La rivoluzione di Barry Goldwater
di Marco Respinti
da Ideazione, gennaio-febbraio 2005
A pagina 261
di Come si manda in rovina un Paese. Cinquant’anni di malaeconomia
(Rizzoli, Milano 1995), Sergio Ricossa scrive: «Film istruttivo: rivedo
con sollazzo i Blues Brothers. Jake ed Elwood Blues non sono stinchi di
santo, ma salvano il “loro” orfanotrofio che sta per chiudere. Sta per
chiudere perché il fisco cosiddetto sociale lo ha caricato di imposte e
tasse, che le monache non possono sopportare. Purtroppo il lieto fine
c’è solo al cinema. Il film di John Landis uscì in America nel 1980, una
America pronta a eleggere Reagan, che era un attore come John Belushi e
Dan Aykroyd, gli interpreti dei due fratelli». Ora, Reagan fu possibile
all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso solo perché 16 anni
prima, esattamente 40 anni fa, si gettò come un macigno sulla scena
politica il senatore repubblicano dell’Arizona Barry M. Goldwater. Il
quale divenne subito famoso per quei suoi occhiali dalla montatura
larga, nera e similplasticona che se non fosse stato per le lenti, nel
suo caso trasparentissime, sarebbe stato un sicuro antenato dei Blues
Brothers. Per la capacità di unire morale tradizionale e anarchia in
perfetto stile neo-cowboy. Tanto i nazisti non solo dell’Illinois li
odiava pure lui, nonostante Martin Luther King jr. abbia risibilmente
cercato di definirlo uno di loro. La storia della destra statunitense
nella seconda metà del Novecento è infatti la storia di una lunga
crescita che ha visto impegnati intellettuali e pensatori di rango.
Prima pionieristicamente, poi sempre più coscientemente, la destra
conservatrice e libertarian ha generato un vero e proprio movimento di
opinione che negli anni si è configurato come un grande network
d’iniziative editoriali, di fondazioni, di organizzazioni e di
associazioni. Quella che oggi viene chiamata, con formula felicissima,
Right Nation: la “nazione giusta”, la “nazione che ha ragione”, la
“nazione di destra”.
Con Goldwater, il 29 maggio 1998, ne è scomparso un pezzo significativo.
Il senatore dell’Arizona ha infatti legato il proprio nome a quel vasto
e variegato mondo della destra che, nel 1964, ne decretò il successo
alla Convention del partito repubblicano, riunita dopo le primarie per
scegliere il candidato ufficiale da opporre a Lyndon B. Johnson nelle
elezioni presidenziali di quell’anno. Goldwater venne poi bocciato come
presidente, ma niente affatto dal profondo movimento di popolo e di
opinione che lo aveva scelto come proprio rappresentante. Aveva del
resto ottenuto la nomination repubblicana sconfiggendo il liberal Nelson
D. Rockefeller, dunque segnando una netta svolta a destra dell’intero
partito (svolta che in parte dura ancor oggi), quindi ancora segnando
una tappa importante del successo del movimento conservatore di quel
paese rinato negli anni del dopoguerra.
Negli ambienti goldwateriani si sono del resto fatti le ossa un po’
tutti i leader dell’attivismo giovanile della destra Usa, comprese
quelle figure che anni e decenni dopo sarebbero a loro volta salite alla
ribalta nazionale e internazionale come candidati politici del partito
repubblicano. La cosiddetta “Reagan Revolution”, ma addirittura la
discesa nell’arena politica dell’outsider Patrick J. Buchanan e pure le
affermazioni repubblicane nelle votazioni per il rinnovo del Congresso
degli ultimi anni, affondano le radici nel “fenomeno Goldwater”. Il
senatore dell’Arizona fu un vero capo, un uomo cioè capace di scegliere
adeguatamente i propri consiglieri e i propri collaboratori, tenendo
conto non tanto del ricatto dell’elettorato, ma intelligentemente
dell’humus del proprio paese. Il suo successo – al di là della sconfitta
di allora, un certo “goldwaterismo” ha trionfato negli Stati Uniti con e
da Reagan in poi – è stato infatti il successo di un vasta porzione di
popolo nord-americano, quella che peraltro ha la pretesa di rivendicare
la più diretta continuità con le tradizioni di fondazione della nazione.
Il conservatorismo, che nel senatore scomparso ha avuto un esponente
politico di punta negli anni Sessanta, si pone infatti essenzialmente
come movimento culturale che rivendica lo spirito dei Padri Fondatori;
l’ideale del costituzionalismo e del repubblicanesimo classico (in cui
si fondono, al di là delle concrete scelte istituzionali dettate dalla
storia, dalle situazioni e dai contesti, l’eredità dei Tory e degli Old
Whig britannici); il retaggio della cultura del “precedente”, del
“pregiudizio” e del valore normativo delle “usanze” espressa nella forma
mentis che anima il Common Law consuetudinario e medievaleggiante;
l’opposizione allo spirito filogiacobino dei cosiddetti New Whig
progressisti, razionalisti (come ha affermato Friedrich A. von Hayek) e
pianificatori; la Grande Tradizione della filosofia politica classica e
del diritto naturale; nonché il retaggio di Londra, Roma, Atene e
Gerusalemme.
Goldwater – di cui pure la destra statunitense ha onestamente denunciato
le cadute di tono in tema di liceità dell’omosessualità e dell’aborto –
ha rappresentato per la prima volta nel dopoguerra la possibilità di
unire le diverse “scuole” del conservatorismo in una concreta proposta
politica: il successo non lo ha premiato direttamente, ma l’importanza
del suo agire – e soprattutto del suo saper interpretare il sensus
nationis – resta la grande lezione di realismo e di idealità politiche,
condensata nel suo intramontabile libro-manifesto Il vero Conservatore,
tradotto in italiano da Henry Furst e pubblicato nel 1962.
9 febbraio 2005 |