconismo populista” (decretata dagli elettori) e apre quella del Berlusconi politico. È su questo che imposterà la corsa elettorale per il 2006, se riuscirà a compattare la maggioranza che vive ancora forti scosse di assestamento dopo il terremoto che l’ha colpita nel mese di aprile. La frase pronunciata nel giorno delle dimissioni all’indirizzo dei suoi alleati – «Non vi libererete di me» – accolta come una minaccia o una speranza a seconda dei punti di vista, testimonia che Silvio Berlusconi intende mantenere il pallino del centrodestra in mano, qualunque sia l’esito elettorale con Prodi. Anche all’opposizione, il Cavaliere vuol riportare Forza Italia ad una consistenza numerica tale da rendere impossibile quella spartizione delle spoglie che alleati e avversari già pregustano.

La crisi del Centrodestra e la sfida del partito unico

Buffa la politica. Nella primavera del 2000, Massimo D’Alema aveva perduto Palazzo Chigi per essersi tuffato a corpo morto nella campagna elettorale, cercando nel voto amministrativo quella legittimazione popolare che non aveva mai avuto. Cinque anni dopo, Silvio Berlusconi ha dovuto chiudere la sua seconda esperienza governativa proprio per non aver voluto partecipare alle Regionali del 2005: si era fatto illudere da consiglieri poco accorti di poter sopravvivere ad una sconfitta elettorale semplicemente non scendendo in campo in prima persona e non politicizzando uno scontro che avrebbe dovuto rimanere confinato in una dimensione regionale. Ma il sistema politico italiano, ancora al centro di un’interminabile transizione, non ha la stabilità di quello americano e neppure di quello tedesco, dove i premier sopravvivono indenni ai rovesci nelle elezioni intermedie o locali. La sconfitta non solo è arrivata, ma è stata talmente profonda da accentuare il processo già in corso di sfaldamento della coalizione che ha portato tutti i leader dei partiti di maggioranza a giocare una partita personale. È scattato il “si salvi chi può”, con l’occhio puntato al dopo-Berlusconi, di colpo diventato l’argomento prioritario nell’agenda politica della maggioranza.

Non vorremmo infliggere ai lettori di Ideazione la stucchevole litania del “noi l’avevamo detto”. D’altronde, chi lo desidera, può passare dal proprio scaffale o collegarsi al nostro sito Internet e rileggere gli articoli e i saggi che composero il numero 4 dello scorso anno, quello successivo alla tornata elettorale europea ed amministrativa, con Silvio Berlusconi in copertina e il profetico titolo: “Il dilemma del leader carismatico”. Tutto quello che avevamo da dire per offrire il nostro contributo a una correzione di rotta quando essa era ancora possibile e utile, lo abbiamo scritto allora. L’analisi non superficiale del campanello d’allarme amministrativo ancora bilanciato da una sostanziale tenuta del blocco sociale nell’elezione europea. L’obbligo di tornare a strutturare il partito sul territorio, dandogli finalmente corpo e sostanza. Il rinnovamento profondo di una classe dirigente spenta e assopita sugli allori. La qualità dell’azione governativa sospesa tra l’impotenza riformista e la riluttanza ad aggiornare l’agenda per affrontare una crisi economica più lunga del previsto. La capacità del leader Berlusconi di amalgamare la squadra dei ministri. Il ruolo essenziale ma indebolito dal voto di Forza Italia, cerniera tra le diverse componenti partitiche della maggioranza.

Forza Italia, appunto. Una componente politica tanto importante, da essere da oltre un decennio il primo partito del paese, non può nascondere le proprie debolezze dietro quelle del governo. La faccia di Forza Italia sul territorio, nelle città, nelle province, nelle regioni, non è quella di Silvio Berlusconi ma dei tanti consiglieri, sindaci, assessori, presidenti, governatori, dirigenti di partito che ne hanno ingrossato le fila. Gli elettori valutano il loro comportamento, la loro attitudine politica, la loro pulizia morale, la loro passione, il loro saper essere al servizio dei cittadini, la loro capacità di mettere da parte interessi particolari, di saper resistere alla tentazione dell’affarismo per perseguire il sogno di una città, una provincia, una regione migliore. Ed è proprio su questo terreno che dobbiamo oggi registrare l’enorme distanza che separa la Forza Italia del 2005 da quella, più ingenua forse ma certamente più genuina, del 1994. Qualcosa di perverso deve essere successo se, in undici anni, il partito ha perduto quella immagine di novità e rigore morale che ai suoi esordi aveva affascinato e attratto tante forze nuove.

Un anno fa, la risposta a questi appunti fu un’estenuante e incomprensibile verifica, che anticipò i più corposi rituali da Prima Repubblica cui abbiamo assistito questa volta. Inutile, oggi, ripetersi. Ma l’impressione è che la stagione politica del Berlusconi carismatico sia finita lì, nelle sabbie di una verifica giocata tutta sul filo del tatticismo. Anche adesso, la nascita del nuovo governo non ci sembra aver risolto i problemi di fondo della coalizione: essi rimangono tutti quanti aperti, e forse insanabili, almeno all’interno della cornice berlusconiana che ne ha rappresentato il punto di riferimento nel primo decennio della Seconda Repubblica. Oggi, l’imperativo è di preservare l’eredità di questa esperienza e mantenerne i tanti frutti positivi in termini di rinnovamento del costume politico ed istituzionale. Tornare indietro non è né auspicabile né possibile. Berlusconi ha rappresentato una formidabile forza di cambiamento per l’ingessato sistema politico italiano e sarà un grande errore, per alleati e avversari, immaginare che si tratti solo di una parentesi nel più tranquillo e fluido incedere del professionismo politico. La stagione di «uno statista privato che non è mai entrato in politica», per citare Giuliano Ferrara, può generare nuove sintesi politiche che sarà utile cominciare a sondare fin da ora, come l’ipotesi di un partito unico sul modello del Partito popolare europeo (o meglio ancora su quello del Grand Old Party americano) che avvii in Italia una rinnovata stagione di moderatismo, tanto utile ad un paese che dopo aver vissuto i turbolenti strappi berlusconiani corre il rischio adesso di sperimentare una stagnante illusione prodiana.

