Le città immaginifiche
di Eugenia Roccella
da Ideazione, novembre-dicembre 2004

Tutto è cominciato nel 1977 con il Beaubourg. L’opera di Renzo Piano, architetto italiano allora sconosciuto agli italiani, calamitò presenze e attenzione oltre ogni aspettativa. Dopo lunghi anni in cui l’architettura, soprattutto in Europa, soprattutto da noi, era relegata ai margini, qualcosa era cambiato. Un pubblico curioso e giovane affollava il Centre Pompidou, per il puro piacere di abitare uno spazio in cui, finalmente, poteva riconoscersi. Da molto tempo non si era verificata una così felice sintonia tra architettura e utenza. Il Novecento e le sue avanguardie avevano decretato la fine di una ricezione estetica che potremmo definire “spontanea”, esigendo, per la comprensione dell’opera d’arte, la padronanza di codici interpretativi complessi, e distruggendo il concetto, accessibile a tutti, di bellezza. A un certo punto, è parso che l’antico rapporto tra artista e pubblico fosse destinato a non saldarsi mai più.

L’arte, chiusa in un’autoreferenzialità criptica, era diventata, in un mondo di massa, più che mai elitaria; l’architettura, rinunciando alle sue potenzialità simboliche più profonde, si chiudeva in uno sterile accademismo o si assoggettava a presunte priorità sociali, erigendo veri monumenti all’invivibilità. Gli anni Settanta sono stati forse il momento che ha segnato il punto più basso di questo percorso. Nessuna amministrazione osava più costruire qualcosa che non avesse un immediato risvolto sociale, che non fosse giustificato ideologicamente da necessità pratiche e concrete: carceri, uffici postali, quartieri di edilizia popolare, in genere progettati secondo standard astratti; molto di rado un museo, un teatro, un auditorium, e mai qualcosa di gloriosamente inutile, come avevano fatto i parigini con la Tour Eiffel, simbolo del trionfale ingresso dell’Europa nella modernità.

Se nelle arti visive, dopo gli ultimi scoppiettii americani del Pop, vincevano i parchi segni dell’arte povera, del concettualismo minimalista, nella nostra architettura dettava legge un’idea austera e pesante del costruire, che faceva assomigliare a prigioni prive di luce e di inventiva i pochi edifici firmati da progettisti noti. La legge 167, voluta dal primo governo aperto ai socialisti, sperimentava in Italia modelli incongrui di edilizia popolare, importati da paesi lontani dalle nostre tipologie di insediamento urbano, paesi senza la ricchezza di centri storici e di culture locali così tipici del nostro territorio. L’idea di disegnare intere zone della città prendeva il sopravvento sul fascino del singolo oggetto architettonico, e si sposava con il mito della pianificazione generalizzata che imperava a sinistra. Il piano si poneva come un decoroso sostituto delle utopie irraggiungibili: più modesto e a portata di mano, non spaventava nessuno, ma blandiva le ansie di perfettismo e le brame di onnipotenza di amministratori e urbanisti.

Nascono da qui i quartieri Iacp, le grandi periferie slabbrate e soffocate da “stecche” o da “torri”, i modelli prevalenti di edilizia popolare di quegli anni. Le une e le altre erano affette da patologico gigantismo e da una preoccupante ossessione per l’uniformità: moduli che si ripetono quasi all’infinito, producendo un paesaggio malato e devianze sociali. Anche limitandoci alla capitale, gli esempi abbondano: basta gettare un’occhiata a quartieri come la Serpentara, Tor Bella Monaca, Corviale. La frustrazione degli architetti, che non riuscivano a costruire, era tangibile. Forse a causa di questa latitanza di committenti, e della censura ideologica che impediva la ricerca, molti di loro si sono chiusi dentro una maniera accademica, un’architettura disegnata (cioè non progettata per essere costruita) di severa, talvolta metafisica, monumentalità. La tanto celebrata scuola dei vari Rossi, Gregotti e dei loro sodali, appesantita da un autoritarismo ideologico e culturale assai datato, è invecchiata precocemente, mentre intorno lievitava la domanda di fantasia e leggerezza.

