Una nuova visione dello Stato
di Angelo M. Petroni
da Ideazione, maggio-giugno 2005

Il rapporto tra liberalismo e pubblica amministrazione ha ricevuto un’attenzione senz’altro molto inferiore rispetto a quella che è stata data al rapporto tra liberalismo e democrazia. Eppure il tema è senz’altro cruciale per chi sia interessato al futuro della società liberale, specialmente in Europa. La pubblica amministrazione non nasce con il liberalismo, e non nasce con la democrazia. La pubblica amministrazione nel significato che le viene correntemente dato è coeva alla nascita ed allo sviluppo dello Stato moderno, e al duplice fenomeno della fine del particolarismo territoriale e del particolarismo giuridico medievale. Essa nasce quindi come apparato al servizio dei sovrani assoluti. Non è ovviamente casuale che il modello medesimo di pubblica amministrazione corrisponda all’apparato dei sovrani assoluti per eccellenza (quelli di Francia, ovviamente, ma anche quelli di Prussia), mentre l’Inghilterra, che dopo il periodo di Cromwell non ha conosciuto un potere sovrano che non fosse temperato da un Parlamento e dai corpi intermedi, non ha mai avuto una pubblica amministrazione con le caratteristiche proprie dell’Europa continentale. Ancora nel pieno del trionfo dello Stato liberale un modello di buona pubblica amministrazione sarà rappresentato dall’amministrazione dell’Impero austro-ungarico, il quale non ebbe mai una forma parlamentare compiuta.

L’affermarsi del costituzionalismo e del potere dei Parlamenti sottrarranno la pubblica amministrazione all’esclusivo controllo del sovrano. Così, alla pubblica amministrazione saranno assegnate due funzioni fondamentali: assicurare l’esercizio dei poteri regali dello Stato e l’esercizio dei diritti individuali garantiti dalle Costituzioni. La pubblica amministrazione, ereditata dai regimi assoluti, verrà messa al servizio dei regimi liberali. Ma il rapporto tra liberalismo e pubblica amministrazione resterà sempre dialettico. La pubblica amministrazione, infatti, rappresenterà sempre un potere con una ampia sfera di autonomia, se non di indipendenza. In tal modo essa non avrà soltanto una funzione servente nei confronti tanto dei poteri regali dello Stato – esercitati questa volta nell’ambito delle Costituzioni – quanto dei diritti individuali. La logica del funzionamento della pubblica amministrazione, e quella della classe burocratica che ne assicura il funzionamento, sarà costantemente di espandere i propri poteri a scapito tanto del governo rappresentativo quanto dei cittadini.

È interessante notare come una tensione non meno rilevante vi sia tra democrazia e pubblica amministrazione. Per la logica appena ricordata la pubblica amministrazione e la burocrazia hanno sempre rappresentato un limite all’esercizio dei poteri delle maggioranze parlamentari. Un limite in questo caso ben accetto da un punto di vista liberale. Per comprendere questa tensione è significativo riferirsi ad una delle Costituzioni più democraticistiche e meno liberali del mondo occidentale, ovvero quella italiana del 1948. L’articolo 98 stabilisce infatti che «i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della nazione». Poiché ovviamente la nazione non può coincidere con una maggioranza parlamentare, né con un governo da essa espresso, la pubblica amministrazione dovrebbe rappresentare un limite al potere democratico. La questione fondamentale, ad ogni modo, è che si tratta di un limite al quale non viene data alcuna base in specifiche disposizioni all’interno della nostra Costituzione.

