La creatività produttiva
di Paola Liberace
da Ideazione, novembre-dicembre 2004
Dopo la
pubblicazione di The rise of creative class in Italia alla fine del
2003, l’accoglienza delle tesi di Richard Florida nel nostro paese è
stata favorevole e attenta: numerose iniziative sono sorte per
diffonderne le acquisizioni, invitando intellettuali e classe dirigente
a discuterle. Il dibattito che ne è scaturito si è ben presto
concentrato sulla ricerca della “vera” creatività: da un lato gli
strumenti concettuali proposti dal libro sono stati diffusi quasi
fossero slogan (come quello delle “tre T”: talento, tecnologia,
tolleranza); dall’altro il rinnovato interesse per il tema si è tradotto
per lo più in una serie di convegni ed eventi centrati sulla
“riscoperta” dello spirito creativo, sull’interpretazione che ne hanno
dato le diverse discipline. Particolarmente fecondo di queste iniziative
è stato il mese di settembre: dal 3 al 5 la città di Sarzana ha ospitato
il “Festival della mente” (peraltro in linea con il periodo, ormai
segnato indelebilmente dallo svolgimento dei “festival” intellettuali di
fine estate), che in tre giorni si è domandato “come e perché nascono le
idee”; a metà mese, il 16 a Firenze è approdata la mostra itinerante
“Beautiful minds” sui premi Nobel, originariamente realizzata per
festeggiare il secolo dalla prima assegnazione, ma dalle nostre parti è
stata proposta come una finestra su “che cos’è la creatività e come può
essere efficacemente stimolata”.
A fine settembre, Firenze ha quindi inaugurato l’evento “Nuovo e utile –
convegno internazionale sulla creatività e l’innovazione”, in cui
esperti di scienze e di arti sono stati chiamati a dare la propria
risposta alla domanda su cosa sia la creatività. La stessa domanda era
stata posta da una ricerca qualitativa, svolta per il convegno
fiorentino da Eurisko ad un campione di italiani, che in massima parte
si sono rivelati portatori di un’idea “vaga” e “irresponsabile” della
creatività, legata alla genialità, alla fantasia, all’impulsività e
all’estetica. Lo scopo di queste indagini accanite sulla creatività in
Italia potrebbe sembrare, al primo sguardo, un tentativo di proporre una
tesi del tutto nuova, per ribaltare la lettura della situazione
italiana. Al contrario: accettando in linea di massima il lavoro di
Florida, i vari convegni hanno mirato principalmente alla divulgazione
degli aspetti più fascinosi della creatività, fatalmente meno
costruttiva dei concetti di partenza. Se l’obiettivo esplicito era un
brainstorming che lasciasse emergere concetti innovativi, la conclusione
è risultata simile piuttosto a una gara speculativa tra i migliori
cervelli, chiamati a raccolta per escogitare definizioni e citare
modelli esemplari: più simili all’idea disimpegnata della creatività
degli italiani intervistati da Eurisko, che ad una risposta consapevole
all’indagine del docente americano.
Mentre Florida propone un modello, evitando di addentrarsi nella selva
definitoria e insistendo sulla connessione tra creatività e sviluppo, i
convegnisti nostrani hanno spaziato tra mitologia e psicologia,
affascinando le platee, più che articolare un problema e strutturare un
possibile spazio di intervento. In questo quadro, anche la sporadica
comparsa degli economisti si è trasformata nello sforzo acrobatico di
“interpretare” economicamente la creatività, “traducendola” in un ambito
che se ne ritiene solitamente avulso. Se è vero che la creatività ha a
che fare con la novità, ma anche con l’utilità, intesa come
produttività, capacità di generare crescita, non siamo davanti ad un
modo “creativo” di porre la questione. Prendendo sul serio questa
nozione, e accettando di affrontare la domanda sullo stato creativo del
nostro paese, sembra piuttosto che il problema italiano non risieda
nella “mente”, nell’attitudine innata all’invenzione o
all’escogitazione: insomma, nel punto di origine della novità, che non
ha bisogno di una rigenerazione. Piuttosto, la carenza italiana riguarda
le vie che la novità intraprende per diventare effettiva innovazione: da
un lato, la preparazione professionale, attraverso la quale l’intuizione
viene codificata e quindi può essere diffusa; dall’altro,
l’organizzazione imprenditoriale, che costruisce intorno a nuclei di
idee strutture produttive, sostenendo l’innovazione con gli
investimenti. In entrambi i casi, il problema ha a che fare con la
cultura del nostro paese: una cultura che da un lato sottolinea – ancora
nel convegno fiorentino di settembre – la componente “paradossale” della
creatività, quella che vede nelle regole e nelle competenze una barriera
da infrangere – riducendo la formazione alla necessaria conoscenza di
queste regole prima di trasgredirle; dall’altro, esalta la dimensione
artigianale e familiare dell’impresa, nel nome della conservazione di
una “tipicità” del tutto italiana.
