Creatività, il deficit dell’Italia
intervista a Irene Tinagli di Paolo Bracalini
da Ideazione, novembre-dicembre 2004

Scandinavia, terra di creativi. E chi l’avrebbe mai detto che tra i fiordi le idee fioccassero molto più che nel “bel paese là dove ’l sì sona”. Il paese della Ferrari e Pininfarina, di Gucci, Armani e Prada, del design e dell’artigianato, dei poeti e degli inventori, il popolo genio e sregolatezza, da Michelangelo a Roberto Baggio, il paese dall’intuito inefficiente e un po’ ciarlatano ma creativo, come i suoi treni dall’orario variabile o il codice della strada a Napoli, contro la rigidità nordica, si fa bagnare il naso dal resto d’Europa. La classifica è di quelle in cui ti aspetteresti di trovare proprio l’Italia al primo posto, o almeno sul podio. E invece no, peggio di noi, solo Grecia e Portogallo. Classifica di cosa? Creatività. Lontanissimi da Norvegia, Svezia, Danimarca, imbattibili soprattutto nei brevetti tecnologici, sotto la Francia, la Germania, la Gran Bretagna, molto dietro la Spagna, l’Olanda, la Finlandia, niente a che vedere nemmeno con l’Irlanda, il Belgio. E anni luce dall’America. Tredicesimi su quindici. Ma che fine ha fatto la creatività italiana? Poche idee?

Non sembrerebbe questo il problema. La creatività c’è ancora, ma non ha le spalle coperte da una borghesia capace e illuminata, da un’industria dinamica che scommette sul nuovo, che ha il coraggio di mettere in gioco l’oggi per il domani. Quella che Richard Florida, guru delle strategie competitive (insegna Teoria dello sviluppo alla Carnegie-Mellon University di Pittsburgh) chiama “la nuova classe creativa”, in Italia ha il fiatone ancora prima di nascere. Altrove questa categoria comanda, e tiene le redini dell’economia. Una nuova classe sociale che si distingue dalle altre per la capacità di offrire innovazione, portare idee e contenuti dirompenti nelle tradizionali organizzazioni produttive. E per questo sta diventando sempre più una risorsa fondamentale per le imprese che vogliono sopravvivere e vincere la competizione economica globalizzata, e che sempre di più tendono a spostarsi nei centri dove la classe creativa si concentra e prospera.

Nel suo L’ascesa della nuova classe creativa (Mondadori, 2003) Florida descrive questa tendenza, un fenomeno che “sta ridisegnando il nostro futuro”, dice. La sezione iniziale è dedicata all’Italia nell’era creativa. L’indagine è stata curata da Irene Tinagli, ricercatrice nella stessa Università di Pittsburgh, passata prima dalla sua Toscana a Milano per laurearsi e completare un master alla Bocconi, e poi da Milano agli States. Un esempio in carne e ossa delle teorie che studia e degli scenari che illustra con grafici e tabelle. Un cervello in fuga, lei, che dice “io non tornerei mai in Italia”. Altro che paese dei creativi. Sia secondo le loro misure, basate sulla spesa in ricerca e sviluppo, sul numero di brevetti e sulle innovazioni tecnologiche, sia secondo l’indice di innovazione di Michael Porter (Harvard University), l’Italia è sempre in una pessima posizione per quanto riguarda la creatività. I risultati sono tutt’altro che incoraggianti.

Irene Tinagli, perché andiamo così male?

