Benvenuti nella Right Nation
di Andrea Mancia
da Ideazione, gennaio-febbraio 2005

Questa è la storia di una rimonta. La storia di una lunga, difficile ed esaltante impresa in cui un manipolo di uomini, guidati da una visione del mondo e dalla tenace insofferenza nei confronti di una visione del mondo “altra”, è riuscito a bilanciare le sorti di un confronto politico epocale, conquistando la maggioranza delle menti e dei cuori nella più antica democrazia mondiale. Questa è la storia della Right Nation americana: dei suoi strateghi, generali e soldati.

«Viviamo, senza ombra di dubbio, negli anni dei liberal». Aveva ragione John Kenneth Galbraith quando, nel 1964, descriveva in questo modo lo stato dell’arte del dibattito culturale statunitense. Dopo la rivoluzione statalista di Franklin Delano Roosevelt e del suo New Deal, dopo la parentesi di governo dei moderati repubblicani di Dwight Eisenhower e gli anni del nuovo sogno americano di John Fitzgerald Kennedy, gli Stati Uniti si preparavano ad affrontare uno dei progetti di ingegneria sociale più mastodontici della loro storia, quel tentativo di costruzione della Great Society che – almeno nelle intenzioni dell’appena eletto presidente Lyndon Johnson – avrebbe dovuto debellare una volta per tutte le sacche di resistenza conservatrici che, nel cuore della Middle America, ancora si rifiutavano di essere sottomesse alla versione yankee della socialdemocrazia europea.

«Negli anni Sessanta – scrivono i due inviati dell’Economist, John Micklethwait e Adrian Woolridge, in The Right Nation: Conservative Power in Ameri-ca, che uscirà per Mondadori nella prossima primavera – i liberal americani sostennero la creazione di un welfare state in stile europeo [...] imposero restrizioni sulle armi da fuoco e cominciarono campagne per abolire le esecuzioni capitali, legalizzare l’aborto e introdurre, non solo l’eguaglianza razziale, ma una discriminazione positiva in favore delle minoranze (affirmative action); campagne che portarono i loro frutti nel corso degli anni Settanta. Le élite liberal di Boston e New York credevano di avere una buona chance per civilizzare quelli che qualcuno di loro chiamava yahoos». Ma gli yahoos (bruti, ignoranti), ci avvertono Micklethwait e Woolridge, si rifiutarono di essere domati. E il loro primo “ululato di rabbia”, come lo definiscono i due giornalisti dell’Economist, rispose al nome di Barry Goldwater.

Gli anni prima di Goldwater

A parte qualche scatto d’orgoglio, qualche isolato intellettuale e una serie di vittorie (mai sfruttate fino in fondo) nella diffusione dell’anticomunismo, il pensiero conservatore dal dopoguerra al 1964 è costellato di fallimenti. Ma proprio durante questi anni, paradossalmente, si crearono le condizioni necessarie per una sua rinascita. Pur riconquistando, nel 1952 con Dwight Eisenhower, la Casa Bianca e il controllo del Congresso, i repubblicani degli anni Cinquanta erano una realtà assai distante dagli ideali di quello che sarebbe diventato il movimento conservatore. Eisenhower, per dirla con un linguaggio contemporaneo, era un “rino” (republican in name only), che aveva scelto il Grand Old Party soltanto per comodità personale e tattica: Ike era favorevole al contenimento della “minaccia rossa”, non ad uno scontro frontale con essa; non cercò in alcun modo di scalfire il nocciolo duro del New Deal; era convinto che «la graduale espansione del governo federale» fosse il prezzo da pagare per la crescita del paese; non tentò mai di ridurre la pressione fiscale. Una differenza assai sfumata, insomma, rispetto agli anni dell’amministrazione Truman. Nell’arena del dibattito politico, i conservatori avevano dovuto accettare la sconfitta del senatore Robert Taft (Mr. Republican) ed assistere alla crescita d’influenza di Thomas Dewey, il “patrizio” governatore dello Stato di New York incarnazione di quel repubblicanesimo moderato che affondava le proprie radici nel New England e aveva perso ogni speranza di poter conquistare maggioranze stabili a ovest del Mississippi o a sud della linea Mason-Dixon. Dal 1940 al 1960 i “Dewey Republicans” conquistarono tutte le nomination del partito alle presidenziali, riuscirono spesso ad eleggere i governatori degli Stati più popolosi dell’unione, dalla Pennsylvania alla California, ed esercitavano un controllo quasi diretto su alcuni strategici centri di potere mediatico, come Time, Life e il New York Herald. Una supremazia che il destino rese completa con la morte di Mr. Republican durante il primo anno dell’amministrazione Eisenhower.

Nello stesso periodo, i liberal controllavano almeno otto settimanali a larga diffusione, mentre i conservatori dovevano accontentarsi di una esile newsletter come Human Events, lanciata nel 1944 con una tiratura appena superiore alle cento copie. Il mondo accademico era così ampiamente dominato dall’intellighenzia liberal che, si legge sempre in The Right Nation, una delle rare fondazioni conservatrici, il William Volker Fund, era costretta ad una ricerca disperata – e spesso infruttuosa – di studenti a cui elargire le proprie donazioni in denaro. Ma un fuoco stava covando sotto la cenere.