L’illusione prodiana e il pericolo del controllo sociale


Non c’è nulla di scontato, per una rivista liberal-conservatrice come la nostra, nel riconoscere che il centrosinistra ha mosso passi importanti negli ultimi mesi, realizzando un’unione politica ed elettorale che rappresenta un valore aggiunto rispetto alle divisioni che ne hanno caratterizzato la storia recente. E allo stesso modo non appaia scontata la nostra preoccupazione per un futuro di governo affidato a questa coalizione. Non tanto perché la compattezza di queste settimane si fonda soprattutto sull’entusiasmo per la vittoria elettorale e sulla quasi certezza che, tempo un anno, si apriranno per i suoi leader le porte di Palazzo Chigi, mentre dietro questo sipario di unità si scorgono gli stessi problemi (un asse privilegiato, quello Prodi-Bertinotti, osteggiato dalle componenti riformiste) che alla lunga hanno lacerato la Casa delle Libertà e che già oggi producono paradossi come quello del duello Cacciari-Casson a Venezia. Quel che preoccupa è semmai l’entità che la vittoria assume, sia nelle tradizionali aree rosse, con cifre oltre il sessanta per cento, che in nuove aree di più recente consolidamento progressista, come Campania, Marche e Basilicata: qui le percentuali sono non meno bulgare. Si va diffondendo una sorta di dittatura del controllo sociale che da decenni olia la burocrazia clientelare di stampo tosco-emiliano e che è la vera macchina da guerra, molto occulta e poco gioiosa, con cui quel socialismo dal volto umano che fu il comunismo italiano ha declinato il sistema di controllo tipico di ogni regime comunista.

È questa la specificità del comunismo italiano, trasferita poi all’intera socialdemocrazia nazionale una volta espunto per via giudiziaria il filone del socialismo liberale cui Craxi aveva dato nuovo vigore negli anni Ottanta. Nel centrosinistra italiano trovano diritto di dettare la linea tutti gli spezzoni del post-comunismo, dai Ds con il loro correntone anti-riformista a Rifondazione ai Comunisti italiani ai Verdi (ben diversi dai Grünen tedeschi). Al contrario, i centrosinistra europei (in Francia, in Germania per non dire in Gran Bretagna) se ne distanziano. L’esempio di Tony Blair è illuminante: non c’è divisione sulla guerra in Iraq che possa spingere i leader socialisti di Germania o Francia a usare toni tanto severi verso il premier inglese quanto quelli utilizzati negli anni scorsi dagli esponenti della sinistra italiana. Lì c’è una distanza su un punto preciso di politica estera, qui una estraneità culturale rispetto alla tradizione liberale del New Labour blairiano. Controllo sociale, dunque, che viene disteso come una coperta asfissiante su tutta la società, inglobando le forze produttive e quelle parassitarie, le forze sane e quelle che agiscono al di fuori della legalità. C’è, nella cronaca nera del Mezzogiorno, materiale che evidenzia come di cattiva amministrazione sia pervaso il centrosinistra quanto il centrodestra. Diventa difficile immaginare come prodotto di buona amministrazione il 60 per cento dei voti ottenuti in una regione come la Campania che, dati alla mano, è stata amministrata in modo pessimo.

C’è un veleno sottile che il modello incarnato da Romano Prodi instilla nel corpo sociale ed economico delle realtà governate. È la gestione anestetizzata del declino, una gestione che privilegia la comunione delle risorse in esaurimento con quelle parti produttive e burocratiche che decidono di condividere il progetto. Non si prevedono scossoni né elettroshock, non riforme drastiche né sfide da affrontare con la tenacia di chi vuol riprendere a vincere. C’è una rassegnazione, consapevole e ricercata, che si traduce nel mettersi all’angolo del grande flusso della storia. È la cronaca degli ultimi cinque anni dell’Unione Europea che, sotto il governo di Romano Prodi, ha vissuto la perdita di ruolo internazionale e ha imboccato un declino economico del quale anche quello dell’Italia è figlio. Accompagnato con inerzia il processo di allargamento ad Est già impostato dalle commissioni precedenti, l’esecutivo prodiano si è ben guardato dal proporre una discussione franca e aperta sulle sfide che l’attacco dell’integralismo islamico agli Stati Uniti ha posto a tutto l’Occidente. Sul piano economico, completato con danno per le finanze del singolo cittadino il meccanismo d’introduzione dell’euro, la Commissione Prodi ha gestito la più lunga e profonda fase di stagnazione dell’economia continentale dalla fine della seconda guerra mondiale, smarrendo per strada le riforme contenute nella strategia di Lisbona che prometteva di fare dell’Europa il continente più ricco e dinamico entro il 2010. Ci sarà tempo e modo, in questo lungo anno elettorale, per approfondire l’illusione prodiana che l’Italia rischia di riabbracciare esattamente dieci anni dopo. Che la sinistra non sia stata capace, nei cinque anni di opposizione, di maturare un’alternativa più innovativa in linea con le vere esigenze del nostro paese è il rimprovero che ci sentiamo di farle. A questa illusione, il centrodestra deve contrapporre il progetto del partito unico: una sfida sulla quale ci sentiamo impegnati come rivista.

16 maggio 2005

pmennitti@ideazione.com

 

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