Una competizione estetica per ridisegnare la città

Non è stato dunque casuale che il Beaubourg, punto d’inizio simbolico di un periodo di nuovo fervore costruttivo e creativo, sia stato firmato (insieme a Rogers) da un italiano cresciuto fuori dal mondo asfittico e impositivo delle tendenze e dei circoli di casa nostra. Come del resto è naturale che sia stata proprio la Francia, con le sue mai perdute nostalgie imperiali, a ricordarsi che il Principe ha sempre avuto bisogno di un architetto per celebrare il proprio potere e coinvolgere le masse. Pompidou, ex burocrate poco dotato di carisma personale, ebbe un colpo di genio quando legò il suo nome ad una serie di decisi interventi di rinnovamento di Parigi, proseguiti poi da Mitterrand. Una iniziativa politica molto ben gestita (attraverso concorsi internazionali condotti con spregiudicatezza e trasparenza) che inaugurò la nuova competizione estetica tra le città del mondo.

Questa gara metropolitana, iniziata un po’ in sordina, è diventata negli ultimi anni una clamorosa rincorsa ad aggiudicarsi la palma dell’economia simbolica. Perché ridisegnare la città vuol dire farle acquistare prestigio internazionale, farla affacciare alla vetrina del mondo, e questo grazie magari a un’unica realizzazione progettuale in grado di colpire la fantasia e imporsi nell’immaginario urbano. La distanza dall’architettura sociale degli anni Settanta non potrebbe essere più ampia: il rischio attuale è semmai quello di perdere l’ancoraggio con la realizzabilità, l’abitabilità, in favore di progetti sempre più audaci, poco riferiti al contesto e tutti mirati all’effetto scenico. La globalizzazione ha prodotto un nuovo international style, sganciato dalla storia e dalle tradizioni locali, perché ha prodotto un’omologazione tra i fruitori delle città globali. La ricchezza, secondo i nuovi indicatori, si sposta insieme alla classe dei “creativi urbani”, i quali vanno dove trovano migliori occasioni sul piano del lavoro, della formazione, ma anche dello stile di vita.

Attrarre queste nuove élite transnazionali vuol dire concentrare energie innovative e favorire i processi di rilancio economico; ma d’altra parte dove questi processi si sono sviluppati, l’adeguamento dei luoghi e dell’immagine urbana è una necessità quasi automatica. Il mondo postindustriale, che inventa e organizza servizi, vive sempre più di cultura, che non è, come un tempo, un bene di pochi, ma una grande molla economica, un immenso serbatoio di idee per soddisfare, e suscitare, nuovi desideri di massa. I consumi culturali (moda, arte, design, cibo, musica e così via) traggono alimento dai mille impulsi forniti dalla vita quotidiana nelle grandi metropoli, i cui abitanti costituiscono un pubblico ideale. Mentre per gli insediamenti industriali, che richiedono grandi spazi e sono spesso inquinanti, si scelgono necessariamente località periferiche, i servizi, la finanza e i media, devono essere collocati all’interno del tessuto urbano, in un vitale rapporto di scambio con la città.

Le economie avanzate si occupano sempre meno della concreta fabbricazione del prodotto e sempre di più di costruire intorno all’oggetto un’aura, un mito, un universo concluso che offra all’acquirente un gratificante senso di appartenenza. Il “di più” di ogni servizio e prodotto offerto sul mercato è oggi la sua capacità di suggerire l’immagine di un mondo virtuale di cui l’acquirente deve sentirsi parte: al disegno del prodotto si sostituisce il disegno di una suggestione, di un sogno in cui sia possibile immergersi. Questa tendenza, evidente per i grandi marchi internazionali, si sta estendendo anche alle città. Per Baudelaire la bellezza altro non è se non una promessa di felicità. Ma la felicità è inafferrabile, per sua natura sfuggente; piuttosto che inseguirla, si preferisce viverne il miraggio, o godere il riverbero che proviene dalla sua immagine. I mondi dell’irrealtà contemporanea, del virtuale in tutte le sue quotidiane declinazioni, promettono felicità; trasferire questo desiderio nell’immaginario urbano, vuol dire creare un’illusione che suggerisca l’utopia di un mondo in cui è meraviglioso vivere.