Da Hayek e Weaver a Friedman e Kirk

Alla Old Right americana non erano mancati, nel dopoguerra, intellettuali di grande peso ed impatto. Basterebbe fare i nomi di Albert J. Nock, con il suo sensazionale Our Enemy, the State o dell’esule russa Ayn Rand che, con i suoi romanzi e le sue intuizioni filosofiche, rappresentò una salutare boccata di aria fresca nello stantìo panorama culturale statunitense. Micklethwait e Woolridge, pur iscrivendolo ingiustamente nel filone della “destra paranoica”, ricordano anche Whittaker Chambers, ex-giornalista del Time ed ex-spia sovietica che con il suo The Witness (1952) fornì alla “maggioranza silenziosa” la testimonianza più importante della necessità di combattere, senza esitazioni o mezze misure, il pericolo comunista e l’espansionismo genocida dell’Unione Sovietica. Si trattava, però, di casi isolati. Come isolati, almeno all’inizio, furono due pensatori che in quegli anni lavoravano alla costruzione delle fondamenta culturali di quello che sarebbe diventato il moderno movimento conservatore.

Il primo, Friedrich August von Hayek – forse l’esponente di maggior livello della scuola austriaca di Carl Menger, Eugen von Boehm-Bawerk, Friedrich Wieser e Ludwig von Mises – sconvolse il mondo accademico ed editoriale statunitense nel 1944 con il suo Road to Serfdom (La via verso la schiavitù), che divenne un best-seller soprattutto dopo la pubblicazione di una versione “ridotta” a cura del Reader’s Digest. Hayek, che rappresentava l’anima incorruttibile di una destra liberale e quasi libertarian che non voleva piegarsi ai cedimenti della cultura liberal nei confronti del collettivismo marxista e socialista, influenzò profondamente intere generazioni di conservatori alla ricerca di un’identità: contribuì alla nascita, nel 1947, della Mount Pelerin Society; fu il “motore immobile” dietro alla crescita della Chicago School, formando una serie di brillanti economisti anti-keynesiani (un nome su tutti, Milton Friedman) che avrebbero costituito il nucleo fondante della rivoluzione liberista degli anni Ottanta; fu l’ispiratore economico e filosofico di Ronald Reagan in persona, come scoprì Lee Edwards nel 1967 quando notò nella biblioteca dell’ex-attore hollywoodiano alcune edizioni, pesantemente sottolineate, delle opere di Hayek e Mises.

Se von Hayek rappresentò l’anima del movimento più vicina al pensiero liberale classico, addirittura restìa a definirsi conservatrice (almeno in quegli anni), Richard Weaver fu un campione indiscusso del tradizionalismo capace, come ha scritto Alberto Mingardi su Ideazione nel maggio del 2003, «di parlare sia ai conservatori d’impianto tradizionalista sia ai libertari: due culture fra le quali egli cercò di gettare un ponte, in prima persona». «Weaver – ha detto Lee Edwards in una conferenza che si è tenuta lo scorso anno al Russell Kirk Center for Cultural Renewal di Mecosta, in Michigan – sosteneva che idee come il nominalismo, il razionalismo e il materialismo avevano inesorabilmente condotto a quella che lui chiamava la dissoluzione morale dell’Occidente. Weaver [...] offrì tre riforme che avrebbero potuto aiutare l’umanità a guarire dal flagello del modernismo: una difesa della proprietà privata, una purificazione del linguaggio e un’attitudine alla pietà verso la natura, gli altri individui e il passato».

Dalla “geremiade” lancinante di Weaver, il tradizionalismo americano riuscì a compiere un salto di qualità, potente ed inaspettato, nel 1953 con la pubblicazione del libro The Conservative Mind di Russel Kirk. «Kirk – ha scritto Marco Respinti nell’aprile di quest’anno su Il Domenicale, nel decennale della sua scomparsa – è stato il padre, l’anima e il cuore della rinascita del conservatorismo negli Stati Uniti d’America a metà degli anni Cinquanta, ovvero l’uomo che ha ridato dignità politica e cittadinanza a un termine allora desueto e sgradito all’orecchio dei più [...] colui che, ripercorrendo una storia lunga e complessa, ha battezzato “conservatorismo” quella forma mentis che [...] descrive la volontà caparbia e ostinata di chi prima di disfarsi del retaggio e del fardello della civiltà occidentale ci pensa bene e poi comunque rinuncia». Kirk si erge a difensore della tradizione americana, riserva “coloniale” dell’ethos europeo e della civiltà classica e giudeo-cristiana e diventa, sempre adoperando le parole di Respinti, «uno degli interpreti più coscienti, seri e fecondi del filone tradizionalista del conservatorismo statunitense».

