Onu, Germania e la carta dell’Italia
di Ludovico Incisa di Camerana

da Ideazione, novembre-dicembre 2004
[01 dic 04]

La Germania sfida l’Italia, l’accusa di non avere il coraggio di presentare la propria candidatura come membro permanente al Consiglio di sicurezza e di mettere quindi i bastoni tra le ruote della candidatura tedesca per non trovarsi clamorosamente declassata. «L’Italia non accetta la candidatura della Germania, ma non si candida», sostiene in un’intervista al Corriere della Sera il ministro degli Esteri tedesco Joshka Fischer, che esorta gli italiani: «Candidatevi, sarebbe una leale competizione fra due paesi amici e alleati». Nessun invito ad unirsi alla Germania in una comune richiesta: Fischer auspica un duello possibilmente senza colpi proibiti.

In fondo il ministro tedesco ha capito il punto debole dell’Italia: la paura di dichiararsi grande potenza benché ne abbia da anni lo status. Non si è dissipata l’ombra del tentativo dell’Italia, dopo l’unità e l’indipendenza, di qualificarsi come grande potenza, tentativo fallito con il trauma della sconfitta nella seconda guerra mondiale. La grande potenza immaginaria di prima non ha accettato di riconoscersi dopo come grande potenza, anche se come tale era qualificata internazionalmente. Già nel 1970 il politologo americano Hermann Kahn dello Hudson Institute includeva l’Italia tra le prime dieci “grande potenze” sia pure al quinto livello con Regno Unito, Canadà, Cina, India (al primo livello ovviamente stavano gli Stati Uniti; al secondo l’Urss, al terzo il Giappone, al quarto la Germania e la Francia). E proprio perché eravamo di fatto una grande potenza siamo stati ammessi nel 1975 nel club dei Sette e poi degli Otto, un club, che si è sovrapposto, quando ce ne è stato bisogno, al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e sostanzialmente capace di maggior peso e coerenza operativa.

Ciò nonostante si è evitato accuratamente di adottare per il nostro paese il termine “grande potenza” ed optato per lungo tempo per il termine “media potenza”, che ovviamente contraddiceva le nostre rimostranze, quando siamo stati esclusi temporaneamente, per esempio, dal Gruppo di contatto per l’ex Jugoslavia, senza contare le nostre alte strida ogni volta che Francia o Germania, con l’aggiunta o meno della Gran Bretagna, ribadivano chiaramente la loro posizione egemone in Europa, escludendoci dai loro incontri. Era da attendersi ovviamente che dopo essere stati soggetti periodicamente a scortesi esclusioni da parte di soci ed alleati e dopo aver proclamato di essere una media potenza al pari dei Paesi Bassi o della Svezia, non potevamo presentarci con grandi pretese alle Nazioni Unite, come ci incita con pesante ironia il ministro germanico. Se ci si attiene a questa logica è giusto cedere il passo alla Germania, che non ha mai nascosto il suo diritto al rango superiore.

L’idolatria multilaterale

Al travestimento del proprio rango si è aggiunto nel caso italiano un persistente fideismo multilateralista: la fede nelle virtù miracolistiche delle organizzazioni multilaterali. L’Onu e l’Europa di Bruxelles sono così diventate le vacche sacre degli italiani.

La venerazione dell’Onu ha fatto dimenticare le sue origini storiche: l’alleanza di guerra contro l’asse italo-tedesco. E quando nella primavera del 1945 le Nazioni Unite si trasformano in organizzazione, l’Italia, pur avendo dopo l’armistizio dichiarato guerra alla Germania, ma trattata come “cobelligerante” e non come “alleata”, verrà esclusa dalla conferenza istitutiva dell’Onu a San Francisco e si troverà implicitamente classificata nello Statuto del nuovo organismo, entrato in vigore il 24 ottobre del 1945 come Stato “nemico”. E nonostante ogni sforzo l’Italia dovrà fare un lungo purgatorio: aspettare per dieci anni in anticamera l’ammissione alle Nazioni Unite, che peraltro continuavano a concedere una situazione privilegiata con un seggio permanente al Consiglio di sicurezza e il diritto di veto ai cinque paesi (Stati Uniti, Urss, Cina, Gran Bretagna e Francia) che erano usciti vincitori dalla seconda guerra mondiale.

