La paladina del capitalismo
di Marco Faraci
da Ideazione, novembre-dicembre 2004
È interessante notare come la figura di Ayn Rand, che si è saputa
conquistare con merito uno spazio di estremo rilievo all’interno della
cultura americana, sia rimasta nei decenni sostanzialmente ignorata nel
nostro paese, al punto che il suo romanzo più importante e politicamente
significativo, La rivolta di Atlante, non ha più conosciuto edizioni
italiane dopo quella originaria del 1958. Evidentemente la cultura
italiana, intrisa di statalismo fino all’anima, non poteva tollerare una
pensatrice che allo Stato onnipotente muoveva una critica tanto radicale
quanto logica.
Tuttavia il nostro mondo politico e culturale non potrà esimersi ancora
a lungo dal confrontarsi con la portata del messaggio della Rand a
favore della libertà individuale e del sistema capitalista, anche perché
le idee che ella ha elaborato e sistematizzato offrono un’importante
chiave di lettura per interpretare molti fenomeni storici e di attualità
– dalla parabola dei totalitarismi alla crisi dei sistemi di welfare
occidentali, dalla globalizzazione economica alle contraddizioni dei
nuovi movimenti di contestazione anti-industriale. Ayn Rand ha concepito
una filosofia politica e morale la cui radicalità consiste nel mettere
coerentemente al centro l’individuo e non entità superiori che lo
trascendono. I grandi regimi totalitari del Ventesimo secolo – in
particolare il comunismo ed il nazismo – hanno del resto posto le
proprie fondamenta ideologiche proprio sulla negazione dell’“io” e
sull’affermazione – al suo posto – del primato di appartenenze
comunitarie (che fossero razziali o di classe). In una simile ottica il
collettivo è tutto, mentre la vita dell’individuo non ha una dignità in
sé, bensì è funzionale esclusivamente all’edificazione di un qualche
disegno superiore, del quale lo Stato si fa interprete e garante. Se il
comunismo o il nazismo hanno portato la supremazia dello Stato
sull’individuo alle estreme conseguenze, anche i paesi democratici non
sono certo stati immuni dal fascino di concezioni statolatriche, tanto
che si è assistito anche lì, nel secolo appena concluso, ad
un’evoluzione del sistema economico e politico in senso sempre più
centralista e socialisteggiante.
La scrittrice russo-americana, dal canto suo, prende posizione contro
tutte quelle filosofie politiche e morali che vedono nell’uomo non un
valore in sé, bensì «un mezzo per i fini altrui», un ingranaggio di una
macchina, un animale sacrificale da immolare per il “bene comune”.
L’uomo è l’unico legittimo proprietario della sua vita e deve avere il
diritto di vivere per i propri valori e di cercare una piena
realizzazione di sé. In altre parole la Rand – in linea con la visione
che i Padri Fondatori hanno scolpito nella costituzione americana –
ritiene che l’uomo abbia il diritto di perseguire la propria felicità e
che ciò rappresenti il legittimo scopo morale della sua vita. Le
convinzioni etiche di Ayn Rand sul ruolo dell’individuo si traducono in
campo più strettamente politico in un sostegno privo di esitazioni ad un
modello economico capitalista di libero mercato, che ella definisce come
«un sistema politico-sociale basato sul riconoscimento dei diritti
individuali, tra cui i diritti di proprietà, nel quale tutte le
proprietà sono possedute da privati».
Negli anni molti studiosi hanno cercato di convincere la gente
dell’opportunità di un’economia più libera, sulla base prevalentemente
di argomentazioni utilitaristiche. Il capitalismo viene presentato da
questi come il sistema più adeguato per raggiungere scopi sociali di
creazione di ricchezza. Secondo la Rand non è possibile affermare una
seria difesa dell’economia libera solamente sulla base di considerazioni
efficientistiche. Il capitalismo deve essere sostenuto in primo luogo
attraverso argomentazioni morali. Anche se è innegabile che tale modello
sia quello maggiormente in grado di creare benessere per il maggior
numero di persone, la vera giustificazione del capitalismo è più
profonda e risiede nel fatto che esso «è l’unico sistema compatibile con
la natura razionale dell’uomo […] ed il cui principio ispiratore è la
giustizia». Esso infatti «è un sistema in cui gli uomini si rapportano
gli uni con gli altri non come vittime e carnefici, non come padroni e
schiavi, ma come mercanti, attraverso lo scambio volontario per il mutuo
beneficio. È un sistema in cui nessun uomo può ottenere qualcosa
ricorrendo alla forza fisica e nessuno può dare inizio alla forza fisica
contro gli altri». Quindi il capitalismo, ancor prima che un sistema
utile, è un sistema giusto perché è l’unico nel quale i diritti naturali
degli individui non sono soggetti ad aggressione ed il fatto che il
capitalismo funzioni in pratica è proprio conseguenza dei fondamenti
razionali di libertà sui quali è basato.