Anche il filone liberale (con la “e”), liberista e libertario era pronto al salto di qualità. E proprio mentre Lyndon Johnson si trastullava con i suoi esperimenti di pianificazione economica, nel 1962 Milton Friedman pubblicava il suo capolavoro, Capitalism and Freedom, rompendo il decennale tabù accademico che dava per scontata la supremazia teorica degli economisti keynesiani. Per la prima volta, da tempi immemorabili, la destra americana aveva una base culturale abbastanza solida per presentarsi come un potenziale avversario del monopolio intellettuale liberal. Tutto quello che le serviva, ora, era un leader politico.

La vittoriosa sconfitta di Barry Goldwater

In The Right Nation, Micklethwait e Woolridge spiegano la rivoluzione conservatrice con tre fattori primari che si agitavano sotto le acque dell’America degli anni Cinquanta: «Il primo fu l’arrivo di un gruppo di “imprenditori intellettuali”. Il secondo era l’insofferenza crescente del Sud nei confronti del partito democratico. Il terzo era lo slittamento del centro di gravità americano verso l’Ovest. Queste tre forze trovarono una sintesi in Barry Goldwater». Pur non rinunciando del tutto a qualche venatura di snobismo europeo nel descriverne l’ascesa, i due giornalisti dell’Economist colgono il senso profondo della vicenda politica e culturale che portò alla nomination repubblicana del senatore dell’Arizona per la corsa alla Casa Bianca del 1964.

Dall’inizio degli anni Cinquanta alla fine degli anni Sessanta, si affacciarono prepotentemente sulla scena del dibattito politico statunitense una serie di think-tank conservatori (nel senso più ampio del termine) capaci di mettere a dura prova lo strapotere liberal nel campo della produzione e diffusione del pensiero.

Fondato nel 1943, l’American Enterprise Institute fu salvato dal fallimento, nel 1954, dalle brillanti intuizioni imprenditoriali di William Baroody, che trasformò l’AEI in un “brain trust” conservatore in grado di rivaleggiare con il mitico Brooking Institution. Insieme all’economista di Harvard, Glenn Campbell, Baroody arruolò anche Milton Friedman e Paul McCracken nel comitato scientifico della fondazione. E diede il via ad una rincorsa scientifica che, con il passare dei decenni, si sarebbe trasformata in un clamoroso sorpasso ai danni della sinistra.

Nel 1960, Campbell diventò il direttore dell’antico Hoover Institution (fondato nel 1919 a Stanford) a cui l’ex-presidente Herbert Hoover, dopo aver perso le elezioni nel 1932, aveva dato un’impronta più nettamente conservatrice. Nel 1955, William F. Buckley aveva fondato la rivista storica della destra Usa, quella National Review che ancora oggi rappresenta un importante punto di riferimento. L’obiettivo di Buckley era quello di trasformare il conservatorismo statunitense da un coacervo di dottrine locali (del Sud, del Midwest, dell’Ovest) a un vero movimento culturale nazionale. Nella rivista passarono firme come Joan Didion e Gary Wills, ma anche outsider come Whittaker Chambers. Buckley, in estrema sintesi, unificò le tre schegge principali del conservatorismo americano – il tradizionalismo, il libertarianism e l’anticomunismo – sotto la bandiera della National Review. Come ha scritto Antonio Donno, professore di Storia dell’America del Nord all’Università di Lecce, nello splendido libro In nome della libertà. Conservatorismo e guerra fredda, «Kirk, Weaver e altri esponenti della tradizione conservatrice dettero il loro contributo fin dall’inizio; accanto a loro, John Chamberlain, Frank Chodorov, Wilhelm Röpke, Max Eastman e Frank Meyer. Un nutrito gruppo di ex comunisti ed ex trotskisti partecipò molto attivamente alla battaglia della rivista: lo stesso Meyer, James Burnham, Willmoore Kendall, William Schlamm, ed altri. In sostanza, la rivista rappresentò un momento di incontro e di confronto tra le varie anime del conservatorismo americano».

Partendo da un ridottissimo budget di 100mila dollari, generosamente donati da suo padre, Buckley riuscì a portare la diffusione della rivista dalle 34mila copie del 1960 alle 90mila del 1964, trovando anche il tempo di fondare gli Young Americans for Freedom, un movimento giovanile che «si diffuse come un incendio attraverso il paese», surclassando per numero di iscritti gli Students for a Democratic Society.

A nulla sarebbe servito tutto questo fervore intellettuale, però, se la destra americana non avesse iniziato a lavorare anche sul terreno, impervio ed insidioso, della militanza politica. Fino agli anni di Goldwater, i “foot-soldiers” conservatori erano male organizzati e soprattutto divisi: repubblicani al nord-est e nel Midwest, democratici negli Stati del Sud. Con la candidatura alle presidenziali del senatore dell’Arizona partì la cosiddetta “southern strategy”: il tentativo di conquistare una maggioranza strutturale in Stati che tradizionalmente, dopo la guerra civile, avevano sempre votato per i democratici. Nel 1950, il Gop non aveva neppure un senatore eletto in uno stato del Sud e soltanto due congressmen su un totale di 105. E nel mezzo secolo precedente, i repubblicani avevano vinto un’ottantina scarsa di sfide per il Congresso su un totale di 2.565 (di cui la metà in un paio di distretti del Tennessee). Oggi, gli Stati a sud della linea Mason-Dixon sono il cuore della Bush Country: nel 2004 il presidente ha vinto l’85 per cento delle contee nella regione e i repubblicani hanno eletto 22 senatori su 26.

