Il network necessario
di Vittorio Macioce
da Ideazione, gennaio-febbraio 2005
Era autunno, ultimi giorni d’ottobre, anno 1986. Il cancello d’ingresso
era all’incrocio di due strade, un angolo acuto, sulle carte ufficiali
c’era scritto via Pola. Era Roma, la Luiss, scienze politiche, aula
Vittorio Bachelet, al piano terra, la prima scendendo le scale, giù,
verso quella che gli studenti chiamavano la “fossa dei leoni”. Sulla
cattedra c’era un professore con le sopracciglia folte, il volto che
ricordava le campagne dell’Umbria, le mani che disegnavano nell’aria
strane teorie e parole che si rincorrevano veloci, come se avesse
urgenza di dire tutto nel più breve tempo possibile. Aveva fretta di
divulgare, raccontare, spiegare, come se in quei primi ottantasei anni
di Novecento si fosse già perso troppo tempo. Parlava di Karl Raymund
Popper, di teorie e confutazioni, di società aperta (cosa cavolo era una
società aperta?) e dei suoi nemici. Parlava di Platone e di Marx. Faceva
domande: quanti cigni bianchi bisogna osservare per dire che tutti i
cigni sono bianchi? Mille, milioni, infiniti? Buona la terza. La scienza
va avanti per induzione o deduzione? Vengono prima le teorie o i fatti?
Ma se non sai cosa devi vedere, se non hai una teoria in testa –
incalzava – non registri nulla, non ti accorgi di nulla. E poi,
naturalmente, la frase di Einstein: un’idea, una buona idea, è veramente
rara. Veniva dall’università di Padova. Era il suo primo anno a Roma,
come docente di filosofia della scienza, e doveva avere più di
cinquant’anni. Era Dario Antiseri. Tredici anni prima era riuscito,
testardo come la sua gente, a far pubblicare in Italia l’opera politica
più importante di Popper: La società aperta e i suoi nemici. Armando,
l’editore, aveva una cartella stracolma di pareri negativi. Un testo
così è meglio non pubblicarlo. È più di mille pagine, è troppo costoso e
soprattutto questo Popper è un “reazionario”, un “maccartista”, un
filosofo austriaco approdato in Inghilterra di cui il materialismo
storico italiano non ha alcun bisogno. Quando l’opera uscì, in due
volumi, la risposta fu il silenzio. Andava ignorata. E così fu: per più
di un decennio. Poi, Popper, divenne quello che condanna la televisione.
C’era stato il 1989 e un libello, questo sì dal sapore reazionario,
aveva trasformato l’eretico in santo. Il profeta che annunciava la
miseria dell’Occidente schiavo del Grande Fratello. L’uomo che aveva
scritto mille pagine per scardinare la filosofia della storia di
Platone, Hegel e Marx, che aveva alzato le barricate contro la
repubblica dei filosofi, l’uomo che un giorno a Cambridge aveva
gareggiato con Wittengstein parlando di logica e verità, era finito nel
menù degli anti-berlusconiani, tra un Santoro e un Vattimo. Pietà.
La storia di Antiseri e Popper, per chi era quel giorno di quasi
vent’anni fa alla Luiss, segna lo scorrere del tempo. Hanno visto cose,
allora, difficili da immaginare: Friedrich von Hayek recensito sulle
pagine del Corriere della Sera; letterati inginocchiarsi davanti al
talento del medico Céline; filosofi marxisti abbeverarsi alla fonte di
Augusto Del Noce; storici negazionisti ammettere l’esistenza di un
arcipelago e di un gulag, scrittori sostenere che il Gattopardo è il
romanzo italiano del Novecento; perfino Evola e La Rochelle uscire dal
ghetto. Era l’ultima coda del Novecento e qualcuno si è accorto che a
destra di Lenin e Marx, dell’anticapitalismo e dell’antiamericanismo,
della repubblica fondata sulla resistenza e del pensiero debole, a
destra di tutto questo, c’era una cultura. Anzi più culture, non sempre
compatibili tra loro. C’erano cattolici e liberali, individualisti e
nazionalisti, patrioti e anarchici. Questi mondi non potevano essere
liquidati con un paio di plurali: fascisti o borghesi.
Quello che si fatica ancora a dire è che dall’altra parte ci sono anche
degli intellettuali, che ci sono centri di pensiero, domande,
riflessioni, ricerche, ipotesi. È un po’ più difficile accettarlo. Non
chiedetevi più, per favore, quale cultura per la destra. La domanda è
un’altra: come far dialogare questi centri intellettuali? Come metterli
in rete? Qual è il punto d’incontro tra liberali, cattolici e
conservatori? Come far convivere mercato e solidarietà? Una risposta
magari si può azzardare ed è Occidente. È qui che si gioca la partita, e
non coinvolge soltanto quella che voi chiamate destra. Occidente non
vuol dire impero e neppure egemonia. Occidente non vuol dire alzare la
bandiera dell’intolleranza verso chi viene da est. L’Occidente è
confrontarsi con se stessi, è porsi alcune domande, sui propri valori,
sulla propria identità. Le risposte fanno la differenza. La folle corsa
del Novecento verso il tutto e verso il nulla è l’unica base storica,
l’ultima zattera, da cui ripartire. Con un bagaglio di domande. La
modernità: fermarsi, andare avanti o tornare indietro? Noi e gli altri:
fino a che punto si può essere tolleranti con gli intolleranti? Il
rapporto tra centro e periferia: americani o antiamericani? Il
cristianesimo: fa parte delle nostre radici o è l’orizzonte da cui ci
siamo emancipati? Etica e mercato: come far convivere le leggi del
mercato con la solidarietà? E quale limite dare all’intervento dello
Stato? Come adeguare il welfare a un mercato del lavoro meno rigido? La
scienza, orfana della filosofia, che non sa più individuare i suoi
limiti etici. E infine l’uomo: concetto in bilico tra un embrione e il
suo doppio, tra selezione e clonazione, tra la vita e il suo
presupposto.