Un simile residuo bellico andava contestato da tempo chiedendo sia la soppressione del veto sia l’estinzione di quel direttorio a cinque che inevitabilmente monopolizzava il potere all’interno del Consiglio di sicurezza, relegando a un ruolo di comparsa i membri eletti dall’assemblea generale, non permanenti e privi del diritto di veto. Andava contestato non solo su una base di principio ma per i risultati negativi a cui ha dato luogo. Nel secolo scorso, durante la Guerra Fredda, si è evitato lo scontro tra le due Superpotenze non per merito dell’Onu e della sua interposizione, ma a causa della deterrenza nucleare e della compattezza dello schieramento occidentale. è stata la Nato e non l’Onu a mantenere la pace in Europa. L’Onu, da parte sua, non è riuscita a fare altrettanto nelle altre aree: nello stesso periodo si sono verificati nel Terzo Mondo da 150 a 160 conflitti con 7.200.000 caduti militari, non molto meno dei caduti (8.400.000) della prima guerra mondiale, e da 35 a 45 milioni di vittime civili. Si è calcolato che almeno 60 paesi membri dell’Onu siano stati coinvolti in scontri armati.

Finita la Guerra Fredda i conflitti si sono moltiplicati con milioni di vittime più civili che militari e sono tuttora in corso con l’impotenza delle Nazioni Unite, ormai incagliate in un’opera di pacificazione saltuaria e non sistematica. Diplomaticamente, insomma, l’Onu fa quello che può e che è sempre poco. In Medio Oriente non è riuscita a combinare nulla: da più di mezzo secolo il conflitto arabo-israeliano alterna scene di guerra con tregue precarie. In Iraq, dopo l’invasione del Kuwait, ha lasciato mano libera per 12 anni a Stati Uniti e Gran Bretagna per poi brontolare sostenendo di non aver dato il permesso all’ultima fase bellica. In Africa, dopo aver ottenuto un successo, che certamente va riconosciuto nell’accelerazione del processo di decolonizzazione, l’Onu ha dimostrato la sua incapacità di aiutare i nuovi Stati a darsi un minimo di struttura, ad avanzare nel Nation building, donde le guerre etniche a lunga durata e la proliferazione di failed States, di Stati che non sono più tali, costretti a rivolgersi ai loro antichi padroni coloniali per sopravvivere, scontrandosi con un’ovvia riluttanza perché il colonialismo non rende più.

Infine un egualitarismo, che parifica nelle votazioni dell’assemblea generale mini-Stati di ardua individuazione nelle carte geografiche con Germania e Italia e con potenze regionali dalle quali dipendono l’assestamento pacifico e il decollo dei paesi minori, ha portato ad una situazione caotica simile a quella che si verificherebbe in un campionato di calcio in cui fossero ammesse insieme tutte le squadre di un determinato paese, dalla serie A e dalla serie B ai gironi regionali. Anche la mediocrità di una parte del suo personale conta nel caso dell’Onu: basta pensare alla pessima prova fornita dai suoi emissari nella guerra di secessione nell’ex Jugoslavia, alla politica che poteva essere seguita dalla segreteria generale se il suo titolare fosse stato o fosse un uomo di Stato esperto, come Giscard, Kissinger, Bush senior, Kohl, Clinton e – perché no? – la Thatcher, un personaggio di grande prestigio, in grado di selezionare squadre diplomatiche efficienti.

Le Nazioni Unite hanno dato cattiva prova non solo nell’evitare le guerre ma anche nel tutelare la pacificazione dopo gli scontri armati. Recentemente sono stati messi in luce i risultati “catastrofici” dell’amministrazione del Kosovo: la decimazione della minoranza serba, la distruzione di un patrimonio architettonico di eredità cristiana bizantina, l’egemonia di fatto di movimenti politici arricchiti da un’illegalità sistematica ormai incontrollabile. Vi sono ormai elementi sufficienti per giudicare l’efficacia del dispositivo Onu. Non si può continuare a credere che abbia la bacchetta magica che non ha, come non ha quel nodoso bastone assai più utile della bacchetta magica nei tempi che corrono.

Tristi precedenti

Il problema delle Nazioni Unite non è pertanto quello di allargare il Consiglio di Sicurezza ma quello di rifare la sua stessa struttura, cominciando da capo, cioè dalla segreteria generale. L’esperienza disponibile sul funzionamento di questo organo non è molto positiva. Nessuno dei personaggi che hanno ricoperto la massima carica interna si è particolarmente distinto. Certamente non si pretendeva dal primo personaggio che ha ricoperto la carica, il norvegese Trygve Lie, di lasciar particolare memoria di sé: infatti il tranquillo e grigio norvegese, senza intervenire direttamente, si servirà dei suoi collaboratori come pompieri delle crisi, ma il negoziatore da lui designato per il conflitto arabo-brasiliano, il conte Folke Bernadotte, verrà assassinato; invece un vicesegretario, il diplomatico statunitense Ralph J. Bunche, riuscirà a imporre, più in nome degli Stati Uniti che in nome dell’Onu, il cessate il fuoco all’India e al Pakistan, che si contendevano il Kashmir. Tuttavia i due problemi, quello della Palestina e quello del Kashmir, non hanno ancora trovato una soluzione definitiva, anzi ne sono sempre lontani.