Solo la libertà, infatti, può generare la produttività. Sfortunatamente
oggi continuano a mancare la volontà e la capacità di sostenere queste
basi filosofiche dell’economia di mercato. Persino quelle forze moderate
e conservatrici che si dicono anti-comuniste non sono in grado nella
pratica di combattere la battaglia delle idee e di contrapporre al
socialismo una vera alternativa morale ed ideologica. Così il
capitalismo – almeno nella concezione che ne ha la Rand – è destinato a
restare ancora un “ideale sconosciuto”. È bene osservare che la netta
scelta di ordine morale che la filosofa russo-americana compie a favore
del sistema capitalista comporta anche il rifiuto della cosiddetta
economia mista, che poi rappresenta con differenti sfumature il modello
che si è affermato e tuttora vige in Occidente. Il presupposto
filosofico dell’economia mista è infatti l’equidistanza tra due modelli
ideologici, considerati entrambi inadeguati ed inapplicabili nella loro
forma più pura e coerente. Tuttavia la Rand ritiene che l’equidistanza
tra capitalismo e socialismo, cioè tra libertà e coercizione, alla lunga
porti inevitabilmente all’affermazione dei secondi. Infatti, una volta
accettato che “qualche volta” lo Stato ha il diritto di limitare i
diritti individuali, si afferma il principio che tali diritti non sono
inalienabili ma revocabili a discrezione della classe politica ed in
definitiva “condizionati” ad un bene superiore. Nell’analisi randiana
l’idea basilare del sistema capitalista è il diritto dell’uomo ai frutti
del proprio lavoro. Chi non può lavorare per sé ma è costretto a
lavorare a beneficio di altri non è un uomo libero, bensì uno schiavo.
Questo concetto, se affermato con coerenza, porta con sé conseguenze
estremamente rilevanti. Esso significa, in primo luogo, che un uomo non
può essere legittimamente spogliato dal governo dei propri beni per
sovvenzionare interventi “sociali” a favore di altre persone. Si tratta
chiaramente di una nozione che contrasta frontalmente con i regimi
politici vigenti che riconoscono al “pubblico” dei veri e propri diritti
di mezzadria su ciò che i singoli individui riescono a produrre. Il vero
problema, secondo la filosofa dell’Oggettivismo, è che nel lessico
comune il concetto di diritti è stato stravolto e snaturato. Ormai siamo
abituati a sentire parlare di “diritto” al lavoro, “diritto”
all’istruzione, “diritto” alla tutela della salute, eccetera. Ma tutti
questi “diritti” riconosciuti ad alcuni, altro non sono se non obblighi
imposti ad altri che devono sopportarne i costi. In altre parole se
alcune persone hanno “diritto al lavoro”, questo vuol dire che altre
persone hanno il dovere di pagare loro lo stipendio anche se non sono (o
non sono più) interessate alle loro prestazioni. Se alcune persone hanno
“diritto all’istruzione”, vuol dire che altre hanno l’obbligo di
sottostare a balzelli per finanziare quell’istruzione. Se alcune persone
hanno “diritto alla tutela della salute” vuol dire che altre persone
sono costrette a pagare imposte per garantire la loro salute. Se
concediamo ad alcune persone il diritto positivo ad avere gratuitamente
alcuni beni, vuol dire che stiamo condannando altre persone a lavorare
per pagare quei beni.
Secondo la Rand «ogni qualvolta un uomo vanti un presunto “diritto” che
rende necessaria la violazione dei diritti di un altro, non si può
parlare in nessun senso di diritto». Di conseguenza la nozione di
“diritti sociali” deve essere rigettata a favore di una visione liberale
dei diritti individuali, saldamente innestata nella tradizione
giusnaturalista. «Il diritto alla vita significa che un uomo ha il
diritto di sostenersi in vita per mezzo del proprio lavoro (al livello
economico raggiungibile dalle sue capacità) e non significa che gli
altri debbano fornirgli quanto gli è necessario per vivere. […] Il
diritto alla libertà di parola significa che un uomo ha il diritto a
esprimere le proprie idee senza temere il pericolo della soppressione,
dell’interferenza o di azioni punitive da parte dello Stato, ma non
significa che altri debbano fornirgli una sala per conferenze, una
stazione radiofonica o una tipografia per esprimere tali idee. […] Il
diritto al lavoro non esiste: quello che esiste è il diritto alla
libertà di scambio, cioè il diritto di accettare il posto di lavoro se
un altro decide di offrirlo. Analogamente non esiste il diritto alla
casa, bensì solo il diritto alla libertà di scambio, ovvero il diritto
di costruire o di acquistare una casa».
