Rai, morte di un servizio pubblico
di Luigi Mazzella

da Ideazione, novembre-dicembre 2004
[30 dic 04]

Il collocamento del venti per cento delle azioni della Rai marcia spedito. Al mercato piace la quotazione dell’ente radiotelevisivo. In borsa i pareri sono tutti positivi. L’operazione “privatizzazione” sotto il profilo economico è, dunque, concordemente “benedetta” dagli operatori di settore. Ma qual’è lo “stato dell’arte” sotto l’aspetto giuridico? Si continua a ritenere che il processo di privatizzazione investa un servizio pubblico. Ed, invece, a guardare bene le cose non è così. Considerare ancora oggi, con la proliferazione di canali e di reti esistenti che hanno programmazioni del tutto analoghe fra di loro, l’attività del nostro ente televisivo come espressione di un servizio pubblico è quanto meno opinabile. È vero che ci muoviamo in un campo estremamente fluido, perché la nozione di “servizio pubblico” è una delle più controverse tra i giuristi. E che essa appare, nelle numerose formulazioni che ne sono state tentate, indeterminata e generica. È probabile anche che l’imprecisione concettuale sia una conseguenza del fatto che il legislatore non ne abbia mai dato una definizione e che il concetto stesso sia stato mutuato dalla scienza economica e finanziaria. Su di una cosa, però, tutti i giuristi concordano: la definizione così detta soggettiva o nominalistica non appaga, è insufficiente a descrivere il fenomeno. Non basta, cioè, perché vi sia un servizio pubblico che a gestirlo sia una pubblica struttura che, nel caso nostro, è appunto la Rai. Ma anche se su questo punto si è raggiunto un certo accordo tra gli “addetti ai lavori”, nella pratica e nel linguaggio quotidiano la confusione continua a regnare sovrana. Gli stereotipi, i luoghi comuni, sono duri a morire. Ed uno di essi è proprio l’idea che la radiotelevisione gestita da una struttura totalmente o prevalentemente pubblica costituisca, comunque, nell’insieme delle sue programmazioni informative, spettacolari e d’intrattenimento, un “servizio pubblico”. Corollario consequenziale di tale premessa dovrebbe essere che, ad esempio in Italia, Fiorello e/o Panariello sul piccolo schermo della nostra televisione pubblica con tutte le frasi e le espressioni da loro usate, assumerebbero, in quanto espressione di un “servizio pubblico”, connotazioni pubblicistiche che resterebbero loro estranee, invece, se si esibissero sul palcoscenico di un teatro o in una piazza o negli “studios” di una televisione privata.

La verità, se si perviene a risultati così assurdi, non può essere di certo questa. Bisogna superare gli stereotipi e ritornare alla scienza giuridica, ritenendo che “servizio pubblico” non può essere ogni attività produttiva e commerciale di un pubblico potere (a gestione diretta o per concessione, poco importa). Occorre qualcos’altro che caratterizzi oggettivamente il servizio come pubblico. Ed è proprio questo qualcos’altro che sembra mancare nell’odierna attività radiotelevisiva della Rai.

Già solo in base ad un elementare buon senso, appare evidente che rappresentare varietà, programmi di quiz, show di vario tipo di intrattenimento, oroscopi, fiction (cinematografiche o direttamente prodotte per la televisione), ed anche informazione politica di varia e bene intuibile coloritura partitica, a dispetto di tutte le prescrizioni normative sull’obiettività, non può in nessun caso significare assolvere ad un compito tipico di una pubblica funzione. Né in via diretta e né in via indiretta. C’è in questo caso un’attività di pregnante natura privatistica e commerciale con risvolti anche di natura politica esercitata, come avviene in altri casi di intervento dello Stato nell’economia, da un’intrapresa economica avente, in buona sostanza, le caratteristiche di una struttura pubblica. Tutto ciò avviene, peraltro, contro la tendenza oggi dominante negli Stati dell’era post-industriale che è quella di sottrarre, non di aggiungere, ai pubblici poteri l’avvio e l’esercizio di attività produttive di merci o di servizi. Si sostiene che ogni gestione pubblica tende a gonfiare le spese, soprattutto ingigantendo il numero dei dipendenti; che la logica della ricerca del profitto è vistosamente contraddetta dai ripiani finanziari che ordinariamente lo Stato è costretto a fare con i soldi dei contribuenti; che non vi è necessità alcuna per il potere pubblico di cimentarsi in attività economiche e commerciali che i privati svolgono egregiamente e con soddisfazioni, sul piano del lucro, anche rilevanti.