Micklethwait e Woolridge insistono molto sull’impatto della battaglia per i diritti civili nello sviluppo della “southern strategy” repubblicana. Ma se questo può parzialmente spiegare il successo del Grand Old Party al Sud, non dice granché sul secondo pilastro geografico dei Goldwater Republicans: il West, la terra di alcuni tra i più chiassosi ed originali supporter del senatore. «Qui nel West – disse una volta Goldwater – non siamo costantemente afflitti dalla paura di quello che potrebbe accadere nel futuro. Il rischio fa parte della vita umana». E nelle città in rapida espansione del Texas, del Nevada e dell’Arizona, o negli sterminati sobborghi californiani, trovò fiato e voce l’anima più libertaria ed individualista della destra americana. Il cuore di quella “leave-us-alone coalition” che, unita al Sud tradizionalista da un’alleanza sempre sul punto di esplodere (ma che i “nemici” comuni riescono sempre a ricompattare), garantisce alla Right Nation quell’inconfondibile aroma anti-establishment che ne esalta la forza rivoluzionaria e le permette, ad ogni generazione, di trovare ampi consensi nelle fasce più giovani della popolazione.

Barry Goldwater, grazie al lavoro dei propri foot-soldiers e alle idee innovative dei think-tank che lo sostenevano, riuscì a strappare la nomination per le presidenziali del 1964 a Nelson Rockfeller e alle élite aristocratiche che fino ad allora avevano dominato le dinamiche interne del partito repubblicano. Il suo progetto politico, spinto anche da un vento demografico che spingeva sempre più cittadini statunitensi verso il Sud e verso l’Ovest, era certamente troppo in anticipo sui ritmi della storia. Tanto che il candidato democratico Lyndon Johnson vinse comodamente la sfida per la Casa Bianca con oltre 15 milioni di voti di vantaggio, conquistando 44 Stati su 50. Ma la rivoluzione era appena iniziata.

La morte annunciata del liberalism

Se Richard Nixon, nella sconfitta di misura contro John Fitzgerald Kennedy del 1960, aveva potuto contare su 50mila supporter individuali, quattro anni più tardi Goldwater – sconfitto molto più nettamente da Johnson – era riuscito a radunare intorno a sé un esercito di quasi 4 milioni di volontari. Si trattava (ancora) di una minoranza, ma di una minoranza estremamente motivata e disciplinata, pronta a tralasciare ogni possibile diversità di vedute per lavorare verso un obiettivo comune. Quando Johnson, nel 1968, lasciò la Casa Bianca, i repubblicani avrebbero governato per 20 anni su 24.

Dal 1964 al 1980 la destra guadagnò terreno in ogni settore della vita pubblica, grazie anche alla singolare vocazione al suicidio di un mondo liberal che si spingeva sempre più a sinistra, distaccandosi velocemente dall’America mainstream, dalle sue idee e dalle sue aspirazioni. Della Great Society di Johnson abbiamo già detto, e non c’è molto da aggiungere per chi – come noi europei – ha assistito all’ascesa e poi al tracollo del mito del welfare state. Ma negli Stati Uniti ebbe un ruolo devastante anche la progressiva politicizzazione della Corte Suprema che, sentenza dopo sentenza, demolì le fondamenta stesse della società tradizionale americana. Fino al caso Roe vs Wade con cui, nel 1973, l’aborto venne considerato alla stregua di un metodo anti-concezionale per coppie particolarmente distratte.

Con la guerra in Vietnam, e l’esplosione incontrollata dei movimenti di contestazione, la sinistra radicale conquistò progressivamente il controllo del partito democratico. Il partito dei politicanti di origine irlandese e dei dixiecrats del Sud si trasformò, anno dopo anno, nel partito del “no alla guerra ad ogni costo”, delle femministe, delle black panthers e degli ambientalisti. In un partito che la maggioranza degli americani iniziò a percepire come fondamentalmente anti-americano.

Insieme all’anima moderata del movimento liberal, cominciò a morire anche il grande sogno post-marxista dei keynesiani, con la sua pretesa di controllare l’economia di mercato agendo astutamente su un paio di “leve” pubbliche. Gli Stati Uniti, come del resto tutto il mondo, conobbero l’incubo della stagflazione. E alla distruzione della famiglia tradizionale iniziarono ad accompagnarsi un disordine ed una criminalità sempre crescenti.

Richard Nixon, la falsa speranza

Se nel 1964 i cittadini americani convinti del ruolo positivo del governo della gestione dell’economia sfioravano il 62 per cento della popolazione, nel 1972 questo numero precipitò al 19. Ma proprio in questi anni la rivoluzione conservatrice venne frenata da un personaggio come Richard Nixon.