Esistono modelli divergenti rispetto a questa cultura? Per rispondere
sarà utile una ricognizione ulteriore sulle aree e le discipline toccate
dagli eventi organizzati sul tema della creatività. Un rapido sguardo
rivela che in tutte le riflessioni recenti è rimasta in ombra la
dimensione dell’industria dell’intrattenimento, alla quale evidentemente
non viene attribuita grande facoltà innovativa, e che pure più di altre
testimonia la connessione tra buone idee, competenza professionale e
imprenditorialità. Nello show business, gli impresari scommettono sulla
capacità di un’intuizione, apparentemente superflua, di cambiare gusti e
costumi della società, generando profitto e quindi sviluppo: in Italia,
questo è accaduto particolarmente per l’industria televisiva, che
sperimenta quotidianamente la possibilità di instaurare un legame
fecondo tra creatività e mercato. Eppure, facendosi strada tra le
affermazioni raccolte dalla ricerca Eurisko, si scopre che la
televisione, quando non è ignorata, è addirittura deprecata, citata ad
esempio della inclinazione italiana verso piccoli miti, presi troppo sul
serio.
Qui non si tratta certo di sostenere una improbabile rivalutazione del
potenziale creativo sommerso nei personaggi – non sempre irrinunciabili
– che popolano le nostre trasmissioni televisive: ma di guardare più a
fondo, al punto in cui queste stesse trasmissioni vengono concepite. A
differenza che in altre realtà “artistiche”, difatti, in televisione le
idee nascono, crescono e si riproducono non solo se sono buone, ma anche
e soprattutto se danno prova di concretezza e di flessibilità nel
contesto. Per condurle a questo esito occorre l’esercizio di un’attenta
professionalità: un esercizio tutt’altro che istantaneo e illuminante
come l’opera di un genio, ma graduale, progressivo, faticoso. In una
simile pratica professionale spesso la creatività non coincide con la
novità tout court, ma con la ricerca, la trasformazione, la
“fabbricazione” di un’idea: un’espressione in apparenza ossimorica, ma
singolarmente appropriata quando si parla di strutture che fanno
dell’intrattenimento un’impresa, senza dimenticare la sua indispensabile
origine immaginifica.
Il caso dei format televisivi
All’interno del mondo televisivo un buon esempio possono fornirlo le
produzioni che inventano, importano e realizzano programmi, format e
prodotti per il piccolo schermo: come Magnolia, che ha firmato
trasmissioni come l’“Isola dei Famosi”, o Einstein Multimedia,
proprietaria tra l’altro di “Passaparola”. Al loro interno non esiste un
processo uniforme e rigido che reca l’etichetta di “creatività”. Le
figure responsabili dell’escogitazione di spunti per nuovi programmi
sono sempre gli autori: ma solo in alcuni casi sono riuniti in una
struttura apposita all’interno dell’azienda. L’idea, racconta Ilaria
Dallatana, co-fondatrice di Magnolia e responsabile della produzione,
può nascere ovunque all’interno della società, in una sorta di
“paternità collettiva”. Altre volte, esiste un vero e proprio
think-tank, che funge da centro aggregatore non solo per le idee
innovative, ma anche per la diffusione di informazioni, notizie e spunti
che possono essere utili a tutte le aree aziendali per produrre
innovazione a loro volta: è il caso dell’“Idea lab” di Einstein
Multimedia, guidato da Varinia Nottoli. Che si tratti di un nucleo ben
individuato o di una realtà più diffusa, il centro delle idee non ha
però a che fare unicamente con la libera invenzione di un programma, ed
il suo compito non si arresta all’annuncio che “l’idea è servita”.