L’anomalia italiana

In Italia, invece, dove questa tendenza non viene rispettata per il servizio radiotelevisivo, i cittadini pagano un canone annuale non irrilevante nonostante gli introiti della pubblicità raccolti per la programmazione di giochini e varietà del tutto simili a quelli offerti dalle tv private (non sempre ma molto spesso gratuitamente). Ed in più uno spoil system, per così dire ante litteram per la nostra esperienza burocratica, da sempre applicato nella nostra azienda radiotelevisiva pubblica ad ogni cambio di governo o di equilibri politici, obbliga i contribuenti a sostenere le spese di una enorme “squadra” di funzionari e dipendenti, pagati in modo più che adeguato, ma tenuti “in panchina”, disaffezionati al proprio lavoro, scontenti di sé, frustrati e costantemente in attesa di rivincite e/o di compensazioni politiche di altra natura.

Le motivazioni di quella che appare un’incongruenza “concettuale” e pratica sono due ed entrambe appaiono orientate a salvaguardare, in permanenza, la gestione di attività radiotelevisive da parte di organismi che impegnano pesantemente non solo le finanze pubbliche ma il potere di nomina dei membri della gestione e, in via sia pure solo indiretta, la stessa responsabilità politica, giuridica e morale dello Stato in faccende che nulla hanno a che vedere con le sue funzioni ed i suoi compiti istituzionali.

Si pensi, sotto quest’ultimo profilo, alla responsabilità politica delle massime istituzioni di un paese per l’eventuale, ipotizzabile e sempre possibile clamorosa disinformazione giornalistica dovuta ad errore, ad un’omissione o, peggio, a faziosità di un dirigente o di un giornalista di un notiziario di un’emittente “pubblica”; alla responsabilità giuridica internazionale delle medesime nei confronti di Stati esteri o dei loro capi e rappresentanti per le pur sempre possibili affermazioni o rappresentazioni ingiuriose su video espresse o consentite da giornalisti, conduttori o intrattenitori che comunque vengono ritenuti essere, sia pure in modo indiretto, in libro-paga dell’Erario e come tali, al momento del fatto, dipendenti parapubblici; alla responsabilità etica, infine, per eventuali servizi radiotelevisivi della rete pubblica di contenuto offensivo, osceno, violento e così via.

È chiaro che per evitare tali spiacevoli effetti le strutture pubbliche dovrebbero essere sempre escluse dalla gestione di reti radiotelevisive per così dire omnicomprensive sotto il profilo del contenuto dei programmi. Così come avviene nella stampa quotidiana e periodica e nell’editoria, nello spettacolo riprodotto (fiction cinematografica, reportage giornalistici, documentari) e nello spettacolo dal vivo (teatro di prosa, di opera, cabaret, varietà), dove la produzione di programmi e rappresentazioni è esercitata da soggetti privati, anche se con l’aiuto di contributi dei pubblici poteri, e non implica, di norma, responsabilità dello Stato di cui quei soggetti sono cittadini.

La nascita del servizio pubblico in Europa

Le ragioni storiche che in Europa hanno fatto nascere l’idea della radiotelevisione come “servizio pubblico” sono oggi cadute. Esse erano due. La prima era il gap tecnologico che negli anni ’30-40 ha caratterizzato il vecchio continente rispetto al nuovo nel settore delle radio e delle telediffusioni. A quell’epoca e per un bel po’ di anni, le bande ed i canali utilizzabili per svolgere tale attività erano realmente limitati. Lo Stato veniva visto e considerato come detentore unico, monopolistico della comunicazione via etere. Da qui a ritenerlo erogatore di un vero e proprio “servizio anche oggettivamente pubblico” il passo era breve ed appariva pienamente giustificato.

La seconda ragione è di matrice per così dire culturale. Dominava, in quegli anni in Europa, una concezione ideologica sostanzialmente autoritaria nella gestione dei mass-media, soprattutto di quelli radiotelevisivi, di probabile derivazione idealistica e presumibilmente imperniata su pretesi compiti educativi e formativi che lo Stato avrebbe nei confronti dei cittadini, per così dire dalla culla alla tomba.

Questa convinzione era cominciata, per la verità, nei regimi totalitari dell’epoca ma si era estesa inaspettatamente anche a quelli coevi indiscutibilmente democratici ed a quelli democratici successivi alla dittatura. Per effetto di tale duplice fattore, l’imprenditorialità radiotelevisiva privata in Europa è stata prima rigidamente ostacolata e per lungo tempo non consentita in forma paritaria rispetto a quella pubblica e poi disciplinata legislativamente in modo minuzioso e penetrante per garantire, tra l’altro, nel versante ritenuto di persistente competenza gestionale pubblica, una vagheggiata, ma dimostratasi impossibile e mai realizzata, obiettività informativa dei fatti politicamente rilevanti nella vita del paese.