Nixon si presentò davanti all’elettorato americano nel 1968 come un conservatore. E sfruttando la voglia di rivincita della Right Nation, oltre alla scissione dixiecrat del governatore dell’Alabama, George Wallace, venne eletto alla Casa Bianca. Ma la sua amministrazione navigò con il timone spostato molto più a sinistra di quella di Eisenhower. Giocando sulla reazione della “maggioranza silenziosa” agli anni della contestazione, Nixon riuscì comunque ad ottenere una travolgente rielezione nel 1972, prima di essere travolto a sua volta dallo scandalo Watergate. Nel 1974, dopo le inutili dimissioni del vicepresidente Spiro Agnew, Nixon fu costretto ad arrendersi, lasciando ancora una volta il movimento conservatore sull’orlo del tracollo. Appena il 20 per cento degli americani si riconosceva ormai nel partito repubblicano. E per Richard Vignerie, il re conservatore del direct-mailing, entro una decina d’anni non ci sarebbe stata più di «una dozzina di repubblicani in tutto il paese». Vignerie, come gran parte dell’establishment liberal, sbagliò grossolanamente i propri calcoli. Perché ancora una volta, proprio durante i suoi anni più oscuri, il movimento conservatore trovò nelle proprie idee e nella propria compattezza organizzativa la forza per uscire dal tunnel in cui Nixon l’aveva cacciato.

Quei magnifici anni Settanta

Gli eccessi della sinistra, infatti, rappresentarono un’occasione d’oro che la destra non si lasciò sfuggire. Dal 1970 in poi, gli economisti della Chicago School vinsero più premi Nobel di chiunque altro (e trasformarono per sempre il sistema delle pensioni in Cile). La sensazione diffusa era che il vento intellettuale della nazione stesse cambiando. Una serie di pensatori liberal di New York e Boston, soprattutto di origine ebrea, si decisero finalmente ad abbandonare una sinistra sterile sia sotto il profilo ideale che sotto quello scientifico, per abbracciare – a modo proprio – la grande famiglia conservatrice. Irving Kristol, Daniel Bell, Seymour Martin Lipset e Nathan Glazer furono, fra gli altri, i “fondatori” di quello che più tardi venne etichettato come movimento dei neo-conservatori. Provenendo dal mondo accademico, i neocon ebbero un ruolo importante, come scrivono Micklethwait e Woolridge, nel «decorare le tradizionali intuizioni conservatrici con il linguaggio delle scienze sociali». Bastò la presenza di questi discepoli di Leo Strauss, nelle università americane, per portare il virus della competizione nelle scienze politiche, come la scuola austriaca e i Chicago Boys avevano fatto nel mondo dell’economia.

Quello che i neocon riuscirono a fare meglio, in ogni caso, fu costruire un network di istituzioni capace di far sopravvivere il messaggio conservatore in un mondo dominato dagli accademici liberal. La rivista quadrimestrale Public Interest fu fondata nel 1965, mentre il mensile Commentary, diretto da Norman Podhoretz, denunciò a più riprese i limiti e gli eccessi del pensiero-unico instaurato dalla sinistra. Irving Kristol, che aveva abbandonato il trotskismo per la destra nel 1942 (potenza della seconda guerra mondiale), dopo aver contribuito alla nascita di Public Interest diede vita anche al magazine di geopolitica National Interest e riuscì a smuovere la compassione – e soprattutto il portafoglio – del ministro del Tesoro di Nixon, William Simon, che investì somme cospicue nelle fondazioni e nelle riviste del movimento.

Kristol, insieme a Jeane Kirkpatrick, approdò infine all'americano Enterprise Institute, che conobbe uno straordinario periodo di espansione, decuplicando nel ventennio ’60-’80 le proprie entrate, superando la soglia dei 10 milioni di dollari all’anno e facendo mangiare la polvere al Brookings. Alla fine degli anni Settanta, l’AEI poteva contare su una cinquantina di ricercatori a tempo pieno, molti altri ricercatori aggiunti, quattro pubblicazioni periodiche e uno show televisivo. Quando William Baroody morì, nel 1981, questo straordinario patrimonio (non solo intellettuale) venne ereditato da suo figlio Bill, che lo gestì fino al 1986.

Chi non aveva invece la pretesa di essere una “università senza studenti” era la Heritage Foundation, fondata nel 1973 con lo scopo di «elaborare e promuovere strategie politiche basate sui principi del libero mercato, della limitazione dell’interventismo statale, delle libertà individuali, dei valori tradizionali americani e della difesa nazionale». La Heritage, molto poco “neo” e più solidamente conservative, divenne ben presto un formidabile gruppo di pressione politica: un mastino capace di generare riforme e di farle camminare speditamente al Congresso.
Più tardi, nel 1977, anche l’anima più schiettamente libertarian della destra americana si organizzò intorno ad una fondazione, il Cato Institute, che è stato in grado (solo per fare un esempio) di studiare come nessun altro i temi legati alla riforma del sistema di sicurezza sociale.

