Kerry contro Kerry
di Andrea Mancia
da Ideazione, settembre-ottobre 2004
Quando al candidato democratico Adlai Stevenson, sconfitto seccamente da
Dwight D. Eisenhower alle presidenziali statunitensi del 1952, fu
chiesto di trovare una spiegazione all’inaspettata disfatta, l’ex
governatore dell’Illinois rispose semplicemente: «Ho fatto campagna
elettorale nel continente sbagliato». Osannato in Europa come un
redivivo John Fitzgerald Kennedy, anche a John Forbes Kerry potrebbe
capitare la stessa sorte in caso di vittoria di George W. Bush alle
prossime elezioni di novembre. Un’eventualità che getterebbe nel più
cupo sconforto la sinistra americana e mondiale, ma che non sembra così
improbabile quando si analizza il curriculum dell’ex senatore uscito
vittorioso dalle primarie democratiche del 2004.
Nei giorni immediatamente successivi alla designazione di Kerry, Dick
Morris, l’ex consigliere del presidente Bill Clinton da molti
considerato come il vero artefice della rielezione di Slick Willy nel
1996, ha dichiarato sconfitto in partenza lo sfidante di Bush. «Il
partito democratico – scrive Morris – ha deciso di rompere la tradizione
pragmatica e moderata degli anni Novanta per ritornare all’estremismo
liberal che ha caratterizzato le candidature di Walter Mondale e Michael
Dukakis. A Bush basterà ricordare agli elettori il record senatoriale,
ultraliberal, di Kerry per vincere». La triste (per i democratici)
realtà è che il partito di Woodrow Wilson e Franklin D. Roosevelt,
all’inizio di quest’anno si è trovato di fronte a un vicolo cieco:
scegliere la candidatura, oggettivamente debole, di Kerry o affidarsi a
quella, oggettivamente perdente, di Howard “Angry” Dean, rivoluzionaria
nei metodi di fundraising e capace di coinvolgere le nuove generazioni,
ma troppo radicale e del tutto fuori sintonia con l’America mainstream.
I democratici, d’istinto, hanno scelto il male minore. Ma la loro deriva
a sinistra, scatenata dall’odio nei confronti di Bush, era ormai troppo
profonda per dar loro il coraggio di puntare su un candidato realmente
competitivo come John Edwards o Wesley Clark. E alla fine sono rimasti
con Kerry.
Un centrista alla sinistra di Ted Kennedy
«Chi l’avrebbe mai detto – scherza il presidente del Republican National
Committee, Ed Gillespie – è Ted Kennedy il senatore più conservatore del
Massachusetts». La sorpresa è d’obbligo, visto il passato del fratello
socialista di JFK (quello vero). Eppure la conferma arriva sia da
sinistra che da destra. Secondo il think-thank progressista Americans
for Democratic Action, il vecchio Ted merita un punteggio di 90 su 100
nell’applicazione dei principi liberal nel corso della sua carriera
politica. Ma John Forbes Kerry, nei 19 anni trascorsi da junior senator
dello stesso Stato, lo batte con un sensazionale 92, appena “sporcato”
dal voto favorevole all’intervento in Iraq. Anche per l’American
Conservative Union, che ogni anno stila una classifica simile – ma con
finalità opposte – il candidato democratico alla Casa Bianca è il
senatore più liberal di Capitol Hill, con il 5 per cento di gradimento
da parte dell’Acu. Peggio addirittura di Dennis “the Red” Kucinich, che
raggiunge il triplo della valutazione con il 15 per cento.
Su ogni progetto non collegato al bilancio militare, Kerry è uno dei big
spender più accaniti del Senato statunitense. Per la fondazione
liberista Citizens Against Government Waste, il suo rating in carriera
non arriva al 25 per cento (e negli ultimi anni è addirittura intorno al
20). Kerry ha votato contro il Balanced Budget Amendment almeno cinque
volte. E con la bocciatura del taglio delle tasse (superiore ai mille
miliardi di dollari) voluto dall’Amministrazione Bush, il candidato
democratico ha raggiunto il suo decimo voto contrario a proposte di
riduzione fiscale. Nel 1993, invece, Kerry è stato favorevole
all’aumento di tasse deciso dall’Amministrazione Clinton, il più vistoso
incremento fiscale nella storia degli Stati Uniti che, molto
probabilmente, fu la causa principale del successo dei repubblicani di
Newt Gingrich alle elezioni di mid-term del 1994 con il Contract with
America. Oggi fautore di un «ritorno alla responsabilità fiscale degli
anni Novanta», Kerry è considerato un nemico dei contribuenti
statunitensi anche dalla National Taxpayers Union (con un rating del
25,2 per cento), dagli Americans for Tax Reform (con un punteggio del
12,5 per cento nel quadriennio 1999-2002) e perfino da una fondazione
indipendente come la National Federation of Independent Business (21,4
per cento).
Ma non è soltanto sui temi della politica fiscale che la maschera
centrista di Kerry non regge ad un esame accurato della sua carriera
senatoriale. Nel 2000 ha votato per l’espansione a 360 gradi della
controversa legislazione federale sui “crimini d’odio”. Si è sempre
distinto per l’appoggio incondizionato all’Affirmative Action. Ha
garantito un sostegno decennale alla League of Conservation Voters,
associazione nonprofit definita di “estrema sinistra” nella
classificazione (scientifica) del Capital Research Center, che ha deciso
di appoggiarlo nella campagna per le presidenziali e lo ha onorato con
un lifetime record del 92 per cento. Kerry ha votato in favore del
finanziamento federale per l’aborto e contro l’obbligo di notifica ai
genitori in caso di aborto compiuto da minori. Ottenendo una percentuale
di “zero” dal National Right to Life Committee e un “100” pieno dai loro
avversari della National Abortion and Reproductive Rights League.