La visione liberale dello Stato


Nella visione liberale allo Stato venivano attribuiti compiti precisi, chiaramente definiti e chiaramente delimitati. Allo Stato spettava far rispettare le regole della civile convivenza, difendere i cittadini dai nemici interni (ordine pubblico) e dai nemici esterni (esercito), tutelare i diritti di proprietà legittimamente acquisiti (giustizia), amministrare i beni pubblici ed i servizi comuni e fondamentali. Al di fuori delle sue competenze lo Stato non doveva avere alcun potere, mentre all’interno delle sue competenze doveva avere poteri forti ed indiscutibili, superiori a quelli di qualsiasi privato singolo cittadino, associazione o impresa. Lo Stato liberale, sociologicamente fondato sui ceti proprietari e perfettamente funzionale all’estendersi del mercato, si distingueva nettamente da quest’ultimo e dalla sua logica. Il paradosso era (ed è) soltanto apparente perché, per dirla con le parole di un celebre economista contemporaneo, Kenneth Arrow, «la definizione dei diritti di proprietà basata sul sistema dei prezzi dipende proprio dalla mancanza di universalità della proprietà privata e del sistema dei prezzi. Il sistema dei prezzi non è universale e forse, in un qualche senso fondamentale, non può esserlo».

Questa mancanza di universalità genera lo spazio dello Stato, delle sue funzioni tanto reali quanto simboliche, e quindi della burocrazia. Il rispetto dei princìpi dello Stato di diritto, che nei paesi di tradizione romanistica si congiungerà strettamente con il diritto amministrativo inteso come strumento per garantire i diritti dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione medesima; l’eguaglianza di trattamento dei cittadini; la neutralità rispetto agli interessi particolari; la neutralità politica; l’obbedienza e la capacità di fornire i beni pubblici ed i servizi comuni e fondamentali, diventano i caposaldi dell’agire burocratico. Essi sono i principi dell’etica della pubblica amministrazione. Si tratta di standard formali che in larga misura prescindono dai concreti obiettivi perseguiti dai titolari del potere politico.

L’avvento dello Stato interventista


Come è a tutti noto, quella visione liberale dello Stato è venuta progressivamente ad indebolirsi sin dai primi del Novecento, e resta essenzialmente come categoria ideologica e storiografica. Dalla tutela dei diritti definiti nell’ambito privato si passò allo Stato produttore di beni e servizi di tipo “divisibile”, con funzioni eminentemente di redistribuzione del reddito e della ricchezza attraverso la creazione dei diritti sociali. La linea di distinzione tra ciò che appartiene allo Stato e ciò che appartiene alla società ed ai corpi organizzati è diventata molto meno netta, ed è anzi spesso inesistente, come avviene in particolare nei paesi a struttura neocorporativa.Nel passaggio dallo Stato liberale allo Stato interventista, socialdemocratico o neocorporativo, la pubblica amministrazione ha subito un cambiamento fondamentale. Il modello amministrativo, infatti, muta. Il modello della gestione delle norme viene sostituito dal modello diretto alla produzione diretta o indiretta di beni “divisibili” e di servizi pubblici. Valori come quello della neutralità rispetto agli interessi privati, e l’eguaglianza formale di trattamento dei cittadini, diventano impossibili da perseguire nel momento in cui le leggi sono sempre meno costituite da comandi universali ed astratti, e sempre più da comandi volti a realizzare particolari stati di cose, quali una più equa redistribuzione del reddito, lo sviluppo economico di determinate aree di un paese o la nascita di un nuovo settore industriale.

Un aspetto importante di questa realtà è la questione di quale sia la specificità della pubblica amministrazione nel momento in cui si assiste ad una sempre maggiore interpenetrazione tra settore pubblico e settore privato. Sempre di più il settore pubblico ricorre al settore privato per la fornitura di beni e servizi, anche attraverso la costituzione di società miste, che devono rispondere alla logica di mercato. Questa situazione rende difficile distinguere dove si situi l’interesse pubblico, e dove si situi l’interesse privato. Dal punto di vista del comportamento burocratico, al principio della corretta gestione delle norme si sostituiscono metodologie come quella del management by objectives. Weberianamente, la Zweckrationalitaet tipica dei processi produttivi privati si sostituisce alla Wertrationalitaet della funzione pubblica. Più in generale, nella concreta realtà delle odierne pubbliche amministrazioni, si può affermare che vi è una compresenza tra “ethos burocratico” ed “ethos democratico”. L’ethos burocratico, tipico della struttura amministrativa dello Stato liberale, è improntato ai principi sopra ricordati, di natura essenzialmente formale. Diversamente, l’ethos democratico è caratterizzato dall’impegno costituzionale dei pubblici dipendenti – e specialmente dai vertici burocratici – nei confronti dei principi sostantivi di libertà e di eguaglianza dei cittadini, del loro benessere materiale, dell’equità sociale.