Uno dei fattori che più conta riguarda la quota di investimento in ricerca e sviluppo, una delle più basse in Europa. Bisogna poi sottolineare che quel poco di ricerca che si fa in Italia è più che altro pubblica, sotto forma di programmi di formazione, e non ricerca vera e propria, cioè ricerca applicata. Colpa dell’industria, che in Italia non investe niente nella ricerca scientifica. Anche il settore pubblico investe poco rispetto ad altri paesi, ma l’industria è particolarmente bassa. Questo è il dato più preoccupante. Senz’altro, si spiega anche con la particolare struttura dell’industria italiana, fatta di imprese medio-piccole, incentrate su produzioni tradizionali. Per le piccole imprese, spesso a conduzione familiare, è più difficile anche culturalmente puntare sulla ricerca e sull’innovazione. Questo però non significa certo che vada bene così. Quando mi capita di parlare con imprenditori o politici italiani la risposta è sempre la stessa: “l’Italia è fatta così”, ma che vuol dire? Si può anche cercare di farla crescere.

Poca ricerca, e pochissimo interesse per la ricerca da parte del mondo produttivo, dell’industria. L’opposto di quel che succede negli Usa, dove la ricerca è pagata a suon di dollari dalle industrie che nella creatività vedono la migliore arma per vincere la competizione industriale e commerciale. Lei di questo modello ha un’esperienza diretta.

Sì, negli Stati Uniti c’è una cultura completamente diversa rispetto a quella italiana. Ci sono molti investimenti dello Stato federale, c’è la “National Science Foundation” per esempio, che distribuisce moltissimi fondi per la ricerca, erogati in maniera mirata, per progetti specifici. Quindi ci sono anche dei criteri di distribuzione trasparenti, una selezione dei progetti e una chiara idea su come investire. La risorse sono un aspetto fondamentale della crisi o dell’ascesa della classe creativa. Ma prima di tutto servono i talenti.

Appunto. Pensa che in Italia non ci siano più talenti?

Mi lasci partire da una considerazione metodologica. Nell’elaborare le nostre classifiche abbiamo raccolto informazioni su tre parametri principali: la tecnologia, il talento e la tolleranza. Sulla tecnologia abbiamo riscontrato, rispetto agli altri paesi, questo enorme ritardo a investire in innovazione tecnologica, nel pubblico ma soprattutto nel privato. Ma ci sono forti carenze anche negli altri due indicatori. Sul talento, l’impressione che ho è che ci sia una creatività, specialmente legata al design, alla qualità, al lusso, ma è stata forte in periodi in cui bastava l’intuito, la creatività a livello artigianale. Oggi purtroppo la creatività va accompagnata ad una altissima professionalità, a un bagaglio di conoscenze forti. Sia in campo tecnologico e scientifico, sia nel marketing che nell’organizzazione aziendale. E quindi c’è bisogno di preparazione e professionalità, cosa che a noi manca. L’Italia ha una percentuale molto bassa di laureati rispetto agli altri paesi europei. Non voglio dire che chi ha tanti laureati abbia necessariamente più spinta economica. Però è indicativo di una situazione di ritardo culturale del paese che si riflette pesantemente anche sull’economia. Per esempio, i nostri imprenditori hanno un livello di istruzione mediamente molto basso, per cui anche culturalmente, oltreché dal punto di vista manageriale, per la nostra classe imprenditoriale è più difficile tenere il passo con le innovazioni tecnologiche che si fanno all’estero. Perché c’è più diffidenza, paura e meno conoscenza. Questo è un freno. C’è una creatività, ma manca il salto di qualità, manca una professionalità creativa. Basta osservare un semplice indicatore occupazionale, per vedere quante persone in Italia svolgono lavori “creativi”, quindi manager, avvocati, artisti, scienziati, architetti, ricercatori, persone pagate per pensare e creare soluzioni. Ecco, questi profili professionali, che nel resto dell’Europa rappresentano il 25-30 per cento dell’occupazione, in Italia rappresentano solo il 12 per cento. Questo dipende da molti fattori. Anche dalle particolarità del mercato del lavoro italiano, per cui abbiamo degli ingegneri che fanno il lavoro degli impiegati. Insomma, c’è poco spazio per la creatività.

Siamo anche il paese della burocrazia, che privilegia chi esegue invece di chi crea e rompe le regole. E’ d’accordo?

