A bordo del Titanic d’Europa
di Pierluigi Mennitti

da Ideazione, novembre-dicembre 2004
[31 dic 04]

Chissà, forse la crisi d’identità che stringe i cuori degli ex tedeschi dell’Est può esser descritta da scene come questa. Stazione di Berlino Friedrichstrasse, nel centrale quartiere Mitte, vecchio settore orientale, una fredda mattina d’inverno. Sul quarto binario scivolano, uno appresso all’altro, i convogli regionali diretti alle città sul confine polacco: Frankfurter an der Oder, Cottbus, Angermünde. Non c’è molta gente sulla piattaforma: questa è soprattutto una stazione metropolitana. Negli anni del Muro, c’era uno dei punti di passaggio tra le due Berlino. Gli occidentali arrivavano, scendevano dai vagoni, s’incolonnavano lungo scale buie e sudicie per essere inghiottiti dai corridoi sotterranei. Laggiù era in funzione un vero e proprio girone dell’inferno burocratico, dominato dalla luce fioca di vecchie lampadine e dal ronzio tecnologico di sofisticatissime telecamere. Ci si stringeva quasi come dentro un rifugio di guerra, stipati e silenziosi, camminando lenti in fila indiana, ammutoliti dallo sgomento per una procedura che ricordava i film di guerra e dalla preoccupazione che il vopos, la guardia di frontiera, trovasse un impedimento, uno qualsiasi, per bloccare il passaggio e rispedirti indietro: un bollo scaduto, una merce proibita, una moneta di troppo, dimenticata in qualche tasca. Oggi, i sotterranei della stazione di Friedrichstrasse sono illuminati da lampade ad alta luminosità e basso consumo, e i lavori degli anni passati hanno trasformato gli stretti corridoi in ampie vasche per lo shopping. A qualsiasi ora ci si può abbuffare di croissant francesi, pizza italiana, sushi giapponese o riso alla cantonese: e se proprio non si resiste al richiamo della cucina di casa, un paio di fast food ricreano l’atmosfera di una birreria bavarese o di un chiosco di pesce fritto amburghese. Ma sopra, sulle piattaforme, non c’è molta gente a quest’ora, e tutti si stringono nei cappotti o nei piumoni per difendersi dal vento tagliente che penetra nel caratteristico tunnel della stazione, aperto alle due estremità.

L’altoparlante attacca una petulante litania: «Signori viaggiatori, le ferrovie federali sono spiacenti di annunciare un ritardo di 10 minuti per il Regionale diretto a Frankfurt an der Oder». «Signori viaggiatori, le ferrovie federali sono spiacenti di annunciare un ritardo di 10 minuti per il Regionale diretto a Cottbus». «Signori viaggiatori, le ferrovie federali sono spiacenti di annunciare un ritardo di 10 minuti per il Regionale diretto ad Angermünde». E così via, treno dopo treno, annuncio dopo annuncio. Tutto si muove con un leggero ritardo ma anche questo, in un certo modo, è stato standardizzato, programmato, regolarizzato. Tutto slitta di dieci minuti, ma il caos è controllato, non è la fine del mondo. E infatti la Germania che fu Est, e alla quale dopo quindici anni dobbiamo ancora applicare un aggettivo per distinguerla da quella che fu la Germania Ovest, non è la fine del mondo. Anzi, a guardarla dalle riviste di viaggio, sembra sia divenuta un nuovo Eldorado del divertimento e della trasgressione: «Berlino Est, scoprite la nuova città», «Locali alla moda e quartieri hi-tech», «In pieno centro, rilassarsi sulla spiaggia e ammirare le meraviglie dell’architettura». E non è solo la capitale a risplendere dalle pagine patinate: «Rügen, la Capri del Baltico», «Dresda, così rinasce la perla del barocco», «Lipsia, party e musica fino a notte fonda». Tuffandosi nella notte berlinese, in effetti, l’impressione è che tutto luccichi di gioventù, eccentricità, divertimento e postmodernità. E la nuova scena è tutta ad Est: Hackesche Höfe, i cortili del 1907 tirati a lucido con un sapiente restauro e divenuti un centro multifunzionale con caffè, teatri, cinema e librerie d’arte; Prenzlauerberg, il decadente e disperato quartiere dissidente dei tempi della Ddr trasformato in una Brera di classe, con ristoranti etnici, gallerie e atelier di moda; persino Friedrichshain, una volta grigio distretto operaio, oggi è divenuto l’ultima frontiera della trasgressione vera, quella alternativa, in fuga dai nuovi nidi chic, fatta di rave e musica tecno fino all’alba, sudore e ritmo e alcool e droga in capannoni riadattati o in vecchie fabbriche in disuso.

