Le idee che attraggono i capitali
di Giorgio Capelli
da Ideazione, novembre-dicembre 2004
Il
rallentamento dell’economia e i processi di delocalizzazione delle
attività manifatturiere hanno spinto l’Europa a ripensare le proprie
strategie dello sviluppo. Lo scorso anno il primo ministro francese
Raffarin ha identificato quaranta misure per la crescita, indicando il
miglioramento dell’attrattività come priorità del proprio governo. Già
oggi la Francia è uno dei paesi che attirano un livello elevato di
investimenti stranieri: nel 2003, infatti, è risultata terza nella
classifica mondiale con quasi 47 miliardi di dollari, mentre in Italia
ne sono arrivati poco più di 16. Le misure governative, però, non
puntano in prima istanza a fare aumentare il flusso di investimenti
produttivi, obiettivo poco realistico nel breve periodo, ma a migliorare
la capacità di attrazione dei migliori ricercatori e professionisti.
Sono i potenziali partner per lo sviluppo a cui viene proposto di
trasferirsi oltralpe per le opportunità nella ricerca e nello studio,
per la presenza di istituzioni pubbliche e di un ambiente economico che
facilitano il lavoro e permettono di essere competitivi nell’economia
globale, ma anche per le migliori condizioni di vita e per gli stimoli
culturali che offre il paese.
La localizzazione di capitale umano ad alto potenziale creativo,
infatti, è la condizione indispensabile per un miglioramento della
produttività del lavoro, per l’attrazione dei centri decisionali e degli
investimenti in settori innovativi ad elevato rendimento. I francesi
dunque puntano a garantirsi un futuro di miglioramento continuo del
tenore di vita, facendo aumentare il reddito disponibile per ciascuno,
ma anche valorizzando un tessuto sociale favorevole per i propri
cittadini e accogliente per gli immigrati ad alto potenziale che si
vogliano stabilire dove è più forte la joie de vivre. Questa politica
rappresenta un sostanziale cambiamento di approccio basato sulle nuove
condizioni necessarie per la crescita. A partire dagli anni Novanta, i
modelli produttivi dei paesi avanzati sono evoluti verso la Global
Knowledge Economy. La riduzione dei costi sostenuti per l’elaborazione,
l’accumulazione e la trasmissione delle informazioni hanno fatto
assumere alla conoscenza il ruolo di principale fattore produttivo. La
possibilità di acquisire e trasferire informazioni porta con sé nuovi
criteri di valutazione delle competenze e delle abilità di ciascuna
figura professionale.
In primo luogo la conoscenza per essere scambiata deve essere
codificata, digitalizzata e inserita in network. Questo processo riduce
la rilevanza dei saperi impliciti e non strutturati, vale a dire
l’expertise che nel passato rendeva difficilmente rimpiazzabile ciascun
professionista all’interno di un processo produttivo. Le professionalità
tendono ad essere meno specialistiche o settoriali, figure professionali
che un tempo erano portatrici di un know-how unico e non riproducibile
perdono rilevanza. Di ciascuno, piuttosto, sono apprezzati flessibilità
e spirito di iniziativa. D’altro canto i sistemi produttivi vengono
progressivamente rivisti e adeguati per utilizzare al meglio le
informazioni disponibili e le opportunità di espansione. Ai
collaboratori è richiesta in primo luogo la capacità di associare
diverse aree di competenza, di ridurre la dispersione di conoscenza e di
rendere più rapido il flusso di informazioni, favorendone il ricambio.
Le abilità di ognuno non sostituiscono il flusso di informazioni
disponibili, ma le sono complementari. Non c’è più bisogno di altri Pico
Della Mirandola, ma di altri Cristoforo Colombo, navigatori del web. Non
è un caso che le aziende più competitive siano quelle che riducono
l’investimento necessario per ciascuna quantità di conoscenza prodotta,
realizzano un efficiente sistema di distribuzione e premiano la capacità
di innovazione.
