2005: fuga dalle Nazioni Unite
di Christian Rocca
da Ideazione, marzo-aprile 2005
L’atto d’accusa più potente contro le Nazioni Unite non è né di George
W. Bush né degli ideologi neoconservatori. La dichiarazione che meglio
di ogni altra definisce il fallimento dell’Onu è del Segretario Generale
Kofi Annan. In occasione del sessantesimo anniversario del genocidio
degli ebrei, lo scorso 24 gennaio, Annan ha detto che «dai tempi
dell’olocausto, con grande ignominia, il mondo ha fallito più di una
volta nel prevenire o nel porre fine a dei genocidi, per esempio in
Cambogia, in Ruanda e nell’ex Jugoslavia». Quel compito era stato
affidato all’Onu. Pochi giorni dopo quelle parole, una Commissione Onu
ha spiegato che il massacro in Darfur, cioè lo sterminio dei cristiani
da parte degli islamici ispirati dal regime sudanese, non era da
qualificarsi come genocidio, nonostante tutti abbiano sostenuto il
contrario. Questo del Sudan è soltanto l’ultimo dei fallimenti dell’Onu,
un’organizzazione nata proprio per impedire e prevenire un altro
olocausto ma che, di fatto, non ha mai funzionato.
Le Nazioni Unite sono fallite. Bisognerebbe prenderne atto, dirlo
chiaramente, non sprecare tempo con riforme e alchimie istituzionali che
non cambieranno di una virgola la sostanza, che è questa: rispetto alle
grandi questioni, come la sicurezza e la pace, l’Onu è un ente inutile,
anzi dannoso. È un’organizzazione che ha tradito lo spirito dei suoi
fondatori, che ha rinnegato i principi contenuti nella propria Carta
istitutiva. Le Nazioni Unite andrebbero salutate, poi chiuse e infine
sostituite con qualcosa di diverso, magari con un’Alleanza delle
democrazie o, ancora meglio, con un’Organizzazione mondiale delle
democrazie. Non va cestinato tutto, ovviamente. Ci sono agenzie, fondi e
programmi umanitari che funzionano. Non tutti e non sempre, ma vanno
rafforzati, sostenuti, finanziati e soprattutto meglio gestiti. Sono da
chiudere il Consiglio di Sicurezza e l’Assemblea Generale, i principali
complici del caos internazionale. In quasi sessant’anni le Nazioni Unite
hanno giustificato il terrorismo, alimentato l’antisemitismo, premiato
le nazioni che limitano i diritti umani, sprecato miliardi di dollari e
ora sono implicati anche in scandali di corruzione (oil for food) e
sessuali (in Congo).
Se non si agisce subito c’è il rischio che l’irrilevanza politica del
Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea Generale travolga anche le
agenzie umanitarie, come ha già dimostrato la crisi nell’Asia
meridionale colpita dal maremoto. Ventiquattro ore dopo il disastro, un
funzionaricchio delle Nazioni Unite ha sfruttato l’occasione per
accusare l’America di essere stata “spilorcia”, di non aver voluto
aiutare le popolazioni devastate dallo tsunami il 26 dicembre 2004. La
risposta americana e degli altri paesi donatori è stata quella di creare
una coalizione ad hoc per gli aiuti, sul modello di quella che aveva
liberato l’Iraq. Senza l’Onu.
Non è ripicca, ma un nuovo modello d’azione internazionale. È la terza
volta che succede nel giro di un anno e mezzo. La leadership americana
ha organizzato prima la liberazione dell’Iraq e subito dopo anche la
Proliferation Security Initiative, la coalizione dei paesi preoccupati
di fermare la corsa alle armi di sterminio da parte degli Stati ostili
all’Occidente. Con gli Stati Uniti ci sono un centinaio di paesi e, tra
gli altri, anche l’Italia e la Francia.
La posizione dell’amministrazione Bush
Il primo dicembre 2004, ad Halifax, in Canada, George Bush è stato molto
chiaro: «Le Organizzazioni multilaterali possono fare un grande bene nel
mondo. Ma il successo del multilateralismo non si valuta soltanto dal
metodo seguito, ma dai risultati raggiunti. L’obiettivo delle Nazioni
Unite e delle altre istituzioni deve essere quello della sicurezza
collettiva, non quello del dibattito infinito». Concetto ribadito dal
nuovo Segretario di Stato, Condoleezza Rice: «Uniremo la comunità delle
democrazie per costruire un sistema internazionale che si basi su valori
condivisi e sullo Stato di diritto. E rafforzeremo la comunità delle
democrazie per combattere le minacce alla nostra sicurezza e alleviare
l’assenza di speranza che alimenta il terrorismo».