Peccato che a tenere accese le luci di questa rinascita orientale sia il solito gotha occidentale di impresari del divertimento, che ha trasferito armi e bagagli dal settore Ovest al settore Est, in cerca di nuovi spazi da sfruttare e atmosfere più esotiche. Anche questa Neue Welle è dunque vista dai berlinesi dell’Est come un’invasione, della quale fanno fatica a rendersi partecipi. Di questo sogno che ogni notte accende le luci della movida sulla Sprea, loro occupano i gradini più bassi: non li incontri come frequentatori eccentrici e cosmopoliti, semmai li ritrovi nelle cucine, tra i camerieri o i bodygards delle discoteche, a sparecchiar tavoli o a lavare piatti o a tagliar lattughe o a tenere alla larga attaccabrighe inzuppati d’alcool. Nella gaudente nave berlinese, che dopo ogni tramonto prende il largo per navigare verso la trasgressione, gli Ossis (come vengono ancora chiamati con una punta di disprezzo) occupano le zone più umili: la cambusa, la stiva o la sala macchine.

Non era questo il sogno occidentale al quale avevano aderito quindici anni fa. Ma non è tutta colpa loro se questa Germania di oggi appare, appunto, un transatlantico senza identità, che vaga ebbro e spaesato nell’era globale della guerra al terrorismo, perforato dalle cellule dell’estremismo islamico che crescono all’ombra di leggi d’accoglienza permissive e di un’assistenza sociale che premia i furbi. Il Titanic d’Europa ha perso identità e rotta, non trova più la sua missione che era stata declamata con tanta enfasi all’indomani della caduta del Muro. La Germania si guarda allo specchio e si scopre vecchia, con le rughe del proprio sistema sociale di mercato divenute solchi profondi che ingoiano ricchezze accumulate dagli anni del Wunderwirtschaft: una pace sociale perduta, manifestazioni in piazza contro le tardive riforme del governo, un declino demografico inarrestabile, un sistema politico finito nel frullatore delle tensioni. Perché proprio all’Est, dove la disoccupazione morde con più ferocia e la disillusione alimenta la rabbia, dovrebbero sentirsi meglio?

Passata l’euforia dei mesi successivi al 9 novembre 1989, la diversità di due popoli, costretti a vivere in universi culturali e politici separati per quarant’anni, venne subito all’occhio: «Credono che tutto gli sia dovuto – si lamentavano ad Ovest – e non hanno capito che noi, la nostra ricchezza, ce la siamo sudata lavorando sodo». Sono passati quindici anni e la lezione di lavorar sodo l’hanno dimenticata anche ad occidente. Non c’è alcuna statistica di alcun istituto di ricerca che sia capace di misurare e di raccontare l’amara deriva di questo paese, un tempo solido e forte, verso la cultura della “dolce vita”, scambiata per dolce far niente. In questo ultimo decennio la Germania tutta ha creduto di poter trovare una propria dimensione nella postmodernità abolendo le durezze della modernità, abbracciando con consumistico entusiasmo ogni sollecitazione al viver bene: design scandinavo per le case, moda italiana e spagnola per il vestiario, sofisticata cucina macrobiotica per buttar giù i chili, palestre e fitness per rimodellare i corpi, voli low-cost per weekend al sole, sempre più lunghi, sempre più fuori stagione. Si sono inventati un gioco di parole, la deutsche vita, che fa il verso alla dolce vita di felliniana memoria. E quando la coperta s’è accorciata e l’economia ha presentato il conto, hanno nascosto la crisi dietro una languida e indolente cortina mediterranea. Il ritratto classico di Gerhard Schröder, immortalato in un momento di relax mentre sorseggia vino rosso toscano da un calice gran riserva, con il sigaro acceso tra le dita, riassume meglio di ogni statistica lo zeitgeist della Germania: godiamocela questa ricca eredità del passato, del doman non v’è certezza.

