Storace, la rivincita di Governator
di Cristiana Vivenzio
da Ideazione, marzo-aprile 2005
Chissà se Lucio Colletti girerebbe ancora le spalle come faceva cinque
anni fa alla sola vista dei manifesti di Francesco Storace che
tappezzano le strade di tutta la sua Regione. Oggi forse, i tanti che,
come il filosofo romano, allora guardavano con diffidenza alla
candidatura del politico ciociaro, hanno messo da parte l’antico
scetticismo, dimostrando a “Governator” più di un sostegno formale.
Certo, cinque anni fa la situazione era molto diversa. Storace
rincorreva a lunga distanza Piero Badaloni, un divario troppo
consistente (più del venti per cento), anche solo per immaginare la
sconfitta di uno dei presidenti di Regione più evanescenti di tutti i
tempi. Eppure Storace vinse, 51 a 46. E in quell’occasione la vittoria
personale fu anche la riuscita di un esperimento politico. Un
esperimento che dimostrava in primo luogo che grazie alla capacità di
suscitare una forte mobilitazione popolare intorno ad un candidato come
lui (nonostante lo scetticismo dei suoi critici, non pochi all’interno
della stessa CdL) si vince, ma soprattutto che confermava la forza della
destra nel Lazio quando riesce a porre il confronto politico su un piano
più esplicitamente “populista”. Non solo quindi la conquista di Roma e
dei suoi “quartieri-bene” (dove Alleanza nazionale era già partito di
maggioranza relativa), ma anche delle borgate popolari e dell’intera
provincia laziale, nel pieno rispetto di una tradizione di lungo corso
propria di un partito fatto di militanza all’eterna opposizione. Cinque
anni più tardi, con l’esperienza di governo alle spalle, pochi punti di
vantaggio su Piero Marrazzo e la minaccia di Alessandra Mussolini che
incombe, ma che pare non impensierirlo più di tanto – dal momento che
fino all’ultimo non ha mai cercato un accordo diretto con la vecchia
compagna di partito – Storace si ripresenta di fronte all’elettorato,
lanciando un’altra sfida. Questa volta, come per lo più avviene nelle
riconferme, prevalentemente al suo operato e a quel “modello Lazio” che
lui stesso ha impersonificato. Apparentemente sprezzante di un potere
che oggi c’è e domani potrebbe essere affidato ad un altro, tipico
atteggiamento di chi conosce a fondo la politica e i suoi meccanismi,
Storace sta affrontando questa campagna elettorale come fece nel 2000,
senza risparmiare un colpo, e questa volta nemmeno un centesimo.
Probabilmente ancora scotta la bocciatura di Silvano Moffa, “uno dei
suoi”, alle Provinciali del 2003, e non solo scotta al governatore ma a
tutta An, che in questa occasione non si può dire abbia fatto mancare il
suo appoggio al presidente uscente. Pesano ancora gli effetti
dell’astensionismo del 2003 degli elettori di An nei quartieri della
Roma bene: alla Balduina e Trieste, al Salario, sulla Cassia, che hanno
fatto perdere ad An il primato nella Capitale; pesa eccome la sconfitta
dei Parioli, il crollo della super-residenziale Olgiata; si fanno ancora
sentire le ferite di una campagna elettorale giocata per metà,
all’ultimo momento, sotto i colpi di un governo di centrodestra troppo
poco di destra, scarsamente attento alle richieste provenienti
dall’altra sponda del Tevere, eccessivamente esposto alle interferenze
della Lega sulle “questioni nazionali”, troppo miope sulle questioni
sociali.
Da qui la necessità di recuperare le posizioni del passato, riproponendo
un modello politico che Storace impersonifica da governatore, e che si
riassume nelle posizioni della sua corrente, “Destra sociale”,
all’interno del partito: un modello che concilia attenzione al sociale e
identità nazionale, solidarietà e sussidiarietà, conservatorismo e
mobilitazione popolare. Del resto questa linea politica – che nei fatti
è tradotta in una serie di attività sociali volte a favorire
l’integrazione degli immigrati; incrementare le iniziative in favore
dell’infanzia; valorizzare il patrimonio di risorse umane costituito
dagli “over sessantacinque-settanta”; potenziare le politiche di
sostegno alle famiglie e favorire l’istruzione privata – ha permesso al
governatore laziale di giocarsi una carta politica vincente (e
convincente), nei confronti di quel mondo cattolico la cui
«sottovalutazione nel passato ha avuto conseguenze devastanti» per i
consensi elettorali.
Naturalmente le elezioni sanzioneranno torti e ragioni. Ma questa volta
– sembra aver pensato il governatore – nulla vi dev’essere di intentato.
A ciò dovrebbe valere la campagna di comunicazione istituzionale ai
cittadini sugli obiettivi raggiunti dall’esecutivo in questi anni di
governo regionale, per la quale il governatore può vantare un record
nazionale di spesa pari a 10 milioni di euro nel 2004 e altrettanti per
il 2005 (record che, era prevedibile, ha suscitato le più animate
proteste dell’opposizione).
