Destra e radio, alto gradimento
di Giuseppe De Bellis
da Ideazione, gennaio-febbraio 2005

Sarà stato un caso, o forse no, ma il presidente degli Stati Uniti George W. Bush ha scelto un sabato per dire agli americani che lui, il comandante in capo, nel suo secondo mandato tiene particolarmente a una cosa: la riforma dell’intelligence. Il sabato mattina, il giorno della radio. Data per morta come mezzo di informazione, sembrava destinata alla cantina anche come strumento politico. Era stata la grande arma di Franklyn Delano Roosevelt, mica poteva continuare in eterno, dopo il 2000, con la Tv e il web di fronte. E invece negli Usa la radio è ancora un mezzo fondamentale per la comunicazione politica. L’hanno dimostrato le ultime elezioni presidenziali: il partito repubblicano e l’intero movimento conservatore l’hanno sfruttata alla grande. Perché va bene la televisione, va benissimo Internet, ma la radio arriva dovunque, arriva al cuore, arriva alle orecchie. Arriva al cervello. L’ha capito perfettamente la destra Usa: la radio andava “occupata”. L’ha compreso non ora, ma almeno vent’anni fa quando diventò evidente che lì c’era un vuoto che poteva essere riempito.

Al di là di quello che dicono i mezzi d’informazione di mezzo mondo, Italia compresa, dicono, la gran parte dei giornali e delle televisioni Usa sono in maggioranza democratici, con tendenze liberal. Così c’era un nuovo west da conquistare. Adesso non c’è un solo americano che non possa dire che la radio sia territorio conservatore. È accaduto in sostanza il contrario di quello che è successo in Italia. Da noi la radio in passato era il monopolio della tradizione. Poi arrivarono le radio libere, feudo dei movimenti di matrice di sinistra. Negli Usa, no. Nel 1980, secondo un’indagine della rivista Talkers Magazine, le stazioni erano in tutto 75. Figlie e parenti dei grandi network, oppure emittenti cittadine specializzate in programmi sulla vita metropolitana: radiogiornali veloci e precisi, ma essenzialmente locali; appuntamenti teatrali, servizi sul traffico. Oggi, invece, le radio sono circa 1.300, molte sono nazionali, oppure lo diventano grazie al sistema della syndication, ovvero il consorzio di emittenti piccole che si uniscono per riversare i propri contenuti attraverso stazioni gemellate su tutto il territorio. La stragrande maggioranza, comunque, ospita programmi di stampo conservatore.

Così messaggi e argomenti sui quali premono i repubblicani arrivano a milioni di americani e danno loro la possibilità di avere un punto di vista alternativo a quello che invece propone il resto del mondo dei media. La crescita dell’influenza della radiofonia politica conservatrice è stata testimoniata in California, durante la campagna elettorale che ha portato Arnold Schwarzenegger sulla poltrona di governatore. Il deputato repubblicano Darrell Issa e l’ex attore trasformatosi in politico sono stati gli uomini simbolo della voglia californiana di mandare a casa il governatore uscente Gray Davis. A dar loro la spinta, però, è stata la gente comune che inondava di telefonate, messaggi, e-mail i talk show radiofonici. La “scintilla”, l’ha definita il Los Angeles Times. Ted Costa, di People Advocate, l’associazione che ufficialmente richiese il “recall” del governatore Davis, sostiene che le radio conservatrici sono state il vero motore della macchina che ha portato la California alle urne. A raccogliere la scintilla, trasformandola in una miccia, sono stati Eric Hogue, conduttore di un talk show in una stazione di Sacramento (Ktkz) e Roger Hedgecock, host di una di San Diego (NewsRadio 600 Kogo). Arrivata a loro, l’ondata anti-Davis s’è trasformata in un ciclone inarrestabile. Perché c’è una caratteristica che contraddistingue le voci e le personalità del mondo radiofonico conservatore: hanno il polso dell’America profonda, quella che il 2 novembre ha dato al presidente Bush altri quattro anni di mandato. È l’America che pende dalle labbra di Melanie Morgan della Ksfo di San Francisco, città liberal “contaminata” da questa signora che andò per la prima volta al microfono nel 1981 nell’emittente del suo college a St. Charles, Missouri, quando aveva 16 anni e da allora non si è più staccata. Nel suo programma, la Morgan dà notizie, ma con la sua personale chiave di lettura, repubblicana, attenta ai valori della tradizione americana.

Prima che la sfida per mandare a casa mister Davis arrivasse a Issa e Schwarzenegger, Melanie si era già conquistata il nomignolo di “madre del recall”.Hedgecock, Houge e Morgan sono tutti eredi del guru della ventata conservatrice della radio americana: Rush Limbaugh. È lui l’uomo intorno a cui ruota la rivoluzione. Ogni volta che nel suo studio si accende la lucina rossa “on air” 13 milioni di americani sono lì pronti ad ascoltarlo. Limbaugh si è assunto il compito di educare gli statunitensi ai princìpi della tradizione conservatrice. Stigmatizza tutti i giorni e in tutto il paese gli errori e i peccati di quei democratici e di quei progressisti che letteralmente lo odiano. Eppure non è affatto un ideologo fanatico; anzi, ha ben presente la necessità della tattica politica e a volte addirittura dei compromessi. «Ciò che importa è vincere le elezioni», ha detto nel 2000 e ha ripetuto qualche mese fa durante la campagna elettorale 2004. «Senza vittoria non c’è potere, e quindi, ancorché giusti, senza potere i princìpi che si professano risultano inservibili».