Non abbiamo fatto uno studio specifico sulla burocrazia, ma qualcosa su questo emerge passando dal talento alla tolleranza. Nei sondaggi dell’Eurobarometro è emerso che gli italiani hanno un buon punteggio nella tolleranza delle minoranze. L’Italia è poco tollerante da un altro punto di vista. Bisogna fare riferimento agli indicatori presi in considerazione da un rapporto dell’Università del Michigan: l’attaccamento a valori tradizionali, ma in una accezione negativa del termine, cioè come chiusura verso la novità, e poi il valore dato da un paese alla self expression, cioè all’estro individuale, alla capacità di esprimere giudizi critici e indipendenti, di staccarsi un po’ dal gruppo. è in questo che andiamo male.

Il paese con la borghesia più ottusa e conformista, come pensava Orson Welles dell’Italia?

Beh, diciamo che è un paese in cui si fatica molto a valorizzare l’espressione individuale, a vederla come un valore positivo, ad apprezzare la dialettica e la differenza di opinioni. Si apprezza molto di più l’ubbidienza a certe regole, che non la capacità di fare qualcosa di diverso e di distinguersi. In questi due valori siamo molto bassi. Probabilmente nell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta c’era più dinamismo, più voglia di fare e di crescere, anche nelle cose creative, nell’arte, nel cinema, più apertura verso il nuovo. Nell’Italia di oggi invece c’è più paura, più prudenza. è così negli uffici, nelle aziende e nelle università.

Le università italiane, appunto. Dove si forma la nuova classe dirigente, la cultura è burocratizzata, lo studio una pratica da impiegati. Come potrebbe mai uscire una classe creativa da una università di questo tipo?

Credo che l’università sia un nodo cardine dei moderni sistemi economici. Avere una università che funziona bene, che funga da traino per l’innovazione sarebbe veramente fondamentale. Il ruolo centrale dell’università è emerso moltissimo per esempio negli Stati Uniti. E’ ovvio che non è l’unico fattore, l’università deve poi incontrare una società dinamica, un mondo industriale e produttivo che sia ricettivo all’innovazione e alle idee che escono dai centri di ricerca. Ma un’università che produca davvero conoscenza è un elemento indispensabile per creare davvero le condizioni di una società creativa, e quindi produttiva anche dal punto di vista industriale. Le due cose sono collegate in modo strettissimo. Credo che in Italia ci siano due tipi di ostacoli a questo. Uno è un funzionamento interno altamente disfunzionale e quasi patologico, l’altro è il problema delle poche risorse. Rispetto al primo punto, abbiamo l’illusione del “megaconcorso” pubblico nazionale, ma è solo un’illusione. Perché poi si sa che ci sono dei meccanismi per cui passano solo certi tipi di candidati, quelli interni sponsorizzati da un professore.

Negli Stati Uniti?

Anche in America i professori si scelgono chi vogliono, non è questo il problema. E’ normale che i professori indichino le persone con cui vorrebbero lavorare, i migliori secondo loro. Ma questo in Italia viene fatto con criteri del tutto arbitrari. Negli Usa invece la cosa è diversa perché quando una università cerca un professore mette un annuncio, tutte le persone che sono interessate fanno domanda, mandano il loro curriculum, e il dipartimento seleziona quelli che ritiene più interessanti. Anche sulla base delle raccomandazioni, nel senso che se uno studente ha lavorato con un professore molto famoso e stimato e questo professore scrive una lettera di presentazione, questa raccomandazione pesa. Poi i candidati vengono chiamati e viene scelto quello più bravo. Ma perché questo sistema funziona splendidamente? Perché le università hanno un fortissimo incentivo ad assumere i migliori.

Ma anche qui dovrebbe essere così. O no?

