Un’ambiziosa sfida culturale
di Pierluigi Mennitti
da Ideazione, gennaio-febbraio 2005

Cari lettori, nei giorni in cui avrete tra le mani questo numero della rivista, l’intera redazione di Ideazione sarà negli Stati Uniti per un viaggio di studio. Dieci giorni densi di incontri e appuntamenti, con l’obiettivo di studiare il fenomeno delle fondazioni americane, quei think-tank che generano l’intenso dibattito culturale che da sempre vivifica la vita e l’azione politica della più grande democrazia del pianeta. Fondazioni che producono riviste di differente periodicità, che attingono sostanza dai migliori cervelli delle università, che gemmano commentatori e analisti capaci di disegnare gli scenari nazionali e internazionali sui quotidiani più influenti (che non sono necessariamente quelli più famosi all’estero), che organizzano convegni e seminari per dibattere e rendere popolari i temi del momento e del futuro. Fondazioni, infine, che intrattengono un rapporto forte e proficuo con i partiti politici di riferimento: ne consigliano l’azione, ne discutono le linee, qualche volta ne determinano le scelte. Sempre li accompagnano nel difficile compito di capire gli interessi degli elettori in una società frammentata e diversificata, come quella statunitense. Che, fatta qualche debita proporzione, assomiglia molto alla nostra.

Quel che non assomiglia a noi, in apparenza, è proprio la fertilità dell’ambiente culturale che dovrebbe sostanziare la natura dei partiti, formarne la cultura politica, proiettarne l’azione verso l’incrocio con gli interessi del paese e dei suoi elettori. Eppure, la nascita della cosiddetta Seconda Repubblica aveva, tra le varie opportunità, lasciato intravedere anche quella che i partiti abbandonassero l’elaborazione culturale interna, viziata di propaganda e autoreferenzialità, per affidarsi a una vagheggiata società civile del pensiero, capace di leggere la realtà con occhi meno legati agli interessi particolari della vita politica quotidiana. Fuori dalla routine (e dall’ansia) del collegio elettorale, la cultura politica italiana ha conosciuto, a partire dalla metà degli anni Novanta, la nascita di riviste, piccole case editrici, associazioni, istituti, fondazioni che hanno scelto di operare sul piano della cultura politica sposando la nuova impostazione bipolare del quadro istituzionale: scegliendo cioè di stare o di qua o di là dello schieramento politico.

La stessa nascita di Ideazione, nel 1994, è figlia di questa stagione, partita sull’onda della novità realizzata, nel centrodestra, da Forza Italia e poi sviluppatasi con il consolidamento di quell’area che oggi si chiama Casa delle Libertà e che raccoglie tradizioni come il liberalismo, il conservatorismo, il federalismo e il popolarismo, con una punta di nazionalismo e di populismo. Ne ha interpretato l’ansia di rinnovamento della scena politica, la voglia di riforme sul piano istituzionale e su quello economico per modernizzare il paese e assicurargli un futuro di crescita. Ha sviluppato una nuova idea dell’Italia e un dinamico ruolo in politica estera che fosse interprete della fine della Guerra Fredda e della vittoria strategica delle democrazie occidentali sul comunismo: giocare da protagonisti la sfida dell’allargamento europeo e, dopo l’11 settembre, affrontare a viso aperto la sfida del terrorismo islamista, al fianco degli Stati Uniti e della coalizione dei volenterosi, nonostante l’opposizione di una parte del paese e di alcuni partner europei. Non tutto quello che abbiamo elaborato, con la rivista bimestrale, poi con un’agile e pensosa casa editrice, poi con una fondazione, infine con un sito Internet di successo, si è tradotto in politiche di governo. Ma non è questo, certo, il rammarico più grosso: abbiamo sempre valutato come prezioso dono da difendere quell’autonomia di pensiero e di giudizio che ci ha permesso le critiche più feroci verso la nostra parte politica quando abbiamo giudicato che essa sbagliasse. E sappiamo che questa libertà, questa autonomia, comporta anche la reciproca possibilità di essere mandati a quel paese, magari in nome di una realpolitik che chi opera sul concreto terreno della politica è obbligato a tenere in considerazione. È il sale del confronto.

Il problema è, semmai, che da parte dei partiti il legame con il mondo delle idee e con i luoghi che queste idee elaborano, negli ultimi tempi si è allentato. E questo non va bene. Più il legame si affievolisce più i partiti si sclerotizzano nell’ordinaria amministrazione. Più i partiti si chiudono all’interno di un ghetto dorato, più tendono a privilegiare i percorsi viziosi del già sperimentato. Più si ritraggono dal confronto con le novità della società, più scambiano per interessi generali quelli loro particolari. Per fare un esempio recente, può capitare a un leader “rivoluzionario” come Silvio Berlusconi di scambiare per prioritaria l’esigenza della stabilità di governo rispetto a quella di una riforma decisiva (per l’Italia e per le sue stesse sorti elettorali) come la riduzione fiscale. È accaduto per pochi giorni, sino a quando la robusta protesta di commentatori, giornali, riviste, siti online, blog vicini al centrodestra (assieme a qualche sondaggio) ha fatto capire al premier che il taglio delle tasse era la ragione stessa della vittoria elettorale del 2001, uno dei punti qualificanti del programma di governo. Di più: l’atto che avrebbe simboleggiato i cinque anni di Berlusconi a Palazzo Chigi. Mantenere in vita un governo record solo nei giorni di durata invece che nelle riforme effettuate, non avrebbe giovato molto alla prossima campagna elettorale. Sfilatosi dal “teatrino della politica”, il Cavaliere ha ripreso in mano le forbici, ha agito e ha rilanciato la sua immagine, l’azione del governo e l’onda riformista, mettendo in difficoltà l’opposizione politica e sindacale che si è ritrovata a sfilare in corteo contro il fatto che i cittadini contassero qualche euro di più in tasca.

