Bush, il presidente diventato leader
di Cristiana Vivenzio
da Ideazione, settembre-ottobre 2004
È il 14
settembre del 2001, sono trascorsi appena tre giorni dall’attacco alle
Torri Gemelle ma già otto mesi dall’insediamento del nuovo presidente
americano. George W. Bush si reca a Ground Zero, ancora avvolta nel
lutto e parla agli americani. Mentre la bandiera a stelle e strisce
sventola con orgoglio al vento, il quarantatreesimo presidente degli
Stati Uniti d’America pronuncia la sua accusa contro i responsabili di
quegli atti codardi, e promette una punizione esemplare. Si avverte
subito che si è all’inizio di un nuovo corso. Lo si legge sui volti dei
sopravvissuti, tra le parole del presidente, come l’eco che proviene
dalle rovine fumanti di un luogo che non esiste più. Non si sa bene dove
porterà quel nuovo corso della storia. Si capisce però immediatamente
che è foriero di nuove paure, di nuove incertezze e che ha gettato
all’improvviso un mondo fatto di benessere, prosperità e stabilità,
nelle ceneri dell’insicurezza.
Sarà un nuovo corso anche per questo presidente, che dopo tre anni da
quel giorno torna a New York. Lo fa per accettare un’altra sfida, ben
più semplice da sostenere: quella contro John F. Kerry. Da Ground Zero
ci si sposta al Madison Square Garden, ma la risolutezza del presidente
non cambia. Sfida Kerry con lo stesso coraggio con cui ha sfidato il
terrorismo internazionale. Non a caso avvia ufficialmente la
competizione col suo avversario alla corsa alla Casa Bianca proprio in
una delle città storicamente più ostili al suo partito: nella Grande
Mela la proporzione dei votanti per i due principali partiti
statunitensi è di circa un repubblicano ogni tre democratici.
Simbolicamente è la sfida di New York a dare la misura del mandato
presidenziale di George W. Bush. Perché su New York si sono giocati i
destini personali e collettivi. Perché a New York si consumano le
contraddizioni dell’America. Lì convivono tutte le anime di questo
paese, quelle con cui più di tutti dovrà confrontarsi il presidente.
New York è la sfida, che segna anche il carattere di definitività di
questa tornata elettorale, che premia o punisce un uomo solo, George W.,
con il suo avversario a fare da spettatore di una sentenza senza appello
(questa volta). In questo Bush ha già vinto e per questo passerà alla
storia. Nonostante l’11 settembre, la dichiarazione di guerra al
terrorismo internazionale e alle potenze dell’“Asse del Male”, la
liberazione dell’Afghanistan e dell’Iraq dall’oppressione del regime e
il difficile dopoguerra iracheno abbiano segnato, di fatto, le scelte
della presidenza, il risultato elettorale degli americani non si
giocherà solo sulle scelte (passate) di politica internazionale. Per il
responso delle urne gli elettori guarderanno al futuro e un fattore si
mostrerà certamente decisivo: la sicurezza. Parafrasando il titolo della
convention repubblicana, gli americani eleggeranno colui dal quale si
sentiranno più rassicurati, e che sarà in grado di riaccendere, nel
paese della speranza, le speranze del paese.
L’insediamento alla Casa Bianca
Quando George W. Bush si insediò alla Casa Bianca l’imperativo che
ispirò i suoi primi provvedimenti fu all’insegna del “dimenticare il
passato”. Era necessario mostrare agli americani che l’epoca di Bill
Clinton si era definitivamente conclusa e che era giunto il momento di
ricostruire anche moralmente il paese dopo gli scandali della presidenza
uscente. Come segno di questa scelta il nuovo presidente volle
immediatamente compiere un gesto simbolico: chiudere la porta dello
Studio Ovale che dava accesso allo studio privato dell’ex presidente e
alle “grazie” di Monica Lewinsky, proseguendo con tenacia sulla strada
del superamento attraverso la politica di difesa antimissilistica,
considerata come la nuova frontiera della sicurezza nazionale
statunitense, e attuata nel fondato timore che la minaccia più
pericolosa per gli Usa venisse dal cielo, da parte di quegli Stati –
Corea del Nord e Iran in testa – ostili all’America e in grado di
fabbricare missili a lunga gittata e armi di distruzione di massa. Poi
il ritorno alla politica dura nei confronti di Saddam Hussein; la
mancata sottoscrizione del protocollo di Kyoto, ritenuto fortemente
lesivo degli interessi nazionali; il superamento di Camp David, e
l’attuazione di una politica non conciliatoria nei confronti di Arafat;
il ritiro della firma di adesione alla Corte penale internazionale, in
difesa dei diritti dei cittadini americani perseguibili all’estero; la
revisione del trattato sulla proliferazione nucleare e il mutamento di
obiettivi nel campo della difesa; una nuova politica di sfruttamento
delle risorse energetiche che, invisa agli ambientalisti, puntasse a
ridurre il grado di dipendenza degli Usa dal petrolio mediorientale,
sfruttando le risorse dell’Alaska e superando la paura per il nucleare.