I finanziatori del network

Questa rete di think-tank sarebbe potuta sopravvivere a stento, in un ambiente fortemente ostile come il mondo accademico americano, se un nutrito e generoso gruppo di finanziatori non avesse, almeno all’inizio, garantito un flusso – costante e sostanzioso – di denaro. Il primo di questi che Micklethwait e Woolridge definiscono «Medici del rinascimento conservatore» fu Joseph Coors, magnate della birra e padre di Peter, che quest’anno ha corso con il partito repubblicano (perdendo di misura) nel collegio senatoriale del Colorado. Coors, convinto a finanziare il movimento conservatore dalla lettura di un lungo memorandum scritto da Lewis Powell (che più tardi sarebbe stato nominato da Nixon alla Corte Suprema), donò 250mila dollari alla Heritage Foundation, prima di aiutare un grande numero di fondazioni della destra, tra cui l’Indipendence Institute e Accuracy in the Media. Richard Mellon Scaife, erede della famiglia Mellon, fu uno dei primi sostenitori di Goldwater e lo shock della sua clamorosa sconfitta lo convinse che la Right Nation doveva essere aiutata a crescere. Grande finanziatore della Heritage, Mellon Scaife – secondo una stima del Washington Post – ha donato a diverse cause conservatrici un totale di 340 milioni di dollari dal 1960 al 2000 (qualcosa come 620 milioni di dollari in valuta di oggi). La famiglia Koch, con il padre Fred ma anche i suoi figli David e Charles, hanno donato grandi quantità di denaro al movimento libertarian, contribuendo alla fondazione del Cato Institute. David Koch ha anche corso come candidato alla vicepresidenza per il partito libertarian nel 1980. Harry Bradley e Robert Welch hanno a più riprese aiutato la National Review negli anni Sessanta, e la loro fondazione ha addirittura tentato (senza riuscirci) la scalata al settimanale Newsweek per trasformarlo in un magazine di orientamento conservatore. Il miliardario John Merril Olin, infine, attraverso la Olin Foundation, ha sostenuto le ricerche dell’Università di Chicago e finanziato giornali come Public Interest e singoli studiosi come Robert Bork e lo stesso Irving Kristol.

Si tratta soltanto di cinque esempi, che testimoniano però lo stretto legame esistente tra una parte del mondo imprenditoriale statunitense e le riviste o le fondazioni che, della difesa del libero mercato e dello spirito d’impresa, hanno sempre fatto una delle loro battaglie culturali dei loro principali cavalli di battaglia.

Arriva Ronald Reagan

Grazie al “rinascimento intellettuale” del conservatorismo e alla capillare organizzazione sul territorio guidata da condottieri come Phyllis Schlafly, Paul Weyrich, Richard Viguerie e Terry Dolan, alla fine degli anni Settanta la destra americana era pronta a qualsiasi scontro politico ed elettorale. Mentre la moral majority tirava le fila del tradizionalismo religioso e pianificava la fase finale della southern strategy in North Carolina, Virginia, Arkansas e Alabama, nel profondo West una pattuglia di conservatori anti-establishment – come Holmes Tuttle, Cy Rubel, Walter Annenberg e Henry Salvatori – preparava la più grande rivolta fiscale dai tempi della guerra d’indipendenza. Ideato da Harold Jarvis, il referendum anti-tasse proposto in California, passato alla storia come “Proposition 13”, conquistò i cuori della West Coast, convincendo perfino Margaret Thatcher della possibilità di dare vita ad un vero movimento conservatore sull’altra sponda dell’Atlantico. Pur sconfitta in Congresso, una proposta di legge firmata Jack Kemp e William Roth si spingeva fino a prevedere un taglio fiscale generalizzato intorno al 30 per cento. E le idee degli economisti della supply-side, da Arthur Laffer a Jude Wanniski, iniziarono a scuotere le coscienze del paese, spinte anche dagli editoriali del Wall Street Journal firmati da Robert Bartley. I tempi erano maturi, insomma, per un leader in grado di capitalizzare la frenetica attività di questo movimento politico e culturale. E la risposta a questa domanda di carisma si chiamava Ronald Reagan.

Il primo presidente americano a richiamarsi direttamente ai valori del western conservatism fu eletto, nel 1980, tra lo scherno e gli sberleffi della comunità internazionale. Senza entrare troppo nei dettagli del doppio-mandato reaganiano, visto che la sua recente scomparsa ha permesso perfino agli italiani di conoscere un po’ meglio questa straordinaria figura della storia contemporanea, ricordiamo soltanto che Reagan fu eletto per la prima volta vincendo 44 Stati e 489 voti elettorali, regalando tra l’altro al partito repubblicano la maggioranza al Senato per la prima volta in un quarto di secolo. E fu rieletto, nel 1984, con 14 punti percentuali di distacco sul suo avversario, Walter Mondale, lasciandogli solo lo Stato natìo del Minnesota e le cicatrici della sconfitta più bruciante mai patita dal candidato di un partito maggiore negli ultimi cinquant’anni (Alf Landon contro Franklin D. Roosevelt). Per la prima volta, un esponente riconosciuto della Right Nation entrò alla Casa Bianca. E nella sua amministrazione trovarono posto personaggi che avevano collaborato all’organizzazione del movimento conservatore, come Jeane Kirkpatrick, oltre a qualche giovane neocon.