Sì, dovrebbe, ma non è affatto così. Perché lì i ricercatori, o i professori associati, non hanno un posto a vita, che mantengono anche se vivacchiano su quello che hanno già fatto o se addirittura non fanno quasi più nulla. Ogni tre anni, i professori hanno una review, un esame, che valuta il lavoro fatto. E il posto viene riconfermato solo a chi ha svolto un buon lavoro, ha prodotto. E naturalmente questo dipende anche dalle persone con cui si lavora. Se hai aiutato ad assumere quelli bravi è più probabile che tu riesca. Tutto questo incide poi sull’altro aspetto, quello delle risorse. Quando le università fanno domanda per ottenere dei grant, cioè dei fondi per la ricerca, se hanno un buon prestigio, un buon nome e un corpo docenti con dei bei profili, aumentano moltissimo le possibilità di ricevere i soldi. Quindi, le università americane hanno tutto l’interesse a promuovere la qualità invece che il nepotismo. E infatti i risultati si vedono.

I ricercatori italiani, invece, aspettano il concorso che li regolarizzi e li metta a posto per il resto della vita. C’è insomma, in Italia, poca voglia di rischiare da parte della classe creativa, e molta voglia di assistenzialismo e di Stato. E’ così?

Sicuramente. Se posso ancora fare l’esempio degli Stati Uniti, lì moltissimi ricercatori vengono invece assorbiti dall’industria, e non aspettano l’assunzione dall’università. E l’industria, grazie al loro apporto, produce moltissima innovazione negli Stati Uniti, soprattutto tecnologica. Da noi questo manca completamente, abbiamo poche aziende che fanno ricerca. C’è qualcosa alla Fiat, all’Eni. Ma sono poche quelle che investono in ricerca e assorbono i creativi. L’università non può certo assorbirli tutti. Il problema dell’università italiana è un problema di regole interne, di governance interna, oltre che di risorse come dicevamo. Non è immaginabile che un ricercatore prenda seicento euro al mese. Io non tornerei mai in Italia, anche se cambiassero le regole. E non sono certo l’unica a pensarla così. Secondo una statistica dell’Ocse, il nostro paese risulta una delle mete meno preferite da studenti e studiosi stranieri. Se si crede che le persone creative, persone che hanno investito tutta una vita in istruzione e crescita, siano importanti per la società, bisogna dare loro anche una dignità. Certo, bisogna fare in modo che siano selezionati, ma poi anche pagarli di conseguenza.

Nel libro descrive come, negli altri paesi, la classe creativa non solo non sia sottopagata e male utilizzata, ma addirittura guidi l’economia.

Negli altri paesi c’è maggior spazio per questa professionalità, che quindi ha un peso di molto maggiore. Il nostro è un paese fortemente caratterizzato da un tipo di economia tradizionale e da figure professionali tradizionali. Se si vanno a vedere le classifiche occupazionali dell’Italia, si vede che è un paese prevalentemente di piccoli commercianti, impiegati e imprese a dimensione familiare che non danno spazio a figure professionali creative, sia per problemi economici che culturali. Da noi anche le imprese che potrebbero dal punto di vista economico ingrandirsi e professionalizzarsi fanno fatica a superare la cultura del familismo. Anche alla Parmalat c’erano figli e cugini. Sono poche le imprese italiane che si aprono e chiamano manager stranieri, da fuori, cercando di modernizzarsi da un punto di vista di profili professionali creativi.

In molti casi, per modernizzarsi, occorre un piccolo viaggio. Quello che porta le imprese dalla provincia alla città. E’ così?