Certo è che nel bene o nel male, di Francesco Storace tutto si può dire
tranne che non abbia fatto o non faccia parlare di sé. E in questi anni
lo ha fatto sia da governatore di una delle regioni più complesse
d’Italia, sia da politico all’interno del suo partito (ma anche
all’interno della stessa coalizione di centrodestra). Ha fatto parlare
di sé essendo lui stesso per primo un efficace comunicatore, retaggio di
un passato da giornalista; per il suo modo di porsi nei confronti della
gente («provate a scrivere a Storace – ci è stato suggerito – con ogni
probabilità risponderà lui stesso!»), più incline alla battuta
strappa-risata che al colpo di fioretto politico; ha fatto parlare di sé
per non averne fatte passare molte ai suoi nemici politici (ma nemmeno
agli amici).
Una cosa però bisogna ammetterla: che il Lazio non ha mai goduto di
tanta visibilità come in questi anni di governo di centrodestra. E
questo non solo per la naturale evoluzione di un sistema federale che
indubbiamente ha riportato alla ribalta le istituzioni regionali in seno
allo Stato, ma anche per la capacità di questo governo regionale di non
schiacciare a quanto avviene o si decide nella sola Capitale la varietà
e la ricchezza di un territorio tanto vasto. Del resto, Francesco
Storace è uno che non dimentica le sue origini ciociare e non tradisce
la sua identità laziale (inteso, si badi bene, come della Regione Lazio:
guai a confondere la politica con il calcio).
E poi vengono i risultati, forse vantati con un eccesso di ridondanza:
118mila nuovi posti di lavoro creati in un anno (un numero strabiliante
se si considera che rappresenta addirittura il 72 per cento del totale
italiano); l’incremento del 4,5 per cento dei flussi turistici diretti
nel Lazio; l’inaugurazione del primo tratto della Tangenziale dei
Castelli romani; l’avvio del progetto per la costruzione del Corridoio
tirrenico meridionale; l’apertura di nuove strutture ospedaliere e di
nuovi reparti specializzati in tutto il Lazio.
Che non sia tutto oro quello che luccica, la politica lo ha dimostrato
da tempo. Ed anche un percorso lastricato di ottime intenzioni trova
ostacoli a volte insormontabili, si scontra con la dura realtà dei fatti
pregressi, dei diritti acquisiti, di situazioni oramai sclerotizzate da
decenni. Per questo ancora moltissimo resta da fare. Basterebbe guardare
appena alla situazione sanitaria, tasto dolente di quasi tutte le
regioni d’Italia, per capire la pressante necessità non solo di dare
nuovo impulso al risanamento di un debito regionale ereditato da una
gestione a dir poco disastrosa del passato (un ammontare per lo più
finanziato attraverso le cartolarizzazioni di immobili regionali), ma
anche di rendere pienamente funzionanti le iniziative avviate in questi
anni. Dall’Ares, l’Agenzia regionale per le emergenze sanitarie, che
regolamenta il 118-emergenze coordinando gli accessi al pronto soccorso,
al Recup, il centro unificato per le prenotazioni regionali, per ovviare
alle estenuanti liste d’attesa sanitarie, solo per portare alcuni
esempi. O basterebbe dare uno sguardo a quanto avviene all’interno della
Regione, in cui certo non ha giocato a favore del governatore la
questione concorsi per dirigenti passata all’onore delle cronache per i
favoritismo delle assegnazioni.
Ma ad un politico tanto personaggio, possono bastare le aspirazioni a
breve termine? Lui giurerebbe di sì. Sosterrebbe, come ha fatto, di aver
messo da parte altre aspirazioni politiche già nel 2000, quando fece la
scelta del Lazio. Obietterebbe, come fece ad Alemanno: «In termini di
potere la Regione non ha paragone con nessun altro ministero». Eppure
quanto tentato in questi anni sembra tradire ambizioni ben più alte.
Basta pensare alle notizie che fino a qualche tempo fa davano il
governatore in viaggio-premio (e temporaneo) per Bruxelles, in attesa di
una prospettiva più alta e appetibile dopo le Politiche del 2006.
Comunque, non è un caso che in ogni occasione lui abbia levato una voce
dissonante, per lo più senza eufemismi e mezzi termini, all’interno di
An, tenendo il broncio a tutta la nomenklatura di via della Scrofa se ne
valeva la pena; come pure non abbia mancato di dire la sua all’interno
della CdL, vantando una marcata presa di distanza dallo stesso
Berlusconi (basta pensare alla questione lista-elettorale risolta con un
placet obbligato del Cavaliere). Indipendenza e autonomia, dunque,
sembrano essere le sue carte preferite. Ma in vista di cosa? Per ora a
Berlusconi va bene così. In fondo sa bene che quel “cane da polpaccio”
di Storace, che non ha mai mancato di ringhiare contro il governo per
ottenere questa o quella decisione in favore delle sue politiche
regionali, permetterà al Polo di mantenere una chance non troppo
improbabile di vittoria in aprile. Ma la politica, quella di Palazzo, va
oltre. E mentre mancano poche settimane al voto e i cittadini si
apprestano a premiare o bocciare l’operato del governatore, tra i gangli
della politica “alta” già si guarda avanti, a quanto avverrà il prossimo
anno, alle prossime scadenze elettorali, al significato di questo voto
di mezzo termine. Già si misurano i pesi che con la vittoria o la
sconfitta di Storace si potranno far valere all’interno della
coalizione, già si pensa ai possibili scenari del futuro politico di
questa regione. Ma forse non solo.
22 marzo 2005 |