Un ethos che si congiunge strettamente con lo Stato interventista, nel quale sfuma la dicotomia liberale tra politica ed amministrazione, e vengono ad essere privilegiati i valori dell’efficienza e della responsabilità della pubblica amministrazione rispetto al formalismo della corretta gestione delle norme. I due ethos non si compongono in unità senza tensioni. Perché se le finalità dell’ethos burocratico sono l’interesse ed il primato dello Stato, le finalità dell’ethos democratico sono l’interesse ed il primato dei gruppi sociali che esprimono le maggioranze parlamentari e di governo. Ciò richiede una forte compressione della autonomia della pubblica amministrazione. Questa tensione è ulteriormente rafforzata dalla considerazione della realtà delle odierne democrazie rappresentative, che divergono in modo sostanziale dal modello originario della democrazia liberale. Questa realtà è stata ben descritta da Friedrich von Hayek: «L’ideale democratico originario si basava sulla concezione che i più condividessero un ideale comune di giustizia.

Tuttavia oggi la comunanza di opinione sui valori fondamentali non è sufficiente a determinare una azione governativa programmata. Il programma specifico necessario ad unire i sostenitori del governo, o a mantenere insieme un partito, deve essere basato sull’unione di interessi diversi, unione che può essere raggiunta soltanto con un processo di contrattazione. Tale programma non sarà, quindi, espressione del desiderio comune di raggiungere particolari risultati; e poiché sarà legato all’uso delle risorse disponibili da parte del governo per scopi particolari, esso si fonderà, in generale, sul consenso dei diversi gruppi riguardo al fornire servigi particolari ad alcuni di essi in cambio di altri servigi resi ad ognuno dei gruppi medesimi. Sarebbe pura finzione descrivere tale programma d’azione, concordato da una democrazia intenta a mercanteggiare, come l’espressione di valori comuni ad una maggioranza». Una posizione, quella del grande filosofo austriaco, che ha una forte consonanza con l’insegnamento costante della dottrina sociale della Chiesa cattolica, per cui il “bene comune” non è la somma degli interessi egoistici dei singoli e dei gruppi sociali.

Un forte alleato nell’ethos burocratico


È del tutto significativo come la necessità che la pubblica amministrazione corrisponda comunque a principi di tipo formale, indipendentemente dalle sue performance, stia diventando una tematica sempre più sentita. Un rapporto dell’Ocse, prodotto nel settembre del 2000, Rafforzare l’etica nella pubblica amministrazione: le misure dei paesi dell’Ocse, dà questa classifica ponderata degli otto valori essenziali della pubblica amministrazione più frequentemente menzionati nei 29 paesi dell’Ocse: imparzialità (24), legalità (22), integrità (18), trasparenza (14), efficienza (14), uguaglianza (11), responsabilità (11), giustizia (10). Guardando complessivamente a tutti questi elementi, si può trarre una conclusione che non è particolarmente intuitiva, ma che proprio per questo è forse di grande interesse. Abbiamo sottolineato all’inizio come vi sia una tensione storica tra liberalismo e pubblica amministrazione. Se tuttavia il quadro che abbiamo delineato è verosimile, il liberalismo può trovare oggi un forte alleato nell’ethos burocratico, ovvero nella visione di una pubblica amministrazione che si attiene ai criteri formali dell’interesse e del primato dello Stato.