Grande supporter del modo in cui Bush sta conducendo la guerra al terrorismo (una causa trasversale a tutto lo spettro politico statunitense), Limbaugh ritiene che il presidente non voglia sacrificare parte della sua popolarità per difendere l’agenda conservatrice in politica interna. Qualche esempio? L’appoggio presidenziale alla legge sulla scuola che ha aumentato sia la spesa, sia l’interferenza governativa nel comparto educativo; l’avere accettato la creazione di una nuova burocrazia federale di agenti addetti alla sicurezza aeroportuale; la volontà di stimolare l’economia attraverso l’aumento della spesa nazionale; e la debole opposizione alla riforma della legge elettorale varata dal Congresso, che riduce in modo drastico la possibilità dei vari gruppi d’interesse di finanziare l’elezione di candidati politici graditi.

Emblema della rivoluzione reaganiana degli anni Ottanta, beniamino della fedeltà ai valori cristiani del paese, Limbaugh è diventato il talk-radio host più seguito d’America parlando la stessa lingua della gente che l’ascolta. È diretto, graffiante, ai limiti dell’offesa quando si parla di ambientalisti, femministe, gay oppure del suo bersaglio preferito: i liberal. I quali da parte loro hanno commesso un errore (uno dei grandi errori): ignorarlo. Nella mente di ogni liberal, Limbaugh non esiste. È talmente ridicolo che sarebbe un insulto alla propria intelligenza tentare di confutare le sue affermazioni. Soltanto quando qualcuno li obbliga a rendersi conto che Rush c’è, allora ripetono che lui «ha costruito il suo impero sulla menzogna». Per gli strateghi democratici «il suo genio sta nel creare costantemente più pubblicità per le proprie affermazioni di quanta ne avranno le dimostrazioni della loro falsità». Gli Stati Uniti sofisticati, quelli delle metropoli, delle università progressiste lo detestano, identificandolo con la parte “sbagliata” del paese, quella della pistola facile, quella del Sud, delle campagne. L’hanno ignorato e odiato, i progressisti snob. Così l’hanno lasciato indisturbato: Limbaugh ha avuto tutto il tempo di diventare un beniamino (se non un vero e proprio eroe) delle folle. E nelle elezioni del 1992 ha certamente pesato sul trionfo storico dei repubblicani e sul passaggio del loro “contratto con l’America”. Altro risultato è stato che dal 1995 il suo talk show è un successo continuo: viene trasmesso da 650 stazioni radiofoniche e oltre 250 stazioni televisive. Sono circa venti milioni al giorno gli ascoltatori.

Limbaugh è tutt’altro che un semplicione. Argomenta, con il suo stile, ma argomenta. Durante le ultime elezioni presidenziali i suoi show erano un appuntamento fisso per conoscere tutte le deviazioni quotidiane di “flip-flop” Kerry. Milioni di americani pronti ad ascoltare il perché il nuovo Jfk era l’uomo sbagliato, mentre il presidente era comunque la persona giusta per portare a termine la guerra al terrore.

Sotto l’ala di Rush cresce anche Sean Hannity, conduttore anche di uno show televisivo su Fox News, altro rappresentate della resurrezione conservatrice della radio Usa. Una resurrezione che ha cavalcato un sentimento popolare. Stanchi di avere dei mezzi d’informazione così “alti” da non dare mai spazio alla gente comune, gli americani hanno individuato in un telefono collegato a un microfono radiofonico lo strumento per dire al paese e a chi li governa di che cosa hanno bisogno. E allora i democratici continuano a specchiarsi nei commenti dei columnist più prestigiosi, lasciando ai repubblicani il compito di individuare l’anima vera degli Stati Uniti, di cavalcare idee e valori. Questi talk show danno la possibilità a persone che fino a oggi ne erano stati prive l’accesso alla comunicazione politica e sembrano consentire e facilitare la partecipazione democratica al processo politico. Sono trasmissioni call-in, nelle quali gli ascoltatori sono il programma e telefonano per manifestare la loro opinione sui più disparati temi di attualità e politica, interagendo con un conduttore che, a parte una certa facilità di parola, non sembra distinguersi dai suoi ascoltatori né per particolari conoscenze né per cultura. Chi è dall’altra parte, con un microfono sotto la bocca e una platea collegata in tutta la nazione, dà voce alle frustrazioni e alle opinioni di ogni singolo ascoltatore. E l’audience li segue, telefona per aggiungere benzina al fuoco della rabbia contro i politici, i liberal, contro John Kerry ieri e Hillary Clinton domani, contro i media troppo progressisti e snob, contro i difensori dei diritti civili, gli abortisti e gli oppositori della pena di morte. Che piaccia o no è la gente. Quella che vota nelle democrazie.

9 febbraio 2005

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