Il punto è questo: per quanto si percorrano le strade dell’Est alla ricerca delle ragioni di una riunificazione difficile, alla fine si ritorna sempre lì, ad Ovest. Perché questo abbraccio non è stato soltanto una Zweckgeneinschaft, un matrimonio d’interessi, con gli orientali attratti dal benessere e gli occidentali da mercati a basso costo. è stato un Anschluss, un’annessione, con la Repubblica federale che ha esportato dall’altra parte il proprio sistema economico e sociale proprio nel momento in cui esso entrava in crisi. Invece di ridimensionare un apparato pubblico efficiente ma ipertrofico, la Germania lo ha raddoppiato, estendendo a tutti sicurezze e garanzie che già non bastavano a pochi. E mentre i welfare scandinavi si ridimensionavano, introducendo robuste dosi di privatizzazione nel corpo di un sistema statalizzato, quello tedesco si appesantiva di nuove funzioni. Quando i paesi concorrenti dell’Europa dell’Est sudavano lacrime e sangue per sperimentare l’Abc del capitalismo, l’ex Repubblica democratica tedesca attutiva i rigori della transizione appoggiandosi all’assistenza di Bonn (e poi di Berlino). Milleduecentocinquanta sono i miliardi di euro che l’Ovest ha riversato sull’Est sotto forma di sovvenzioni pubbliche. Le aspettative erano state gonfiate e quando è giunto il momento di ridimensionarle, nessun politico lo ha fatto: la miscela formata dalla rigidità della macchina tedesca e da un clima politico-culturale ostile al riformismo, ha prodotto la crisi attuale.

No, non è la fine del mondo, questa Germania dei Länder orientali, neppure quando si lasciano i centri storici ridisegnati dai migliori architetti e ci si addentra nelle periferie abbrutite dalla vecchia urbanistica socialista. Chi le ricorda ai tempi del comunismo non può fare a meno di notare i miglioramenti. Prima, grigi prefabbricati e aria asfissiante per l’inquinamento prodotto da Trabant e fabbriche prive di requisiti minimi di sicurezza. Oggi i casermoni sono stati ridipinti con colori vivaci secondo una tecnica arlecchinesca che almeno mette un po’ d’allegria, mentre l’aria è pulita, le ciminiere sono state spente dalle ferree leggi del mercato e dell’ecologia e le Trabant sono finite nei garage dei collezionisti o nelle sceneggiature dei film nostalgici. In queste strade tutte uguali, all’ombra di palazzi tutti uguali, cresce la delusione per le promesse non mantenute. La Germania che fu Est e che non è ancora diventata Ovest annega in quella che il settimanale Der Spiegel ha chiamato Jammertal, la valle del lamento, che nell’urna elettorale si materializza in voti e seggi dati agli ex comunisti e ai neo-nazisti, i fantasmi del Ventesimo secolo che tornano ad agitare le notti inquiete di Potsdam e di Lipsia, di Dresda e di Rostock. A furia di produrre film che solleticano la Ostalgie, il rimpianto del tempo passato rivisto sotto la lente deformante della giovinezza perduta, la Germania rischia di celebrare il proprio tramonto senza neppure provare a invertire la rotta. Il Titanic d’Europa può trovare l’iceberg fatale ad ogni miglio, che sia la riforma delle pensioni o quella del mercato del lavoro, la riduzione dei sussidi ai disoccupati o il taglio dell’assistenza sanitaria.

C’è un avvenimento che sembra chiudere il cerchio di quindici anni di solitudine: il ritorno delle manifestazioni del lunedì. Nel 1989 furono il segnale della caduta del regime di Honecker: migliaia di cittadini si riunivano nelle chiese dell’Est per poi sfilare lungo le vie cittadine sfidando la repressione della polizia e dell’esercito. Furono la molla che diede la spallata decisiva a un mondo ormai in decomposizione, la falla finale che fece affondare l’impero comunista. Oggi sono tornate, seppur in tono minore e sono organizzate contro le timide e tardive riforme del governo rosso-verde di Gerhard Schröder: è un paradosso che il Cancelliere socialdemocratico sia divenuto il simbolo del liberismo da sconfiggere. Quella libertà di mercato che, solo pochi chilometri più in là, rimette in moto le economie di Polonia, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, qui è vista come la responsabile di chissà quali sicurezze perdute. Nelle marche orientali della Germania, le bandiere rosse tornano a sfilare simboleggiando il rimpianto del bel tempo andato, divenuto bello solo perché la memoria è perduta o edulcorata dai cattivi maestri. Ecco, le manifestazioni del lunedì versione 2004 sembrano l’ultima scena di Good bye Lenin. Dopo, c’è spazio solo per i titoli di coda.

31 dicembre 2004

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