Il punto è che in sessanta anni non c’è stata crisi importante che abbia
visto Consiglio di Sicurezza e Assemblea Generale protagonisti nel
difendere la sicurezza globale. Ci sono state tre eccezioni, ciascuna
delle quali con parecchie riserve: la guerra di Corea, ma solo perché il
Consiglio di Sicurezza allora era boicottato dai sovietici, l’Iraq nel
1991 e Haiti nel 1994, entrambi come conseguenza del crollo dell’impero
comunista. L’elenco dei disastri provocati è iniziato nel 1948, quando
l’Onu non difese la propria risoluzione su Israele e su Gerusalemme, ed
è arrivato a riconoscere il diritto al terrorismo con la risoluzione
2708 del 1970 che ha autorizzato chi lotta per l’autodeterminazione a
combattere con «ogni mezzo necessario a disposizione». Ci sono stati
colpi di Stato in mezzo mondo, sponsorizzati ora dal Cremlino ora da
Washington, ma l’Onu non ha mai mosso un dito.
Il punto è che le Nazioni Unite non hanno strumenti per far rispettare
le proprie decisioni. Non ne hanno nessuno. Il Segretario Generale,
Javier Pérez de Cuéllar, descrisse il Consiglio di Sicurezza come un
organo «incapace di intraprendere azioni decisive per risolvere i
conflitti internazionali». Nonostante le apparenze, George W. Bush ha
avuto fin qui un approccio più conciliante con il Palazzo di Vetro
rispetto ai suoi predecessori. Avrebbe potuto ignorarlo, farne a meno,
ridurlo a ente inutile, specie dopo che il Consiglio di Sicurezza aveva
deciso di non dare seguito alla sua stessa risoluzione, la
diciassettesima, quella che dava “l’opportunità finale” al regime di
Saddam e che prevedeva “gravi conseguenze” per la “violazione concreta”
della decisione del Consiglio di Sicurezza numero 1441. Ma non lo ha
fatto. Liberata Baghdad con una “coalizione dei volenterosi” formata per
l’occasione, Bush è subito tornato all’Onu invece che procedere da solo.
Così prima ha ricevuto la legittimazione dell’occupazione (risoluzione
1483), poi il riconoscimento del governo provvisorio e l’invio di una
missione dell’Onu (risoluzione 1500) e, infine, il calendario del
processo democratico ed elettorale (1511). Nel 2003, Bush ha salvato due
volte la credibilità dell’Onu: prima facendo rispettare le decisioni
prese dalle Nazioni Unite, perché «quando l’Onu promette gravi
conseguenze, devono seguire gravi conseguenze». Poi coinvolgendo il
Palazzo di Vetro in Iraq. Se non lo avesse fatto, l’Onu sarebbe rimasto
fuori dal processo di democratizzazione del Medio Oriente e quindi
condannato all’irrilevanza politica nell’area.
Mezzo secolo di insuccessi
In alcuni casi l’Onu non è stato soltanto irrilevante, ma ha anche
contribuito a creare disastri e a diffondere l’antisemitismo. Quando nel
1967 il dittatore egiziano Gamal Abdel Nasser, uno che non nascondeva
“l’obiettivo di distruggere Israele”, chiese all’Onu di ritirare i
Caschi blu presenti nell’area ottenne subito quello che voleva,
nonostante avesse già schierato 80 mila uomini e 550 carri armati al
confine con lo Stato ebraico. Il genocidio ruandese è frutto del ritiro
delle truppe Onu da Kigali e delle scelte dell’allora capo del
Dipartimento delle Operazioni di Peacekeeping, cioè Kofi Annan. L’11
gennaio del 1994 il generale belga che guidava il contingente Onu in
Ruanda, Romeo Dallaire, inviò un telex al vice di Annan, Iqbal Riza, per
avvertire che gli hutu erano pronti a “sterminare” i tutsi. In quel fax
c’era scritto che gli hutu avrebbero potuto «uccidere mille persone in
venti minuti». Lo fecero. Ma l’Onu rimase a guardare. La stessa cosa
capitò in occasione dei settemila morti di Srebrenica, nel luglio del
1995. I generali dell’Onu invitarono i bosniaci musulmani a raggrupparsi
in alcune città, tra cui Srebrenica, in modo da facilitare le operazioni
di difesa, ma permisero agli assassini serbi di passare indisturbati.
Pensate al Ruanda, ricordatevi la Bosnia e ora pensate a che cosa
potrebbe accadere se a Baghdad le operazioni di difesa della popolazione
fossero affidate alle Nazioni Unite.
Certo, c’è stato qualche timido successo negli anni Novanta, ma soltanto
quando l’intervento è servito a mantenere la pace in situazioni dove le
parti in conflitto avevano già deciso di cessare i combattimenti (in
Cambogia, a Timor Est, in Salvador, in Mozambico, in Namibia). Il
peacekeeping, infatti, è possibile soltanto quando le parti belligeranti
fermano il conflitto e accettano l’ingresso dei Caschi blu. I Segretari
Generali che hanno preceduto Kofi Annan possono vantare altrettanti
fallimenti. Uno per tutti: l’austriaco Kurt Waldheim. Fu eletto nel
1971, ma solo nel 1986, durante la campagna elettorale che lo elesse
presidente dell’Austria, si scoprì che aveva partecipato (o perlomeno ne
era al corrente) a crimini di guerra nei Balcani. Era stato un nazista,
ma lo aveva nascosto. C’è chi sostiene che Waldheim fosse ricattato dai
sovietici, i quali gli chiesero di chiudere un occhio sulle violazioni
dei diritti umani e su tutte le altre cose che avrebbero potuto
imbarazzare l’Impero comunista. L’Onu, insomma, era guidata da un
nazista imbroglione. Niente male per il governo del mondo. Durante il
mandato di Waldheim fu approvata la famigerata risoluzione che comparava
il sionismo al razzismo.