Il successore di Lie, un altro scandinavo, lo svedese Dag Hammarschjold, più preparato diplomaticamente, consapevole che lo scenario internazionale principale, il confronto Occidente-Urss, non offriva uno spazio creativo, sposterà verso il Terzo Mondo l’area operativa principale delle Nazioni Unite, ma perirà in un misterioso incidente aereo, mentre cerca di trovare uno sbocco pacifico alla guerra civile scoppiata nel Congo ex-belga, appena decolonizzato. Con la nomina del suo successore, il birmano U Thant, l’Onu diventa per un decennio (1961-1971) l’arena delle inutili lagnanze del Terzo Mondo. I problemi concreti verranno demandati alle agenzie specializzate che, non senza successo, si sostituiranno alla casa madre nel realizzare su un piano più tecnico che politico programmi organici di un certo rilievo. Durante il periodo 1972-1981, nel corso della segreteria generale dell’austriaco Kurt Waldheim, personalità autorevole ma discussa, la conflittualità extraeuropea si estenderà dal Medio Oriente all’Asia e all’Africa, con interventi precipitosi ma inefficaci dell’Onu. Dopo Waldheim, un abile diplomatico peruviano, Javier Pérez de Cuellar, sarà l’eccezione ad una regola negativa: si varrà nelle sue missioni in Medio Oriente della collaborazione di un funzionario italiano, Giandomenico Picco, poi suo sottosegretario generale e riuscirà ad agevolare la fine della guerra Iraq-Iran, durata ben nove anni, mentre lo scenario generale cambia radicalmente con la fine della Guerra Fredda.

Prenderà il posto di Pérez de Cuellar all’inizio del 1992 un diplomatico egiziano di religione copta Boutros Boutros-Ghali. Uomo di forte personalità si prefigge quattro obbiettivi: una diplomazia preventiva che intervenga prima che i conflitti scoppino o si aggravino; la riduzione del divario tra Nord e Sud attraverso lo sviluppo; la riforma delle Nazioni Unite per adattarle al dopo-Guerra Fredda; la democratizzazione dei rapporti non solo all’interno degli Stati ma anche tra gli Stati. Non realizzerà tale piano: preso in mezzo tra le guerre africane e le guerre balcaniche, tra le stragi nel Ruanda e le stragi in Bosnia, mal servito dai suoi emissari sul posto, dovrà farsi da parte, in Europa, inchinandosi alla diplomazia americana e in Africa confessandosi impotente (disastrosi sia il tentativo di metter fine alla guerra civile in Somalia sia l’incapacità di prevenire i massacri etnici in Ruanda).

Il 1° gennaio 1997 subentra alla segreteria generale un funzionario dell’Onu, Kofi Annan, cittadino del Ghana ossia dell’Africa ex inglese (un’origine che provocherà nei suoi confronti il veto iniziale della Francia). Tuttora in carica, anche se ottiene come la maggioranza dei suoi predecessori il prolungamento del proprio mandato, è praticamente escluso dal grande gioco, perennemente in corso nel Medio Oriente e ormai collegato alla guerra generale contro il terrorismo, e si trova senza mezzi e senza idee di fronte al processo degenerativo degli Stati nazionali africani. Tra l’altro, come ricordava già tre anni fa Galli della Loggia, grazie ad una politica di indiscriminata apertura fanno parte dell’assemblea generale con lo stesso diritto di voto delle grandi democrazie occidentali «regimi dittatoriali, crudeli, indifferenti ai diritti umani».

Rifare l’Onu

Orbene, vista un’esperienza così negativa, la riforma non dovrebbe essere data da un ampliamento del Consiglio di Sicurezza, bensì da un rinnovamento generale dell’organigramma. La più alta carica esecutiva dovrebbe andare ad una personalità competente ed autorevole (ex capo di Stato, ex primo ministro, ex ministro degli Esteri o segretario di Stato) proposta dalle grandi potenze ossia da parte dei paesi membri che forniscono all’Onu i contributi più lauti, insomma da coloro che pagano di più. Il segretario generale dovrebbe restare in carica per non più di tre anni con l’esclusione tassativa di un prolungamento del suo mandato.