Le abilità professionali più richieste riguardano la selezione delle
informazioni, la loro elaborazione, l’inserimento in network,
l’identificazione di collegamenti tra diversi ambiti disciplinari al
fine di migliorare i processi, in un ambiente segnato da rapidità,
leggerezza e apertura al cambiamento. Nessuno, quindi, può più fare a
meno di una dose di creatività, vale a dire intuito, capacità di
apprendimento e attitudine alla sperimentazione. Una caratteristica che
Henri Poincaré all’inizio del secolo scorso definiva come la capacità di
unire elementi preesistenti in combinazioni nuove che siano utili. I
lavoratori più dotati sono quelli che dimostrano una spiccata capacità
di concettualizzare, ma anche di gestire i rapporti interpersonali e di
comunicare. In genere hanno una mobilità superiore alla media, sono
pochi rispetto alla richiesta delle aziende e dei centri di ricerca, nel
mercato del lavoro hanno un forte potenziale negoziale in quanto,
dovendo scegliere tra molte offerte di lavoro, possono anche stabilire
dove vivere sulla base di criteri differenziati di qualità della vita e
delle preferenze personali.
I creativi del nostro tempo hanno poco a che fare col genio italico di
un Leonardo Da Vinci, sono persone che sanno esprimere il proprio
potenziale in un contesto organizzato e interagendo con molti, vicini o
lontani che siano. Non vivono nei loro studioli, osteggiati da tanti e
apprezzati da alcuni, e non possono in alcun modo permettersi di essere
individualisti. In che modo la creatività favorisce la crescita di un
paese e la sua capacità di competere? Il processo di globalizzazione è
influenzato in misura crescente dalle dinamiche micro-economiche
derivanti dalla strategia di ciascuna azienda, rispetto ai fenomeni
macro-economici che in passato rilevavano maggiormente. I vantaggi
comparati di ciascun paese non possono essere misurati complessivamente,
ma vanno esaminati singolarmente rispetto alle caratteristiche di
ciascuna azienda. I paesi sviluppati non riescono più ad attrarre nuove
aziende facendo leva su bassi costi di produzione, ovvero sulla
disponibilità di nuovi mercati di sbocco per prodotti e servizi
tradizionali e standardizzati.
Come la Francia sta già facendo negli ultimi tempi e come gli Stati
Uniti d’America hanno sempre fatto, i paesi occidentali possono puntare
esclusivamente sulla presenza di strutture che producono ricerca e
innovazione e sulla disponibilità di capitale umano di eccellenza. A
partire da questi punti di forza, intercettano i flussi di capitale per
nuovi investimenti. Il rallentamento della crescita dell’economia
mondiale degli ultimi tre anni ha provocato una riduzione rilevante
degli stessi investimenti internazionali, rendendo più aspra la
competizione tra territori. Le uniche eccezioni sono l’Asia e l’area del
Pacifico che hanno beneficiato della delocalizzazione di produzioni
manifatturiere. La forte competizione internazionale, infatti, ha
favorito i paesi in cui il basso costo del lavoro ha portato una forte
riduzione dei costi di produzione di beni tradizionali. Le prospettive
per i prossimi due anni sono rosee per la Cina che è diventata il primo
paese di destinazione di investimenti, ma anche per India e Tailandia.
L’Unione Europea, dal canto suo, ha conosciuto un declino degli
investimenti pari al 21 per cento nel 2003, mentre Usa, Francia e Gran
Bretagna hanno continuato ad essere i maggiori investitori all’estero.