Ma Bush volle presentarsi anche come il presidente che guarda al futuro,
e alla supremazia economica degli Stati Uniti, credendo fermamente nel
libero mercato, nelle capacità d’iniziativa individuale e diffidando di
un eccessivo intervento dello Stato nelle questioni economiche. Perciò
affianca a questa serie di provvedimenti alcune misure più
tradizionalmente liberiste – già previste peraltro dal suo programma
elettorale – come la ferma politica di riduzione fiscale. Il taglio è
drastico. Sarà considerato il più imponente della storia degli Stati
Uniti: fino al 2007, saranno 350 i miliardi di dollari che resteranno a
disposizione degli americani, piuttosto che confluire nelle casse dello
Stato. E in dieci anni raggiungeranno un ammontare complessivo di 1350
miliardi di dollari. L’idea di fondo è che i risparmi dei contribuenti
non solo riescano ad attivare un circuito favorevole alla ripresa dei
consumi, e quindi alla ripresa economica, ma contribuiscano anche ad
aiutare i cittadini nell’acquisto e nell’investimento in beni sicuri:
dalla casa di proprietà – altro cavallo di battaglia di questa
Amministrazione – ai fondi pensione alle assicurazioni sanitarie.
In realtà già da come muove i suoi primi passi si capisce che quella di
Bush è un’Amministrazione repubblicana sui generis, che vuole bandito
dall’arte di governo un certo cinismo liberista, perché il suo
presidente è uomo di fede e governa all’insegna di una religiosità
profonda. L’impronta fideistica del mandato è tale da contribuire a
creare l’immagine del presidente come quella di un conservatore dal
volto umano e da procurare all’operato del suo governo addirittura
l’appellativo “di sinistra”. Il più democratico dei presidenti
repubblicani, sarà definito, e non tanto per le “wilsoniane” guerre di
liberazione dell’Afghanistan e dell’Iraq ma soprattutto per una serie di
politiche sociali – avviate almeno fino all’inizio di quest’anno
elettorale – di stampo fortemente progressista. Ne nasce quello che è
stato definito il “conservatorismo compassionevole” di Bush, che fin da
subito diviene vera e propria filosofia di governo, in nome della quale
l’amministrazione repubblicana vara programmi ad ampio raggio di
assistenza sociale. Vengono previste forme di sostegno per i redditi più
bassi; attuata la più grande riforma del sistema sanitario nazionale,
che prevede lo stanziamento di 500 miliardi di dollari (in dieci anni)
per fornire medicine e assistenza gratuite agli anziani; viene deciso
l’aumento dei finanziamenti alle scuole in attuazione del programma di
recupero scolastico per bambini rimasti indietro nella formazione (No
child behind Act). A questo si aggiungono i fondi stanziati per il
reinserimento di seicentomila carcerati; una legge sull’immigrazione che
di fatto riconosce ad oltre dieci milioni di immigrati diritti nuovi e
più ampi.
Naturalmente tutto ciò ha prodotto costi elevatissimi in termini di
spesa sociale e in parte anche di consenso politico. Quella che i
critici più aspri – anche all’interno della stessa coalizione
repubblicana – hanno definito come l’Amministrazione spendacciona di
Bush, in effetti, ha condotto un’impennata della spesa pubblica,
addirittura maggiore rispetto all’ultimo anno di amministrazione
Clinton. In tre anni il bilancio Usa ha sostenuto oltre il 60 per cento
di spese in più per l’istruzione, il 56 per cento per il lavoro, il 22,4
per cento per la riforma del settore energetico e il 21,4 per il
finanziamento della sanità. Senza considerare le spese aggiuntive
sostenute per la difesa e la salvaguardia della sicurezza nazionale, che
dopo l’11 settembre sono aumentate del 27,3 per cento.