Dopo una fase durata almeno un mezzo secolo nella quale il liberalismo si è essenzialmente identificato con una critica dello Stato, vi sono buone ragioni per credere che il liberalismo abbia oggi come compito di riuscire a produrre una visione rinnovata dello Stato e una rinnovata teoria della politica; non solo una teoria dei limiti dello Stato e della politica: una visione convincente tanto per gli intellettuali quanto per le persone comuni, così com’è ormai del libero mercato. È noto che gli Stati democratici liberali della cosiddetta Belle époque, che pure fornivano molti beni pubblici, erano fortemente limitati quanto a dimensioni e campo d’azione, e rispettosi della libertà individuale. Anche la guerra era diventata rara. La situazione mutò radicalmente quando venne introdotto il suffragio universale, in conseguenza della pressione delle classi lavoratrici che reclamavano il diritto di partecipare alle decisioni politiche. Le notevoli differenze in materia di ricchezza e istruzione esistenti tra le classi dirigenti e quelle lavoratrici, insieme all’ideologia socialista, spiegano largamente perché lo Stato limitato dell’Ottocento si sia evoluto in uno Stato onnipresente e redistributivo.

Chi considera lo Stato come il nemico per eccellenza della libertà individuale dovrebbe, quindi, distinguere tra lo Stato come struttura istituzionale – nella sua versione liberale – e lo Stato come struttura politica su cui è ricaduto il compito di ridurre l’enorme divario fra le grandi masse dei diseredati e le classi dirigenti benestanti. Si può obiettare che il processo abbia distrutto spazi di libertà e quote di ricchezza, ma bisognerebbe anche chiedersi quale sarebbe stata l’alternativa se lo Stato liberale democratico non fosse esistito. Le ragioni storiche dell’espansione dello Stato sono sostanzialmente svanite, poiché attualmente la popolazione delle democrazie liberali contemporanee è composta da persone relativamente benestanti e istruite, e l’ideologia socialista ha perso molto del suo fascino. Anche in Europa cresce la consapevolezza dei costi dello Stato, mentre aumentano le critiche verso le limitazioni che esso impone alla libertà individuale e alla crescita economica. Ciò lascia ampio spazio per una nuova visione liberale dello Stato e del processo democratico.

Tuttavia, l’arretramento dello Stato è solo parte della soluzione. Lo Stato onnipresente si va forse indebolendo, ma la maggior parte dei cittadini difficilmente rinuncerebbe a chiedergli la produzione di un bene di tipo particolare: la certezza. E non solo la certezza che la vita e i beni saranno protetti da attacchi interni ed esterni; anche certezze sulla salute, la vecchiaia, l’istruzione, il benessere economico, un ambiente fisico e sociale sano. È dimostrato infatti, sia al micro sia al macrolivello, che la larga maggioranza delle persone ha scarsa propensione al rischio, e non valuta allo stesso modo le probabilità di guadagni e perdite futuri. La domanda di politica e di istituzioni politiche nasce sostanzialmente da questo. Da un punto di vista diverso ma convergente si può affermare che la maggior parte delle persone preferisce vivere in una società dove non tutti i legami con gli altri sono di natura contrattuale. La dimensione della storia nella società e nella vita umana è essenziale per spiegare questo punto. Come ricordava David Hume, le generazioni di uomini non sono come le generazioni di mosche, che nascono e scompaiono l’una dopo l’altra.

La visione liberale assegna un ruolo cruciale al mercato nella produzione di tutti i tipi di beni, anche di quelli che le visioni collettivistiche – di destra come di sinistra – considerano come monopolio della mano pubblica. Esiste tuttavia anche una dimensione collettiva, legata alla ricerca della certezza, ed a questa deve provvedere lo Stato. Se l’opinione pubblica continuasse a percepire il liberalismo come incapace di fornire ragionevoli certezze, con tutta probabilità le ideologie collettiviste e socialiste continuerebbero a prevalere, nonostante i fallimenti nella sfera economica. Costruire una nuova e coerente visione dello Stato e della sua amministrazione nel mondo post-socialista è quindi il compito più importante davanti al quale oggi si trova il liberalismo, specialmente in Europa. Un compito che oggi sembra più proprio della sfera intellettuale che non di quella politica in senso stretto, ma che non è per questo meno importante se è vero, come affermavano due intellettuali di ben diverso sentire come John Maynard Keynes ed Hayek, che ciò che guida davvero il mondo non sono gli interessi materiali ma le idee.

30 giugno 2005

 

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