Il trend generale che vede il settore industriale ridursi a favore di
quello dei servizi, ha portato a variazioni sensibili nell’allocazione
dei capitali. Dal 1990 al 2002 si è verificata infatti una forte
contrazione degli investimenti nel settore manifatturiero (dal 44 per
cento degli investimenti all’estero al 29 per cento) a vantaggio di una
altrettanto rapida crescita nei servizi (dal 47 per cento al 67 per
cento). Le aree di maggiore concentrazione degli investimenti nel
terziario sono gli Usa e l’Europa che sono anche i mercati di sbocco
ideali. L’aumento degli investimenti in servizi deriva in primo luogo
dalle liberalizzazioni dei settori dei trasporti, dell’energia, delle
comunicazioni e di altre public utilities e dalla crescita della domanda
di servizi che necessariamente devono essere prodotti in loco. Tra
questi ultimi vi sono, oltre ai servizi liberalizzati di cui si è detto,
anche buona parte dei servizi finanziari, dei servizi alla persona e
alle imprese. Va detto, comunque, che l’ambito dei servizi non
esportabili si sta riducendo. Lo sviluppo delle tecnologie
dell’informazione rende possibile sempre di più la produzione di servizi
lontano dai fruitori e la loro vendita all’estero, come dimostrato da
numerosi processi di outsourcing. Gli esempi al riguardo vanno dalla
vendita di prodotti finanziari allo sviluppo di software, dai call
center alla gestione delle risorse umane, fino ai casi più recenti di
servizi sanitari, come le analisi del sangue che alcuni ospedali inglesi
hanno affidato a laboratori indiani.
Mentre le scelta della localizzazione delle produzioni manifatturiere
viene fatta tenendo conto della disponibilità di infrastrutture, del
costo dei fattori produttivi e del livello della tassazione, la
disponibilità di capitale umano, invece, diventa fondamentale per le
produzioni ad elevato contenuto innovativo e per la produzione di
servizi. In entrambi i casi i paesi che riescono ad attrarre
investimenti ottengono anche una migliore dotazione di tecnologia. Per
le produzioni industriali si esporta soprattutto hard technology, cioè
impianti e attrezzature, mentre per i servizi è preponderante il
trasferimento di soft technology, cioè know-how, informazione, tecniche
manageriali e di marketing, capacità tecniche e organizzative, eccetera.
Si viene a creare così un circolo virtuoso per i paesi che riescono ad
attrarre investimenti in servizi o in ricerca e sviluppo, grazie alla
presenza di risorse umane di alta qualità. Queste aree geografiche,
infatti, attraverso gli stessi investimenti che vi si concentrano
ottengono un’ulteriore crescita delle risorse umane, formate dalle
aziende straniere presso cui sono occupate o impiegate in aziende
fornitrici.
I paesi che rimangono tagliati fuori, invece, rischiano di essere
strutturalmente esclusi dai processi di innovazione finendo così
marginalizzati. La scarsa disponibilità di capitale umano di qualità
costringe in molti casi a competere, puntando sull’abbattimento dei
costi, su bassi livelli salariali e su limitate protezioni sociali. Per
i paesi in via di sviluppo, la disponibilità di manodopera a basso
costo, da impiegare nelle imprese industriali, rappresenta un importante
fattore competitivo. Se si considerano i paesi con elevato reddito
pro-capite, l’impoverimento professionale dei lavoratori, ovvero la loro
inadeguatezza a prendere parte ai processi produttivi della società
della comunicazione, provoca conseguenze negative per tutta la
popolazione. Le aziende strategiche per il sistema produttivo declinano,
si ripiega su settori a basso valore aggiunto, l’inflazione limita il
potere di acquisto, il prodotto interno cresce meno che altrove o,
addirittura, ci si avvia verso la recessione. Questo rischio viene di
frequente paventato per l’Italia la cui fama di patria di creatività sta
subendo un rapido declino, pur in presenza di casi di eccellenza tra i
ricercatori o relativi a innovazioni aziendali di successo.
La mancanza di istituzioni pubbliche e private in grado di stimolare,
valorizzare e premiare il potenziale creativo di ciascuno produce, per
un verso, l’allontanamento o lo scarso utilizzo dei talenti e, per
l’altro, un generale impoverimento del sistema sociale ed economico.