In effetti, la sicurezza dagli attentati alle Torri è e rimane al centro
della politica presidenziale. In quest’ottica viene creato il nuovo
Department of Homeland Security, e vengono previsti nuovi provvedimenti
che danno definitivamente un volto organico a tutte le leggi esistenti
in materia. L’11 settembre ha cambiato definitivamente le priorità dei
governi americani. Esiste un nuovo obiettivo ed è divenuto un obiettivo
permanente e imprescindibile. Di fatto Bush ha chiesto agli americani
d’imparare a convivere con la paura e con il rischio, di non abbassare
mai le difese interne. Dal canto suo il governo si è impegnato a creare
tutti gli strumenti in grado di prevenire nuovi attacchi terroristici,
mettendo a disposizione della popolazione ogni misura in grado di
diminuire il livello di vulnerabilità del paese. Dal miglioramento della
sicurezza informatica ad un incisivo aumento dei sistemi di protezione
per i cosiddetti punti sensibili: aeroporti, autostrade, oleodotti.
Dall’aumento delle interazioni tra le varie agenzie nelle attività di
intelligence a un programma complesso che prevede, oltre all’impiego dei
militari come vera e propria forza di polizia, la costituzione di
barriere intelligenti in grado di monitorare gli ingressi nel paese. Ma
la sicurezza dell’America, secondo Bush, viene da lontano, e può essere
garantita esclusivamente dalla sconfitta del nemico. A questo fine
messianico, di lotta del Bene contro il Male, sono servite le guerre
contro i regimi mediorientali. E la vittoria definitiva sarà possibile
solo liberando il Medio Oriente dalle dittature ed esportando in
quell’area del pianeta la democrazia e la libertà.
Per questo alla strategia di guerra aggiunge numerose altre iniziative
di lotta al terrorismo: come la Greater Middle East Initiative, che
prevede un programma di sostegno e assistenza finanziaria e tecnica ai
gruppi della società civile mediorientale che promuovono democrazia e
diritti umani. E avvia un progetto pilota di finanziamenti al Medio
Oriente, con l’obiettivo di realizzare in quei paesi un ambiente
favorevole allo sviluppo delle aziende private. A queste iniziative si
aggiungono quelle di sostegno economico ai paesi del Terzo Mondo,
raddoppiato rispetto al passato, e un programma per combattere la piaga
dell’Aids.
Con lo sguardo rivolto all’appuntamento elettorale di novembre,
dall’inizio di quest’anno, e in assoluta ottemperanza ai consigli del
suo più stretto collaboratore, Karl Rove – quello che tutti considerano
il vero ispiratore della politica presidenziale e che sostiene la
necessità di fidelizzare il proprio elettorato piuttosto che conquistare
nuovi elettori – l’Amministrazione ha cominciato ad approvare una serie
di provvedimenti in favore dello zoccolo duro del suo elettorato social
conservative. Sono provvedimenti dell’ultima ora, certo, ma su cui la
squadra del presidente spera di ricompattare gran parte di quella base
elettorale che ha contribuito a farlo eleggere quattro anni fa. Quello
stesso elettorato – la destra repubblicana tradizionalista e cristiana –
rimasto deluso da una serie di provvedimenti eccessivamente “di
sinistra” adottati dalla nuova Amministrazione. E che ha considerato la
politica del deficit spending del presidente indistinguibile da quella
di un qualsiasi altro presidente democratico.
A questo nuovo corso si ascrivono i provvedimenti più discussi
dell’Amministrazione Bush: dal blocco dei finanziamenti federali sulla
ricerca scientifica sugli embrioni e sulle cellule staminali al sostegno
all’emendamento costituzionale che vieta i matrimoni tra le coppie
omosessuali, al finanziamento per un ammontare di oltre 180 milioni di
dollari per un programma di aiuti alle associazioni religiose che
assistono i poveri; dallo stanziamento di fondi federali per
propagandare il valore morale dell’astinenza sessuale ai test anti-droga
per il controllo degli studenti nelle scuole.