La sezione di apertura di questo numero, con il suo titolo “italo-americano” The Right (Italian) Nation, racconta proprio l’emergere di questa nazione giusta e destra che è nata, o rinata, ad Occidente. La sezione è divisa in due parti. La prima è la parte americana: si analizza come la cultura conservatrice sia riuscita, in un quarantennale percorso culturale e politico avviato da Berry Goldwater (al quale abbiamo voluto dedicare la copertina), sviluppato da Ronald Reagan e consolidato da George W. Bush, a bilanciare l’egemonia culturale liberal che aveva dominato la scena statunitense negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta del Novecento. È un percorso intrecciato del lavorìo di case editrici, riviste di cultura politica, periodici di battaglia, quotidiani popolari e locali, talk-radio, poi siti Internet, fino al successo di una tv all-news alternativa alla Cnn come la Fox-News e, novità dell’ultima campagna elettorale, l’esplosione del fenomeno dei blog. C’è stato bisogno di molto denaro e di grandi investimenti finanziari per realizzare tutto questo. La seconda parte è quella italiana: si tratta di capire come la vicenda americana possa essere d’esempio a quella italiana. Data per scontata l’impossibilità di replicare qui da noi il modello-Usa (non fosse altro per la scarsa dimestichezza dell’imprenditoria e della borghesia italiana a finanziare organizzazioni culturali), si deve riconoscere che quel lungo percorso non è stato solo foderato di dollari, ma anche di idee, fantasia, relazioni, determinazione, connessioni, volontà, consapevolezza culturale e politica. Tutti elementi che hanno costruito la Right Nation, magistralmente descritta dai due giornalisti britannici dell’Economist, John Micklethwait e Adrian Wooldridge.

In Italia, nell’ultimo decennio, tante sono le realtà culturali nate sul versante del centrodestra. La mappa che tracciamo proprio nella parte italiana della sezione, certamente parziale come capita ad ogni prima volta, racconta di una vivacità sorprendente, non sempre conosciuta, non sempre evidente. Esistono riviste di approfondimento, fondazioni che studiano ed elaborano strategie, giornali quotidiani con politiche editoriali differenti che si rivolgono a lettori diversi, istituti magari meno riconducibili a una definita area politica ma certamente legati a battaglie culturali comuni a quelle della Casa delle Libertà. C’è chi segue il filone liberal-conservatore e chi insegue le mille autonomie nel nome del federalismo; chi si richiama alla tradizione popolare e democristiana e chi lavora per il rinnovamento della destra ex-missina; chi riannoda le fila di un socialismo liberale e riformista, chi quello della gloriosa tradizione lib-lab, fino a chi insegue (la definizione è del Foglio) il trotskismo di destra sognando un’alternativa sociale al capitalismo, ovviamente “selvaggio”.

Insomma, il panorama è tutt’altro che desertico, e l’arcipelago che tanto s’invoca, a guardarlo bene, c’è già. Magari si tratta di monadi spesso isolate che dialogano poco tra di loro: ci si attarda nel vittimismo, non si pratica con la necessaria disinvoltura l’arte della comunicazione, indugiando talvolta su vecchi strumenti non più adeguati alla dispersione ricettiva della nostra società, e non si riesce a combattere davvero ad armi pari contro quel grande e invasivo progetto culturale transnazionale che è il politically correct. E tuttavia è questo il salto di qualità che dobbiamo impegnarci a compiere. Avviare un grande processo di integrazione dell’arcipelago, questo sì sul modello dell’esperienza statunitense, con la consapevolezza e l’orgoglio di rappresentare non una minoranza dell’ambìto salotto culturale del paese ma una solida maggioranza nei cuori e nelle menti della popolazione italiana. Le elezioni politiche dell’ultimo decennio, anche quella che nel 1996 portò al governo Romano Prodi, dimostrano che il centrodestra è in maggioranza. Oseremmo dire, addirittura più nelle idee che nelle urne. A chi nutre ancora ansie di legittimità, ricordiamo la sconsolata ammissione di Massimo D’Alema che tempo fa osservava come «l’Italia resti un paese sostanzialmente conservatore». A noi dunque il compito di rendere questa Right Nation italiana visibile e paritaria anche nel mondo dell’editoria, dell’informazione, dei media, dell’entertainment, delle arti e della cultura in generale. Servono entusiasmo e sfrontatezza ma anche qualità ed esperienza che si ottengono con il lavoro, l’umiltà e la pazienza. Serve un network di relazioni che metta in connessione i vari punti dell’arcipelago. Serve anche che qualcuno s’impegni mettendo mano al portafoglio, perché alla storia dei volontari crede solo l’ipocrisia statalista di Romano Prodi: e se alla borghesia italiana ritorna il gusto di qualche missione che aiuti il paese a guardare un po’ più lontano, allora chissà che questo viaggio negli Usa che ci apprestiamo a compiere non sia solo l’inizio di una grande avventura.

9 febbraio 2005

pmennitti@ideazione.com

 

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