I conservatori duri e puri hanno a volte criticato alcune strategie dell’amministrazione Reagan, ma non è possibile dimenticare che le sue conquiste più macroscopiche erano tutte, nessuna esclusa, scritte da tempo immemorabile nel “libro dei sogni” del movimento: la vittoria nella Guerra Fredda, la restaurazione dell’orgoglio nazionale americano, la rivitalizzazione di un’economia ormai morente, il ridimensionamento del potere sindacale, l’aumento delle spese militari, una serie di tagli alle tasse tesi ad indebolire il principio della progressività fiscale, la nomina di giudici conservatori alla Corte Suprema. Se Berlusconi crede di essere l’uomo della Provvidenza, Reagan fu, per la destra americana, la Provvidenza in persona.

Bush, Clinton e Gingrich

Nel 1988, alla fine del secondo mandato di Reagan, il movimento conservatore appariva più forte che mai. Dal 1972 al 1986 la “media di gradimento” del Congresso compilata ogni anno dall’American Conservative Union crebbe dal 63 al 75 per cento. La destra religiosa conquistava sempre più consensi nel Sud del paese, approfittando anche della deriva sinistrorsa del partito democratico. Niente, e nessuno, sembrava in grado di fermare l’avanzata della Right Nation.

I conservatori, però, non avevano fatto i conti con George Bush, vicepresidente di Reagan, che dopo aver conquistato la Casa Bianca contro l’ennesimo liberal democratico del New England, Michael Dukakis, si allontanò a grandi passi dagli ideali politici della sua base per tornare verso un moderatismo annacquato che permise, nel 1992, la crescita prepotente (alla destra del partito repubblicano) di un moto di ribellione populista guidato dal miliardario texano Ross Perot. I quattro anni della presidenza di Bush Sr. si conclusero, per il movimento conservatore, con una guerra fratricida senza precedenti, segnando il temporaneo – ma nettissimo – distacco tra i vertici del Grand Old Party e il cuore della Right Nation.

I dodici anni tra il 1988 e il 2000, che qualcuno ancora chiama gli anni Bush-Clinton, sono stati spesso considerati un disastro dalla destra americana, che però riuscì a trovare, ancora una volta, la forza di reagire alla crisi che l’aveva colpita. Dopo il primo, imbarazzante, biennio della presidenza Clinton, con il socialisteggiante piano di riforma della sanità pubblica ideato dalla first-lady Hillary, i repubblicani conquistarono il controllo del Congresso alle elezioni di mid-term del 1994, grazie a quel Contract with America di Newt Gingrich che avrebbe fatto scuola anche al di qua dell’Atlantico.

Gingrich è una figura complessa, che anche Micklethwait e Woolridge non resistono alla tentazione di “macchiettizzare” nel loro libro. Visto da destra, però, lo Speaker è stato – negli anni in cui ha gestito il potere in prima persona ma soprattutto nel periodo che ha preceduto la sua ascesa politica – una incarnazione quasi perfetta dell’eclettismo, dell’originalità e (perché no?) delle contraddizioni della Right Nation. L’ex Speaker repubblicano della Camera, appassionato di nuove tecnologie ma anche di rievocazioni storiche, intuì per primo la possibilità di battere i democratici con le loro stesse armi, per esempio sfruttando le telecamere di C-Span al Congresso per far conoscere a tutto il paese la deriva radicale della sinistra americana.

Uomo dell’anno per la rivista Time nel 1995, Gingrich è già considerato da alcuni storici come lo Speaker più influente del Ventesimo secolo. E ha senza dubbio cambiato, come solo Reagan era riuscito a fare prima di lui, lo stile e la sostanza del dibattito politico americano. Per poi cadere, come molti altri conservatori “pericolosi” nella storia degli Stati Uniti, sotto il fuoco di sbarramento dei mainstream media che lo costrinse ad abbandonare la leadership del partito alla Camera. Sotto la sua guida, il movimento conservatore recuperò grinta e organizzazione sul territorio, scavando nei segreti inconfessabili della famiglia Clinton – dallo scandalo Whitewater al suicidio di Vince Foster, fino al «I never had sex with that woman» di Monica Lewinsky che costerà la procedura di impeachment al presidente – e raccogliendo i primi frutti di una strategia di “bilanciamento” del sistema dei mass media di cui ci occupiamo estesamente negli altri articoli di questa sezione di Ideazione.

George W. Bush e Karl Rove

L’ultimo capitolo è storia del presente. Dal 1994 in poi l’amministrazione Clinton perde gran parte delle sue smanie liberal, lasciando al Congresso repubblicano il compito di dettare i ritmi e le priorità dell’agenda politica nazionale.