Secondo recenti statistiche il nostro paese è, ad esempio, al
venticinquesimo posto per spesa in ricerca e innovazione, al
ventiquattresimo per le condizioni ideali di business, al trentesimo per
la diffusione dei computer, al venticinquesimo per reddito pro-capite,
al ventesimo per qualità della vita. La fuga di cervelli, talvolta
additata come una delle cause principali del declino, per la sua
dimensione statistica non rappresenta il problema di massima urgenza.
Ben più grave è, ad esempio, lo scarso appeal delle università italiane
per i ricercatori stranieri. Tra i dottorandi di ricerca solo l’uno per
cento viene dall’estero (per un totale di 150) rispetto al 34 per cento
della Gran Bretagna (25.500), al 18 per cento della Danimarca (690) e al
12 per cento della Spagna (8.100). Molto bassa è anche l’attrattività di
lavoratori stranieri ad alto potenziale in ambito scientifico o
tecnologico, solo l’1 per cento del totale viene dall’estero (dato
riferito al 1998), contro il 5,6 per cento del Belgio (nel 2002), il 4,5
per cento della Gran Bretagna (1998), il 4,2 per cento della Germania
(2002), il 2,9 per cento della Francia (2002), l’1,4 per cento della
Spagna (2002).
Professionisti flessibili e innovativi necessitano, del resto, di forti
investimenti in istruzione e formazione. Le statistiche socio-economiche
non riescono a fotografare con precisione il potenziale del capitale
umano in termini di conoscenza, abilità e competenze. Ciononostante
alcuni indicatori disponibili fanno ritenere che anche su questo
versante l’Italia sia nettamente indietro rispetto a molti paesi
europei. Nella fascia di età compresa tra 25 e 64 anni i laureati
rappresentano ben il 37,4 per cento negli Usa, il 35,5 per cento in
Irlanda, il 25,9 per cento in Gran Bretagna, circa il 23 per cento in
Spagna e Francia e in Italia soltanto il 10 per cento, un punto di
percentuale in più rispetto alla Turchia. Di conseguenza sono pochi i
nostri occupati in possesso di laurea (6,4 per cento) rispetto
all’Irlanda (20,2 per cento), agli Usa (18,4 per cento) alla Spagna (15
per cento) e alla Francia (13,1 per cento). Inoltre, la spesa pubblica
italiana per gli studi universitari di ciascun laureato nel 1999 è stata
pari a 7.500 dollari, mentre la spesa complessiva (pubblica e privata)
in Francia era di 7.900, in Gran Bretagna 9.500, in Olanda 12.300, negli
Usa addirittura 19.200. Visto il ruolo rilevante delle risorse
professionali per la localizzazione degli investimenti, non sorprende la
limitata capacità di attrarre investimenti da parte dell’Italia (la
media annuale tra il 1994 e il 2001 è stata di 6,5 miliari di dollari),
a differenza di paesi con una migliore offerta di lavoratori, quali ad
esempio la Gran Bretagna (55,6 miliardi di dollari), la Francia (32), la
Spagna (14,3) e l’Irlanda (8,7).
“L’avvento dell’era del capitale umano – scrive l’economista
californiano De Vol – fa sì da un lato che le aziende considerino la
conoscenza come fondamentale mezzo di produzione, dall’altro che si
stabiliscano lì dove la qualità della vita possa essere un fattore
determinante per attrarre le risorse umane necessarie. Così i territori
in grado di attrarre lavoratori ad alto potenziale determinano il
successo economico di intere regioni”. Fino a quando l’economia era
basta sulla crescita del settore industriale gli sforzi erano
concentrati sull’attrazione degli investimenti, grazie ai quali venivano
creati nuovi posti di lavoro. Nella società della conoscenza in cui
viviamo ogni paese e ciascuna regione deve preoccuparsi di formare e di
attrarre lavoratori creativi, gli investimenti produttivi arrivano di
conseguenza. Il benessere di un popolo è determinato all’innovatività di
ciascuno, dalla capacità di accrescere e valorizzare il potenziale delle
persone, dall’apertura verso risorse umane di qualità. Alla classe
dirigente spetta il compito di creare le condizioni perché questo possa
avvenire.
14 aprile 2004 |