In questi anni siamo andati in giro con una vecchia cartina, un
“tuttocittà”, a cercare strade che forse non ci sono più. Qualcuna ha
cambiato nome, altre sono diventate senso unico o isole pedonali.
Smarriti, senza bussola, disorientati, il nervosismo che cresce, la
sensazione di ruotare da tempo intorno alla stessa piazza, agli stessi
palazzi, con i cartelli stradali che indicano un centro che non c’è più.
Alla fine: domandi. Trovi il primo pedone, o uno che ti si affianca al
semaforo rosso, abbassi il finestrino e, in fretta, cerchi di capire da
che parte andare: destra, sinistra, sempre dritto. È questa la condanna
di questo lustro di secolo, il post-Novecento dei naufraghi, dei
sopravvissuti, di chi ha visto bruciare sogni, ideali, assoluti,
principi, ideologie, rivoluzioni, culture più o meno aperte, e forse
anche un po’ di speranze. Non è facile vivere dopo il Novecento, perché
è stato un secolo intenso, amaro, avventuroso, totale, veloce e
inesauribile, con un carico di domande a cui sono state date risposte
troppo assurde o troppo definitive, e con il timore che alla fine dei
conti la somma fosse sempre zero. Alla fine si è rimasti con una élite
di sopravvissuti che hanno paura di guardarsi indietro, e sbirciano al
passato con vergogna, o di reduci aggrappati alle ancore di navi
fantasma. Nessuno di loro osa guardare avanti. Gli altri, quelli che
aspettano, hanno vissuto il tramonto del Novecento, e non hanno ancora
capito se sono una generazione di passaggio o già passata. Non è vero
che questi qui, quelli che ancora non sono élite (e forse mai lo
saranno), non hanno ricordi. Sono solo più leggeri, meno compromettenti,
non da guerra civile. La politica del vecchio secolo, in Italia, è stata
questo, anche questo: fronti, muri, duelli esistenziali. Una politica
coperta da una cappa di piombo, per cui le vittorie dell’una o
dell’altra parte evocavano sempre l’apocalisse, la resa dei conti. Un
clima da “quasi” guerra civile, come se si fosse sempre a un metro dalle
armi. Qualcuno ha parlato di guerra civile di parole, con qualche morto,
quando la situazione impazziva. L’opposizione, così, non è mai stata
alternativa di governo, ma resistenza, sopravvivenza, tutt’al più
compromesso, che è un modo per non andare alle armi, se si vuole anche
una scelta di lucidità, ma che ha a che fare comunque con uno stato di
crisi. Maggioranza e opposizione, nelle democrazie mature, fanno fronte
comune davanti a un evento tragico esterno, al nemico, al destino, alla
bancarotta, alla crisi troppo grande per cui è necessario ricorrere
all’unità nazionale. Gli interessi di parte, in questi casi, vengono
dopo. C’è qualcosa che minaccia il nucleo centrale del sistema. In
Italia l’unità nazionale, semmai si è realizzata, è stato un modo per
difendersi da se stessi: un nemico allo specchio. Vi ricordate il 1989?
Quando si è frantumato il Muro di Berlino tutto questo doveva passare
alla storia. Poi c’è stata Tangentopoli, la caduta dei partiti,
Berlusconi e gli anti-Berlusconi. E si è tornati allo scontro
esistenziale. Di nuovo: delenda Chartago. La sopravvivenza dell’altro è
una minaccia.
È questo il clima culturale in cui siamo cresciuti. È questo
l’orizzonte. Non c’è da stupirsi allora che le culture in Italia siano
state ghetto o egemonia, resistenza o prevaricazione, bando, scomunica,
reazione e rivoluzione, palazzo o underground. Mai dialogo, rete,
confronto, dialettica, rapporto, punto di vista di fronte a un problema.
E chi ne faceva parte era più chierico che intellettuale. Ma la
soluzione non è tirarsi fuori, non è neppure la terza via, il terzismo
che in apparenza non si compromette. Non è questione di dove stare, alla
destra o alla sinistra di un padre che non c’è. È cosa pensare. È
mettersi davanti alla rosa dei venti, alla cartografia di questo
presente e di un futuro più o meno prossimo e vedere i quartieri, il
centro o la periferia, che sulla mappa si sono sbiaditi, quelli che non
si leggono più, quelli da disegnare da capo o da fotocopiare. È
ragionare sulla mappa. Esprimersi, interpretare, scegliere. È chiaro che
non tutti avranno gli stessi ricordi. E comunque la mappa cognitiva che
tenta di dare un senso alla realtà si costruisce scegliendo un valore
invece di un altro, una visione del mondo, una risposta ad un problema.
Ci saranno mappe diverse, ma saranno tutte nuove. Non saranno sbiadite.
Non saranno inutili, continueranno a esserci, statene certi, mappe
inconciliabili. Magari non più divise dall’ideologia della ragione, ma
dall’ideologia religiosa. Il fondamentalismo prenderà il posto del
giacobinismo. Ma almeno cercheremo di rispondere ai quesiti del
Ventunesimo secolo e non a quelli del Ventesimo. Anche se molte risposte
saranno le stesse. Ma cambierà l’ordine del questionario e non è poco.
Finiremo per riconoscerci o dividerci sull’Occidente.
23 febbraio 2005 |