In un sistema di libero mercato ogni individuo ha la responsabilità di
provvedere alla propria sopravvivenza e può reclamare dagli altri solo
ciò che si è guadagnato, cioè solo l’esito del proprio lavoro. Il
capitalismo è pertanto un sistema di produttori. Se desiderano consumare
gli uomini, devono pagare per quello che consumano e cioè devono essersi
precedentemente guadagnati il denaro che intendono spendere. Non c’è
invece spazio per i parassiti ai quali non è garantita la possibilità di
usare la politica per “redistribuirsi” la ricchezza dei produttori. In
un sistema capitalista dunque è possibile accedere ai beni solamente
attraverso transazioni volontarie e non attraverso l’esproprio, cioè
attraverso il ricorso all’uso della forza. Dare inizio all’uso della
forza nei confronti di un innocente è immorale. Lo Stato può usare la
forza solamente come rappresaglia e solamente nei confronti dei
criminali, cioè nei confronti di coloro che per primi ricorrono alla
violenza. La protezione dell’integrità fisica e patrimoniale dei
cittadini è l’unica funzione legittima del governo, mentre deve
sussistere una completa separazione tra Stato ed economia. Anche la
tassazione rappresenta una forma di aggressione nei confronti dei
diritti degli individui. Lo Stato non può essere, infatti, considerato
il proprietario del reddito prodotto dai suoi cittadini e non può
vantare su di esso nessun assegno in bianco. In una società libera non
esistono “tasse”, ma solo “pagamenti di servizi”. Non si paga cioè una
penale su ciò che si è legittimamente guadagnato per il solo fatto di
averlo guadagnato – il che corrisponde ad affermare il principio
antimeritocratico secondo cui chi ha prodotto di più deve essere
penalizzato di più – bensì si paga solamente il corrispettivo di servizi
liberamente acquistati.
Naturalmente in un sistema capitalista lo Stato deve astenersi da
qualsiasi intervento in economia, che sia sotto forma di
regolamentazione, di divieto o di sussidio. In particolare lo Stato deve
portarsi totalmente fuori da settori quali la scuola, la sanità o la
previdenza. Non è neppure compito dello Stato occuparsi di alloggi o di
parchi, di strade o di ferrovie, allo stesso modo in cui non lo è
occuparsi di letteratura, di arte, di scienza, di “morale” o di
sessualità. Il governo deve anche astenersi dal pretendere di definire
il prezzo giusto di una certa merce od il salario giusto per un
determinato lavoro. In effetti è giusto esclusivamente quel prezzo di
una merce che sia liberamente accettato – in assenza di coercizione
legislativa – sia dall’acquirente sia dal venditore. Parimenti è giusto
esclusivamente quel salario che sia accettato – in assenza di
coercizione legislativa – sia dal dipendente sia dal datore di lavoro.
Particolare enfasi viene posta dalla filosofa sulla difesa del ruolo
dell’imprenditore al quale una certa propaganda ci ha abituato a pensare
come al prototipo del profittatore. Secondo la teoria marxista, la
creazione di ricchezza avviene attraverso il lavoro inteso come
manodopera, cioè attraverso il lavoro fisico degli operai. Secondo la
Rand invece la ricchezza è creata in primo luogo dalle idee, dalla
capacità dell’uomo di acquisire la conoscenza e di elaborarla,
incanalandola verso usi produttivi. L’imprenditore è il grande
innovatore che con il suo spirito di iniziativa riesce a creare
benessere compiendo i passaggi fondamentali che consistono nel tradurre
la scienza in tecnologia e la tecnologia in produzione. L’intrapresa
privata rappresenta, di conseguenza, per Ayn Rand una della forme in cui
più pienamente si manifesta la straordinaria capacità creatrice della
mente umana. E da lei viene un invito agli imprenditori ed agli uomini
d’affari a non cedere – per quieto vivere – alla tentazione
dell’appeasement nei confronti delle forze sindacali e socialiste. Gli
imprenditori devono avere il coraggio di difendere e di affermare la
moralità della propria azione, in altre parole devono avere il coraggio
di battersi per il capitalismo.