Oggi che le concezioni di tipo statalistico nel settore della “formazione culturale” dei cittadini sembrano essere definitivamente tramontate e che le funzioni per così dire “educative” dello Stato appaiono solo come un nostalgico ricordo di incalliti epigoni delle dottrine idealistiche di varia configurazione; ora che la limitazione delle bande e dei canali è praticamente scomparsa ed il digitale, satellitare e terrestre, in aggiunta alla via dell’etere e all’analogico satellitare consente un’amplissima gamma di reti televisive, convincere gli europei e, per quanto ci riguarda, gli italiani che le notizie, i telefilm, i varietà, i cabaret, i quiz, gli oroscopi diffusi sul piccolo schermo da un’emittente totalmente o prevalentemente pubblica contengano note differenziali sul piano “concettuale” di carattere pubblicistico rispetto ad analoghe attività giornalistiche, librarie, cinematografiche o teatrali svolte da privati, è diventato veramente difficile.

Come ulteriore corollario del ragionamento, si può dire che l’industria radiotelevisiva, sia nel momento produttivo che in quello distributivo, se aspira ad essere competitiva sul piano mondiale (che oggi è la sua naturale e inevitabile dimensione) non può che essere svolta secondo liberi criteri di imprenditorialità e senza appesantimenti burocratici per assunzioni, ad esempio, dovute a ragioni di politico clientelismo. E che, quali che siano le scelte delle autorità, mai comunque una rete totalmente o prevalentemente pubblica, se esistente, dovrebbe attendere alla gestione, sia pure obliqua, di programmi di intrattenimento, spettacolo e informazione politica. Tutto quanto si è detto sulla situazione dell’attuale programmazione della Rai non vale ad escludere, ovviamente, che la radiotelevisione come strumento di comunicazione particolarmente penetrante possa, in date situazioni, egregiamente ed in modo, anzi, unico, assolvere alle funzioni di un vero e proprio “servizio pubblico”. Non si può negare, cioè, che taluni programmi televisivi o anche l’intera programmazione possano corrispondere all’idea di un “servizio” oggettivamente ed indiscutibilmente “pubblico”. Ma il primo caso ricorre in circostanze date e ben definite e può riguardare sia le televisioni a gestione pubblica che quelle a gestione privata. I pubblici poteri possono avvertire l’esigenza di utilizzare gli spazi ed i tempi televisivi necessari per rilevanti finalità pubbliche, per fare, cioè, comunicazioni istituzionali, di tipo consuetudinario (discorsi augurali e protocollari pronunciati in occasione di festività religiose o civili dalle massime autorità dello Stato o particolari annunci delle medesime alla nazione) o ispirate dall’urgenza, quando si debbano impartire disposizioni precettive in caso di necessità o calamità di vario genere. Ma in tali casi l’esigenza di adempiere all’esercizio di un servizio pubblico può essere pienamente consentita dal potere che ha sempre ogni autorità di imporre limitazioni all’esercizio dell’attività di radio e telediffusione, anche se esercitata dai privati e di ottenere coattivamente una sorta di “requisizione” temporalmente limitata dello strumento radiotelevisivo. In questo caso, e solo in questo caso, si può dire che le onde radiofoniche o gli schermi televisivi, per intervento cogente delle autorità, assolvano ad un vero e proprio “servizio pubblico”. Indipendentemente, si può aggiungere, dalla natura pubblica o privata del gestore della rete televisiva.

Con la seconda ipotesi, si può andare oltre. Si può ammettere, cioè, che i pubblici poteri siano gestori, diretti o mediati, in via continuativa di una rete televisiva purché il fine da assolvere sia unicamente ed indiscutibilmente “pubblicistico”. Tale sarebbe, ad esempio, quello della così detta “comunicazione istituzionale”: informazione necessaria ai cittadini per orientarsi nei meandri della pubblica amministrazione e non solo di essa. È chiaro che, in tal caso, l’autorità pubblica dovrebbe provvedervi con una chiara e netta delimitazione del flusso informativo a comunicazioni dirette a fornire notizie utili ai cittadini ed alle imprese produttrici per il rispettivo esercizio dei loro diritti e delle loro attività d’impresa o alla pubblicazione di dati storici, geografici, statistici, legislativi, giurisprudenziali, economici. Fuori di queste due ipotesi all’attività di programmazione radiotelevisiva non dovrebbe riconoscersi il carattere di “servizio pubblico” né potrebbe ritenersi giustificata la riscossione di un canone obbligatorio.

30 dicembre 2004

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