Le Nazioni Unite sono un’idea americana, lo strumento ideato per
promuovere i valori e i principi di libertà e di democrazia su scala
globale. Il presidente americano Franklin Delano Roosevelt, il primo
gennaio del 1942, fu il primo a usare la definizione “Nazioni Unite”, un
mese dopo l’attacco di Pearl Harbour. Lo fece per presentare l’alleanza
angloamericana contro il nazifascismo. Gli architetti dell’Onu, allo
stesso modo, erano uniti dall’aver fatto la guerra alla Germania
nazista, l’archetipo del male assoluto del Ventesimo secolo. A
differenza della Lega delle Nazioni, che aveva soltanto il potere di
imporre sanzioni, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è stato
disegnato proprio per poter usare “ogni mezzo necessario”, inclusa la
forza militare, per contrastare le aggressioni. Alla conferenza di
Washington, nella residenza di Dumbarton Oaks, Roosevelt spiegò così ai
cronisti che cosa aveva in mente: «Se qualche aggressore cominciasse a
perdere la testa e cercasse di acchiapparsi qualche territorio oppure
invadesse i suoi vicini», la nuova organizzazione «lo fermerebbe prima
ancora di iniziare». L’Onu fu fondata per fare quello che non è mai
riuscita a fare: proteggere la sicurezza degli Stati membri ed evitare,
anche con azioni preventive, le aggressioni militari.
L’Onu nacque in un momento di straordinaria moral clarity, di chiarezza
morale, in cui i fondatori seppero distinguere senza-se-e-senza-ma tra
l’aggressione dei nazifascisti e il proprio ruolo di liberatori. Sono
nate in un mondo che subito dopo è cambiato radicalmente, non appena
l’Occidente s’è reso conto che il gigante sovietico faceva partita a sé.
La Guerra Fredda ha congelato l’Onu fino a farle perdere ogni funzione
vitale. In quegli anni l’Onu non ha mai funzionato e il Consiglio di
Sicurezza si è riunito poco.
Caduta l’Unione Sovietica è sembrato, per un momento, che il ruolo
dell’Onu potesse davvero diventare quello di governo mondiale e di
difesa della pace e della sicurezza. Dopo 45 anni di paralisi, il
presidente americano George H. W. Bush (padre) cominciò a parlare di
“nuovo ordine mondiale” e sembrò che il Consiglio di Sicurezza potesse
finalmente lavorare in armonia. L’invasione irachena del Kuwait fu
prontamente condannata, ma Javier Pérez de Cuéllar rifiutò di concedere
alla coalizione internazionale la bandiera dell’Onu: «Non è stata una
guerra dell’Onu – disse successivamente al Parlamento di Strasburgo – Il
generale Schwarzkopf non aveva il Casco blu».
Questa improvvisa centralità del Consiglio di Sicurezza è durata poco,
nonostante il presidente Bill Clinton nel 1992 avesse deciso di
concentrare il suo primo mandato sulle questioni di politica interna e
quindi fosse pronto a delegare all’Onu la soluzione dei problemi
internazionali. L’allora Segretario Generale, Boutros Boutros-Ghali,
vide in questa nuova attitudine americana una «straordinaria opportunità
di espandere, adattare e rinvigorire il lavoro delle Nazioni Unite». Ma
già nel 1993 la morte di 18 rangers americani in Somalia ruppe
l’idillio. Poi ci furono il genocidio in Ruanda e la mattanza nell’ex
Jugoslavia. Gli Stati membri condividono la responsabilità di non aver
impedito la carneficina. In Bosnia, mentre le fazioni combattevano, il
Consiglio di Sicurezza impose l’embargo alla vendita delle armi. La
conseguenza è stata disastrosa. Gli aggressori serbi non subirono alcun
danno dall’embargo, perché avevano a disposizione l’arsenale del vecchio
esercito jugoslavo. Invece i bosniaci musulmani, le vittime, erano a
corto di armi già prima dell’embargo. Il divieto di acquistarle li privò
di ogni possibilità di difesa.
Il record di fallimenti e di tradimenti dello spirito fondativo dell’Onu
non impedisce a molte persone, specie in Europa, di continuare a vedere
questo moloch burocratico e inefficace e disastroso come la panacea di
tutti i mali, come lo spirito santo che detta legge, come la cassazione
suprema. È come se l’egida dell’Onu fosse un segno divino da aspettare,
accettare e non discutere mai, invece che il semplice marchio su una
decisione che ciascuno dei 191 governi membri, compresi quelli che non
rappresentano i loro popoli, contribuisce a prendere. Le scelte possono
essere giuste o sbagliate, possono essere rispettose della Carta
istitutiva dell’organizzazione oppure discostarsene. Il bilancio è
impetuoso: le Nazioni Unite troppo spesso si sono allontanate da quei
principi.
14 marzo 2005 |