La Right Nation, dopo aver costruito le sue solide fondamenta culturali, dilaga nel mondo dell’informazione. Questi sono gli anni in cui nasce il Weekly Standard (e da una sua costola il Project for a New American Century), si rafforza la popolarità dei talk-show radiofonici di Rush Limbaugh, cresce il Manhattan Institute newyorkese di Rudolph Giuliani, vengono pubblicati libri come The Bell Curve di Charles Murray, in cui per la prima volta ci si sbarazza di una serie interminabile di luoghi comuni propagandati dalla sociologia del “politicamente corretto”. Ma anche le fondazioni continuano a spuntare freneticamente: dal Discovery Institute di Seattle (fondato dal futurologo George Gilder) al Club for Growth, dall’Hudson Institute al National Center for Policy Analysis.

I foot-soldier statunitensi vengono chiamati a raccolta, e costretti a confrontare le proprie idee con gli alleati, nei meeting organizzati dal fondatore degli Americans for Tax Reform, Grover Norquist; partecipano ai pranzi con cui Paul Weyrich fa incontrare la base degli attivisti con i senatori e i congressmen repubblicani; passano il loro tempo libero nei Dark Age Weekend o nelle crociere di studio della National Review; elaborano le proprie piattaforme politiche nel Conservative Political Action Committee e nell’American Conservative Union; alimentano le iniziative di lobby come la National Rifle Association o Focus on the Family, che ha progressivamente preso il posto della Christian Coalition dopo l’abbandono di Ralph Reed e Gary Bauer.

Clinton viene rieletto nel 1996, grazie ancora una volta ai voti sottratti al GOP da Ross Perot, al buon andamento dell’economia statunitense e all’incomprensibile scelta “moderata” di Bob Dole da parte del partito repubblicano (appena temperata dalla candidatura alla vicepresidenza del liberista Jack Kemp). Ma la strategia della “triangolazione” ideata dal suo consigliere Dick Morris, oggi editorialista del New York Post, che posiziona il presidente a metà strada tra democratici e repubblicani, può soltanto rimandare la resa dei conti finale, che arriverà nel 2000 con la sconfitta di Al Gore, in una elezione presidenziale che, secondo tutti i parametri della scienza politica, il partito di Clinton non avrebbe mai dovuto perdere. Neppure con lo scarto minimo che ha portato all’infuocato recount della Florida.

Nel 2000 la Right Nation trova un leader insospettabile nel figlio del presidente repubblicano più odiato (almeno in tempi recenti) dagli attivisti del movimento conservatore. George W. Bush, a differenza di suo padre, è cresciuto in Texas ed è un fiero interprete dei valori del “western conservatism”. Con il cuore più sintonizzato sulle frequenze reaganiane che su quelle di Bush Sr., Dubya fa la pace con la destra religiosa, promette cospicui tagli alle tasse per soddisfare gli appetiti dell’ala libertarian del movimento e trova una sintesi tra le diverse anime della destra con il “compassionate conservatism”. L’operazione, condotta con straordinaria meticolosità organizzativa dal suo “architetto” Karl Rove, riesce per un soffio, visto che a poche ore dalle elezioni i media, imbeccati dalla spin-machine democratica, diffondono la notizia di un arresto per guida in stato di ubriachezza negli anni dissoluti della sua giovinezza. Bush Jr. credeva di aver già fatto i conti con il suo passato, ammettendo gli errori compiuti prima dei 40 anni, ma lo “scoop” gli aliena le simpatie di una parte della comunità evangelica che all’ultimo momento decide di non andare a votare. Il candidato repubblicano, in lieve ma indiscutibile vantaggio in tutti i sondaggi, viene raggiunto e quasi superato da Al Gore. E soltanto la Corte Suprema, dopo un mese di selvagge battaglie nelle piazze e nei tribunali, riesce a sventare il putsch tentato dal partito democratico in Florida per assicurarsi la vittoria finale.

Il margine risicatissimo dell’affermazione, però, convince Rove della necessità di recuperare quei 4 milioni di voti repubblicani che, secondo i suoi calcoli, sono mancati all’appello. Fino al 2 novembre questa teoria, che concede poco spazio al corteggiamento degli swing-voters e si concentra sulla mobilitazione e sul coinvolgimento della propria base elettorale, viene archiviata nel “bestiario” della solita destra paranoica e cialtrona che l’élite dei mainstream-media e delle università non perde occasione per dileggiare. Ma sotto la guida di Rove il movimento conservatore riesce a compiere un capolavoro tattico, sfruttando al meglio la potenza di fuoco mediatica faticosamente costruita nei decenni precedenti – dalle radio ai blog su Internet – per opporsi alla più poderosa campagna di disinformazione mai orchestrata contro un candidato alle elezioni presidenziali. I repubblicani combattono stato per stato, contea per contea, casa per casa. E gli stessi analisti che prefiguravano un esercito di giovani elettori in marcia per cacciare Bush dalla Casa Bianca e restituire l’America al proprio destino, si svegliano la mattina del 3 novembre osservando un distacco di tre milioni e mezzo di voti tra il presidente e il suo avversario democratico, John F. Kerry. I leader della Right Nation, ancora una volta, avevano visto più lontano dei loro avversari.

9 febbraio 2005

mancia@ideazione.com

 

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