Anzi, la parte più interessante – e più importante – del lavoro comincia
proprio quando arriva il momento di confrontare l’intuizione con la
realtà: con la collocazione in un palinsesto televisivo, con le esigenze
della rete committente, con i gusti del pubblico che probabilmente
visionerà il programma. Molte delle idee che nascono nelle produzioni,
ancorché potenzialmente buone, potrebbero dover aspettare anni prima di
vedere la luce in una realizzazione; altre addirittura non la vedranno
mai, perché non è stato possibile conciliarle con l’effettiva
commerciabilità. Dalla concezione dell’idea comincia quindi un lungo
processo, assolutamente non lineare, di valutazioni successive, un lento
avvicinamento alle esigenze percepite, che continua fino alla messa in
onda del programma. Anche questa è creatività: ma una creatività
“sostenibile”, contrapposta agli esperimenti sconsiderati che, come
afferma Varinia Nottoli, sarebbero inammissibili per il mezzo
televisivo. Per quanto possa sembrare paradossale per la “vulgata” della
creatività, in questo contesto non ha molta importanza se l’idea di base
sia frutto della fantasia originale degli autori, oppure se gli stessi
autori l’hanno scovata in una delle tante fiere di contenuti televisivi
che si susseguono nel corso dell’anno.
Quando si propone ad una rete televisiva un prodotto acquistato
all’estero, le probabilità di successo sono maggiori: non perché il
prodotto sia per definizione migliore, ma perché si hanno più strumenti
a disposizione, come una puntata campione della trasmissione o i dati di
ascolto già ottenuti in altri paesi. Per essere efficace, il
monitoraggio della situazione internazionale richiede curiosità,
sensibilità e una notevole dose di talento per scegliere i format da
opzionare (si chiama così la “prenotazione” per un certo paese e per un
certo periodo di tempo, prima del vero e proprio acquisto). Qualità che,
in una società di produzione, occorrono in misura equivalente, se non
superiore, al caso in cui l’idea viene partorita all’interno. Ma oltre
all’intuito, stavolta occorre anche una indiscutibile professionalità,
che consente di garantire ai distributori di contenuti una
trasformazione sapiente del format, la sua valorizzazione nel nuovo
contesto e un buon risultato di audience: una dote che gli interlocutori
esteri riconoscono alle produzioni italiane. Non tutti i format sono
passibili di adattamento nazionale (nel caso de “Il milionario”, lo show
è stato trasmesso invariato in tutto il mondo): ma laddove è possibile
intervenire, la creatività italiana si distingue, e interviene con
modificazioni che diventano poi un classico. E’ successo per
“Passaparola”, arricchita nel nostro paese di elementi, poi diventati un
cult e riproposti in Spagna, Portogallo e Turchia.
Ancora, è il caso di “Top of the pops”, uno show musicale, rivoluzionato
da un’idea tutta italiana di “trasmissione-mosaico” (in seguito, paesi
come la Germania e la Francia hanno rinunciato a trasmettere il
programma originale di Bbc per seguire il modello “localizzato”
italiano). Se le versioni italiane dei format esteri sono talvolta
migliori dei format stessi, è certamente merito del pubblico: una platea
esigente, abituata a programmi di alta qualità, realizzati – anche nei
dettagli – con abilità superiore (persino le trasmissioni provenienti
dalle nazioni del Nord Europa, che si sono segnalate negli ultimi anni
per l’introduzione di un nuovo linguaggio televisivo, da noi hanno
bisogno di essere in vari punti corrette e riviste, per incontrare il
gradimento dei telespettatori). In definitiva, l’imperativo è lo stesso,
che si tratti di un’idea autoctona o “importata”: badare a chi si parla,
saper comunicare con i propri destinatari, prendere le distanze dal
massimalismo dell’innovazione, lavorando di fino per arrivare
progressivamente a una forma dell’idea proponibile al pubblico. La
“scandalosa” conclusione è che creatività non necessariamente rima con
novità; ma rima sempre con capacità, con gradualità, e anche se non lo
si direbbe, con rigore e lavoro.
Sotto questo aspetto, l’industria dell’intrattenimento mostra – senza
guardare troppo lontano, e senza arrovellarci sulle definizioni – un
buon esempio di come si faccia ad essere creativi, produttivamente
creativi, in un’Italia che ha bisogno di più professionisti (e forse di
meno convegni).
14 aprile 2004 |