Significative, da questo punto di vista, le parole che la scrittrice
mette in bocca al personaggio di Hank Rearden in Atlas Shrugged: «Io
lavoro solo per il mio profitto – che realizzo vendendo un prodotto ad
uomini che ne hanno bisogno e che vogliono e possono comprarlo. Io non
lo produco per il loro beneficio e a mio danno così come loro non lo
comprano per il mio beneficio e a loro danno. Io non sacrifico i miei
interessi ai loro. Commerciamo come uguali con mutuo consenso e per un
mutuo vantaggio. Sono orgoglioso di ogni centesimo che ho guadagnato in
questo modo. Sono ricco e sono fiero di ogni centesimo che possiedo. Ho
ottenuto il mio denaro con i miei sforzi attraverso il libero scambio e
con il consenso volontario di ogni uomo con cui ho commerciato – il
consenso volontario di coloro che mi hanno assunto quando ho cominciato;
il consenso volontario di coloro che lavorano per me oggi; il consenso
volontario di coloro che comprano i miei prodotti. [...] Rifiuto di
accettare come una colpa il fatto che sono in grado di lavorare bene.
Rifiuto di accettare come una colpa il fatto che sono in grado di
lavorare meglio della maggior parte delle persone, che il mio lavoro ha
più valore di quello dei miei vicini e che più persone sono disposte a
pagarmi. Rifiuto di chiedere scusa per la mia abilità. Rifiuto di
chiedere scusa per il mio successo. Rifiuto di chiedere scusa per il mio
denaro».
Contro il socialismo
La Rand entra ovviamente in polemica anche con l’idea socialista secondo
cui gli imprenditori “sfruttano” i loro dipendenti. Ella non ritiene che
nell’ambito di rapporti che restino puramente nella sfera economica si
possa configurare uno sfruttamento. Come può l’imprenditore “sfruttare”
il lavoratore se quest’ultimo in qualsiasi momento può interrompere
questo presunto sfruttamento mettendo fine al rapporto che lo lega al
primo? E qual è in fondo la massima penalità che l’imprenditore può
infliggere al lavoratore se non appunto liberarlo da qualsiasi tipo di
rapporto?
In effetti uno scambio economico può avvenire solamente in presenza del
consenso di entrambe le parti che lo intraprendono e quindi solamente se
entrambe le parti ritengono di trarre da esso un beneficio. È solo
attraverso la politica che si creano rapporti di sfruttamento in quanto
è esclusivamente lo Stato ad avere il potere di obbligare soggetti
economici a relazioni non consensuali e che almeno una delle due parti
non ritiene vantaggiose. Lo strumento dell’economia è la moneta, che
rappresenta il libero scambio e la cooperazione volontaria tra gli
individui. Lo strumento della politica è invece la pistola che
rappresenta la forza bruta e la coercizione. Si evidenzia quindi
l’essenziale differenza tra il potere economico ed il potere politico.
Il primo è l’esito della produzione e dello scambio. Il secondo invece è
l’esito della confisca e del saccheggio resi possibili dal controllo
dell’apparato statale. Esso è lo strumento nelle mani dei parassiti. La
scelta tra denaro e pistole è la scelta fondamentale di ogni società. Ad
essa non ci si può sottrarre, perché i rapporti tra gli uomini o sono
volontari o sono coercitivi. Non è data una terza possibilità. O si
basano sulla libera interazione – come i rapporti che hanno luogo nel
libero mercato – o si basano sul ricorso all’uso offensivo della forza.
Il possente armamentario teorico che la Rand ci ha lasciato rappresenta
uno strumento non da poco per perorare il successo della prima ipotesi e
smascherare le imposture e le connivenze che il “primato della politica”
sottende. Sta a noi la volontà di attingere da tale armamentario e di
rompere la conventio ad excludendum che in Italia si è prodotta nei
confronti di questa pensatrice. Quello che è certo è che l’idea della
politica come creatrice di valore – in qualsiasi ambito della vita
umana, spirituale o materiale – pare ormai avere fatto il suo tempo e
sembra davvero giunto il momento di riportare l’individuo al centro
dell’analisi sociale e di raccogliere la sfida randiana per un altro
mondo possibile. Un mondo di mercati liberi e di menti libere.
2 febbraio 2005
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