I membri non permanenti del Consiglio di Sicurezza dovrebbero essere eletti tre per area (Europa, Medio Oriente, Africa, Asia Orientale, Americhe) dai paesi membri delle singole aree e non dall’Assemblea Generale, e non con voto semplice (ogni membro un voto), ma con un voto ponderato (ossia, come si verifica nell’Unione Europea con un punteggio diverso per ciascuno dei votanti, proporzionato alla popolazione o al contributo finanziario all’Onu). I membri permanenti, che tendono a favorire i loro piccoli clienti, non dovrebbero avere diritto di voto nell’elezione dei membri non permanenti. Sostanzialmente bisognerà facilitare una presenza semipermanente con rotazioni annuali in Europa a Germania, Italia, Spagna, Polonia, Ucraina, nel Medio Oriente ed Africa ad Egitto, Nigeria, Etiopia, Sud Africa, nel Medio Oriente a Turchia, Arabia Saudita, Iran, in Asia-Pacifico, a India, Pakistan, Indonesia, Giappone, Australia, nelle Americhe a Canada, Messico, Colombia o Venezuela, Argentina.

Con l’attuale sistema i paesi minori, i piccoli clienti dei membri permanenti, sono avvantaggiati rispetto alle potenze regionali sopraindicate e in particolare all’Italia, che tre anni fa ha visto la sua candidatura respinta a favore di paesi europei meno significativi. Del resto nel prossimo turno, mentre per l’Asia entrerà una grande potenza, il Giappone, e per l’America Latina una media potenza, l’Argentina, a rappresentare di fatto l’Europa saranno come membri non permanenti due paesi rispettabili, la Danimarca e la Grecia, ma con interessi meno complessi di quelli italiani.
Il seggio europeo non rappresenta un’alternativa valida rispetto alle altre soluzioni.

Difficilmente il rappresentante europeo al Consiglio di Sicurezza oserebbe contrapporsi alla Francia e alla Gran Bretagna, sia nel caso che tale rappresentanza venga affidata ad una persona, all’alto rappresentante per la Sicurezza e la Politica estera (carica attualmente ricoperta dallo spagnolo Solana, praticamente immobilizzato) sia nel caso di una rotazione, analoga a quella della presidenza tra tutti i paesi europei, secondo una formula che ha avuto una festosa accoglienza nei paesi più piccoli: l’Albania, ad esempio, ha aderito all’idea perché, come ha osservato il primo ministro Nano, una volta entrato nell’Unione Europea il suo paese, anche all’Albania toccherà un giorno occupare tale seggio per rotazione. Tanto peggio ancora se con mossa abile anche la Germania, in aggiunta alla sua candidatura, appoggiasse la creazione del seggio europeo: l’egemonia in Europa dell’asse franco-tedesco, appoggiato o no dalla Gran Bretagna, verrebbe assicurata per una generazione sia sul piano Nazioni Unite sia sul piano regionale europeo. Il che significa che dal seggio europeo l’Italia non ha nulla da guadagnare: può solo permetterle momentaneamente all’interno un ricompattamento su una linea bipartisan e all’esterno servire tatticamente nei riguardi della Germania e dei suoi complici come una manovra di disturbo. Ma tale manovra, anche se vincente, rimarrebbe poco efficace se si tiene presente, tra l’altro, il disincantato clima europeo attuale, come dimostra l’ignobile veto opposto a Buttiglione da quel fronte anticristiano e semigiacobino che non giova certamente con la sua frivola faziosità al prestigio dell’europarlamento, dimostrando come anche il multilateralismo europeista stia rapidamente degenerando.

Infine una riforma delle Nazioni Unite non può trascurare la sua efficienza militare. Dovrebbe perciò essere data attuazione all’articolo 47 dello Statuto Onu, costituendo il comitato degli Stati maggiori militari da esso previsto. Soprattutto occorre formare un comando unico, ristretto ai rappresentanti di quei paesi disposti a mettere al servizio dell’Onu, in via permanente e a proprie spese, unità organiche, pronte a intervenire in operazioni di mantenimento o ristabilimento della pace (peace keeping e peace enforcing). Occorrerebbe, inoltre, procedere alla nomina da parte del segretario generale di un capo di Stato maggiore, di nazionalità diversa da quella dei paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.

Queste ed altre modifiche dello Statuto delle Nazioni Unite dovrebbero essere studiate e concordate dall’Italia con le potenze escluse dal quartetto (Germania, Giappone, India, Brasile) escogitato da Berlino per ottenere un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza, e con gli Stati Uniti, che rischiano di rimanere perpetuamente in minoranza in tale consesso, se si realizza il progetto tedesco. La proposta tedesca ha difatti un punto debole: mira ad utilizzare l’Onu così come sta. Viceversa le Nazioni Unite meritano un salto di qualità intellettuale e vanno salvate perché dopo tutto è vero quanto sosteneva realisticamente Churchill: «Non sono state create per portarci in paradiso, ma per salvarci dall’inferno». Ma questa non è una buona ragione perché rimangano in permanenza nel purgatorio.

01 dicembre 2004

stampa l'articolo