Sì, anche in Italia si assiste sempre di più a questo fenomeno, quello di imprese operanti nel settore della moda, del design o di Internet che nascono in provincia ma che in seguito decidono di spostare i loro uffici e i loro showroom in città come Milano, per esempio, dove possono essere in contatto con le ultime tendenze e avere la possibilità di attirare più facilmente designer, finanziatori e manager di alto livello. Queste imprese hanno bisogno di centri vivi, dove ci sia forte fermento di idee e di talenti, per poter mantenere alti i livelli di innovazione e competitività. Altrove questo fenomeno si riscontra in maniera più marcata, ma anche da noi c’è questa tendenza. C’è un forte bisogno – latente – di dare più spazio alla classe creativa, far circolare più liberamente le nuove idee. Cose che da sempre si trovano più nelle città che in provincia. E’ fondamentale il ruolo delle città di creare ambienti sociali, culturali, economici e produttivi che siano stimolanti e interessanti, ricchi anche di diversità. Perché l’impresa esposta a tutto quello che può essere nuovo, non solo nel suo settore ma anche in campi affini, nella comunicazione o nel marketing, o in nuove tendenze complessive, certamente ha dei vantaggi. Ci sono aziende italiane che si muovono bene, in maniera dinamica. Ma sono poche. E’ necessario capire che bisogna uscire dal provincialismo e aprirsi al mondo.

Ma non c’è il rischio di perdere l’autenticità del made in Italy, da sempre legato a realtà produttive e aziendali di tipo familistico? Non crede ci sia anche un aspetto positivo nel restare legati alla tradizione, e in un certo senso anche al provincialismo (quello di Maranello, per esempio)?

La Ferrari è certamente legata alla tradizione, ma non mi sembra affatto provinciale. Credo che l’autenticità si possa anche mantenere nel rinnovamento continuo, nell’innovazione. Le idee, nate nel seno di una tradizione radicata in un territorio, poi si possono espandere con dei metodi più moderni. Se si crea l’immagine della qualità, del paese del lusso e del design, non è necessario che sia il design artigianale tipo il primo abito di Valentino, si può evolvere lasciando integro il nocciolo legato al design e alla qualità. Quello che prima poteva essere l’osteria o la cantinetta sporca di paese: magari il prodotto rimane lo stesso, improntato agli stessi criteri di tipicità, però si accompagna ad un cambiamento della mentalità, del modo in cui si presenta il prodotto, lo si commercializza magari fuori dall’Italia, del modo in cui si crea anche un’immagine. Oggi è così, bisogna aprirsi verso l’esterno.

A proposito di mentalità. Lei sottolinea la presenza di un atteggiamento assistenzialista verso le imprese. Non si aiutano cioè le aziende che vanno bene, ma quelle che vanno male, per salvare i posti di lavoro. Non è anche questa una cultura che penalizza la creatività?

Sicuramente. C’è spesso la tendenza in Italia a difendere e giustificare quello che c’è, e un’incapacità ad immaginare quello che potrebbe esserci. Capisco sia importante, soprattutto in momenti come questo, anche la difesa dei posti di lavoro tradizionali. Però non ci si rende conto che certe volte i tentativi esasperati di difendere le cose che funzionano male, preclude la possibilità di dare spazio a quelle che magari potrebbero funzionare bene, e quindi in prospettiva potrebbero creare molto più benessere e posti di lavoro di quelle vecchie aziende che continuiamo a difendere. Mi riferisco a situazioni generali. Con la contrazione della domanda molte piccole aziende fanno fatica, tutti si preoccupano di come salvarle dal tracollo. Ma quando ci sono scosse nell’economia globale, crisi così grosse e prolungate, è difficile pensare di salvare imprese di questo tipo. Se sono in difficoltà è perché non sono riuscite a essere competitive. Ma se si avesse la capacità e il coraggio di guardare più in là delle specifiche aziende, alle potenzialità di un territorio, di una città o di un paese nel suo complesso, si capirebbe che magari non si riesce a salvare queste vecchie realtà, ma si può creare qualcosa di nuovo, che forse ci tirerà avanti nei prossimi anni. Ecco, a volte manca anche una creatività politica. Perché è molto più comodo cedere alle pressioni di oggi, che avere il coraggio di fare qualcosa che si avvererà solo domani.

14 aprile 2004

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