Così hanno tentato di fare i grandi architetti con gli edifici-mito con cui hanno firmato il rinnovamento urbano, fino ad essere talvolta identificati con una precisa immagine metropolitana (vedi Foster a Londra, Bohigas a Barcellona, Gehry a Bilbao). Le ricadute economiche delle grandi opere architettoniche e urbanistiche di questi ultimi anni sono state enormi: interi quartieri hanno ricominciato a vivere, hanno visto i propri valori immobiliari schizzare alle stelle, si sono riqualificati in modo spontaneo, intorno a un polo d’attrazione. In Europa Londra e Berlino sono state forse le città in cui più consapevole è stato l’investimento politico e più ingente quello finanziario. Ma la concorrenza tra grandi metropoli non è più limitata all’Occidente: il mercato geografico si allarga a ritmi velocissimi, e già comprende zone che una volta venivano considerate periferiche rispetto al cuore pulsante dell’economia mondiale, città come Melbourne e Shangai, Tokyo e Miami, Singapore e Rio de Janeiro.

La popolazione urbana si avvia a superare, nel giro di pochi anni, quella che vive nelle zone rurali del mondo; se la campagna resta idealmente il luogo dell’idillio bucolico, le città sono il luogo privilegiato e ricco di fascino in cui si mescolano e si incrociano culture ed esperienze diverse. L’Italia ha, per più motivi, notevoli difficoltà ad inserirsi in questo grande gioco metropolitano. Alcune di queste difficoltà sono oggettive, connesse alla nostra particolare storia, all’esistenza di una provincia urbana più che rurale, fatta di tante piccole città. Altre sono legate alla macchinosità e lentezza delle procedure, alla resistenza (tutta ideologica) a coinvolgere il capitale privato, nei confronti del quale le amministrazioni pubbliche nutrono un’antica e mai superata diffidenza. Altre ancora derivano dall’enorme consistenza di un patrimonio storico e artistico che assorbe risorse e stimola una cultura della conservazione più che dell’innovazione.

Ma la difficoltà più insuperabile, perché strisciante e non dichiarata, continua ad essere l’ideologia. è duro rovesciare i canoni, i criteri di giudizio e pregiudizio. Le più recenti operazioni di rinnovamento urbano di grande respiro sono state concepite e realizzate dal fascismo. Mussolini ha lasciato, soprattutto nella capitale (ma non solo), l’ultima impronta coerente, l’ultima traccia di un progetto organico e ambizioso. Nella Roma fascista si legge chiaramente un’idea di modernità che si ricollega alle radici classiche, in una sintesi in cui si sono cimentati i migliori architetti dell’epoca. Nella damnatio memoriae che ha colpito l’intero Ventennio, nessuno si è salvato, e a stento ci si è ricordati che all’Eur già lavoravano giovani come Quaroni, Muratori, Libera. La nuova democrazia del dopoguerra è stata restia ad autocelebrarsi, dimenticando che l’architettura non è solo funzionale all’esaltazione del potere, ma è un importante cemento culturale, che stimola il senso identitario e di appartenenza, e contribuisce a creare quel tessuto di idee condivise così importante per una società democratica e pluralista.

Se la Dc sceglieva un tono antiretorico, uno stile poco appariscente di gestione del potere, il Pci (con i socialisti al traino) puntava sull’edilizia popolare per costruire i suoi monumenti autocelebrativi. Non si può definire Corviale come un ecomostro; è invece il luogo dove le idee di grandezza della sinistra di governo si sono realizzate pienamente, dispiegandosi in tutta la loro potenza ideologica. La resistenza a compiere una decisa virata, adeguandosi ai modelli internazionali, è tutta qui, ed è facilmente leggibile nella polemica contro il ponte di Messina. Nessuno sottolinea mai le valenze simboliche di un progetto che unisca la Sicilia, isola per eccellenza, alla terraferma; il ponte viene considerato un’opera inutilmente dispendiosa e declamatoria (sotto sotto, un po’ fascista), senza alcuna utilità sociale. Le argomentazioni a suo sfavore sono sempre le stesse: prima bisogna sistemare le strade, o fare qualche altra piccola opera di buonsenso, insomma il ponte è fuori scala rispetto ai bisogni concreti e quotidiani della nazione. Intanto, in Corea o in Australia, grandi architetti realizzano grandi progetti, che gli italiani possono ammirare alla Biennale di Venezia.

14 aprile 2004

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