I destini di una presidenza
Quelle ventiquattr’ore che cambiarono il mondo hanno di certo imposto un
radicale mutamento di rotta a questa presidenza che per l’incalzare
degli eventi ha dovuto riscrivere da capo la propria agenda. Alla
politica isolazionista propria della tradizione repubblicana si è
sostituita la teoria della guerra preventiva, alla politica dello Stato
minimo si è sostituito il potere dello Stato interventista. Eppure a
cambiare radicalmente fu più di tutti la percezione che il mondo esterno
cominciò ad avere di George W. Bush, una percezione all’apparenza
persino contraddittoria nei suoi tratti ora compassionevoli ora
intransigenti, a volte aggressivi talvolta indulgenti. In realtà, tutte
queste anime sono state interpretate e in qualche modo compendiate
nell’essenza stessa del presidente. Sono emerse – come sempre avviene in
situazioni di emergenza – a causa dell’avvicendarsi di eventi drammatici
ed imprevedibili, certo, e forse in parte anche nel tentativo di sanare
un originario vizio di legittimità di questa presidenza: quello
derivante dalla tanto discussa vittoria “a tavolino” ottenuta contro Al
Gore, che avrebbe, infatti, indotto il neoeletto presidente a cercare di
diventare a tutti i costi un leader per tutta la nazione. Ma sono emerse
soprattutto perché in qualche modo connaturate alla identità stessa di
Bush, alle sue note biografiche, alla riscoperta (ad un certo punto
della sua vita, grazie alla moglie Laura) della fede, alle esperienze
vissute da quest’uomo che ha fatto dei valori tradizionali, come la
famiglia, il fondamento della sua personalità e del suo operato. Un uomo
che se considera le capacità imprenditoriali individuali e il lavoro il
motore della crescita del suo paese e va fiero del suo passato da
imprenditore, recupera in qualche modo i valori del comunitarismo e
della società civile come naturale bilanciamento degli interessi del
singolo e di uno Stato eccessivamente interventista. Un uomo che si
sente l’americano medio, che si presenta come uno dei tanti, che non ha
timore di mostrare e sostenere ogni slancio caritatevole e umano verso
chi ha bisogno.
Tutte caratteristiche, queste, che hanno fatto definire compassionate il
suo conservatorismo. Del resto, quando, alla fine degli anni Ottanta,
Bush venne a conoscenza per la prima volta del “conservatorismo
compassionevole”, la dottrina cara a una certa destra cristiana, lo
colpì moltissimo, conquistandolo, l’idea che attorno a questa formula si
potesse ricompattare, come lui stesso riuscì a fare nel corso della
campagna elettorale del 2000, una nuova coalizione conservatrice, una
new Right che mettesse insieme la destra cristiana e popolare degli
Stati del Sud, l’élite repubblicana del New England e le idee di quel
gruppo di intellettuali neoconservatori, sostanzialmente liberal in
politica interna e fortemente aggressivi in politica estera, che tanta
influenza avrebbero esercitato sulle decisioni di questo presidente.
Questa è la destra americana che ha voluto Bush e che Bush ha voluto. E
per questo tra meno di due mesi verrà giudicato.
A prescindere da quel che accadrà, questo presidente verrà ricordato da
tutto il mondo perché quel giorno di settembre lui era a Ground Zero, ha
preso per mano il suo popolo, lo ha riportato alle ragioni di
un’ordinaria quotidianità, tenendolo unito sotto di sé. Quando tutto
appariva impazzito, ha infuso coraggio e senso di orgoglio a quella
parte di mondo che si è sentita colpita mortalmente al cuore. Se il 2
novembre una sola America uscirà vincitrice dalle urne, quella pro-Bush
o quella anti-Bush, ciò che è certo è che essa tornerà immediatamente a
compattarsi dietro al suo presidente. Nella convinzione comune a tutti
gli americani, e raccontata dalle poche parole dall’indimenticato
presidente Reagan, che «la libertà è l’essenza profonda della nostra
nazione. La nostra non è una nazione perfetta. Ma anche con tutti i
nostri problemi, rimaniamo la boa di speranza degli oppressi di tutto il
mondo. Non rinunciate mai alla lotta in nome della libertà, una
battaglia che, sebbene possa non finire mai, è la più nobile che l’uomo
possa conoscere».
23 ottobre 2004
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