Kerry è sempre stato fieramente contrario alla pena di morte, ma dopo
l’11 settembre 2001 si è detto favorevole all’applicazione della pena
capitale nei confronti di terroristi, contraddicendo ancora una volta la
propria storia personale che lo ha visto, tra il 1989 e il 1993, votare
almeno tre volte a favore della proposta di escludere proprio il
terrorismo dalla lista di crimini passibili di death-penalty. Come
vicegovernatore di Michael Dukakis, dal 1983 al 1985, egli ha condiviso
e sostenuto attivamente alcuni degli scivoloni legislativi più vistosi
del candidato democratico sconfitto da George Bush padre alle
presidenziali del 1988. Un caso per tutti: il programma di
“riabilitazione” per criminali che concedeva il weekend in libertà anche
ad assassini condannati in ultimo grado di giudizio. Uno di loro, Willie
Horton, costò probabilmente la Casa Bianca a Dukakis, violentando e
uccidendo una donna nel corso della campagna elettorale, proprio durante
un weekend-premio gentilmente concesso dalla ditta Dukakis-Kerry.
Armi di distrazione di massa
«Uno dei modi più efficaci per mettere Kerry in imbarazzo durante
un’intervista – ha scritto Lowell Ponte sulla rivista FrontPage Magazine
– è chiedergli quali siano state le leggi più importanti alla cui
stesura abbia contribuito. Perché non ce n’è neppure una». Nullo sotto
il profilo legislativo, il senatore del Massachusetts è però sempre
stato molto attivo quando le telecamere dei grandi network puntavano i
propri obiettivi su Washington, come durante lo “scandalo” Iran-Contras
negli anni della presidenza di Ronald Reagan. Anche se i critici
ricordano che, sotto la sua presidenza, la sotto-commissione sul
narcotraffico interruppe improvvisamente le indagini, fino a quel
momento assai pubblicizzate, quando fu scoperto un legame tra i “fondi
neri” del dittatore panamense Manuel Noriega e la Bank of Credit and
Commerce International gestita dall’illustre esponente democratico Clark
Clifford, membro delle amministrazioni Truman, Kennedy e Johnson. Kerry
evitò accuratamente di andare a fondo nella vicenda anche perché, come
hanno scritto James R. Adams e Douglas Franz nel libro A Full Service
Bank, «stava imparando proprio in quei giorni le regole del
Washington-game». Regole che pochi mesi dopo già conosceva alla
perfezione, come dimostrò insediandosi in pianta stabile alla presidenza
del Democratic Senatorial Campaign Committee, la macchina del partito
preposta alla raccolta di fondi elettorali.
Per otto anni, fino al gennaio 2001, Kerry è stato uno dei componenti
della commissione sull’intelligence. Un ruolo da lui molto sottolineato
in una campagna presidenziale in gran parte giocata sulla capacità di
gestire al meglio la guerra contro il terrorismo. Nel suo sito Internet
ufficiale, addirittura, fino a pochi giorni fa il candidato democratico
era segnalato come l’ex vicepresidente della commissione. Un
significativo biglietto da visita per la corsa alla Casa Bianca. Almeno
fino a quando un reporter di Fox News ha rivelato che in realtà si
trattava di un suo quasi-omonimo, l’ex senatore del Nebraska Bob Kerrey.
Equivoci a parte, una sola cosa è certa: Kerry è stato assente nel 75,5
per cento delle riunioni pubbliche della commissione (37 su 49). E ha
rifiutato di diffondere i dati relativi alle riunioni a porte chiuse.
Appena la notizia è iniziata a circolare, la campagna Bush-Cheeney ha
deciso di realizzare uno spot televisivo sull’argomento, scatenando la
reazione immediata del Rapid Response Center democratico, che ha parlato
di «aritmetica confusa e statistiche sbagliate». Alla fine
FactCheck.org, organizzazione indipendente che si occupa della verifica
delle fonti, ha dato ragione a Kerry e torto a Bush: si trattava di 38
riunioni su 49, per un totale del 77,6 per cento. Quando si dice la
precisione.
Nessuna
innata tendenza all’assenteismo, però, riuscirebbe mai a frenare la
pretesa di diventare il commander-in-chief americano quanto il record
senatoriale di Kerry sui voti a favore della riduzione del budget
militare. Nel 1991 è stato uno dei 45 senatori a votare contro
l’intervento militare nel Golfo contro l’Iraq. Nel 2002, come John
Edwards, ha votato a favore dell’uso della forza contro Saddam Hussein,
ma poi entrambi hanno votato contro il finanziamento supplementare delle
truppe nel 2004. Nel 1996, Kerry ha votato a favore del cosiddetto
Emendamento Harkin, che si proponeva di congelare i fondi della difesa
per sette anni e trasferire i 35 miliardi di dollari risparmiati in
attività di job training. Dal 1985 al 2000 ha votato 53 volte contro il
finanziamento dei programmi di difesa anti-missile. Negli stessi anni,
ha votato per l’eliminazione dei missili Patriot, dei bombardieri
Stealth B-2, dei cacciabombardieri F-14A, F-14D, F-15 e F-16, dei
missili da crociera Tomahawk, degli elicotteri Apache AH-64, dei jet ad
atterraggio verticale Harrier AV-8B e degli incrociatori Aegis Cruiser.
Fosse stato per lui, insomma, oggi l’esercito statunitense combatterebbe
in Afghanistan e Iraq con le mazzafionde.
Il re dei flip-floppers
Nel marzo di quest’anno, parlando ai leader della comunità ebraica
newyorkese, Kerry ha difeso la costruzione della barriera tra Israele e
territori palestinesi definendola «un legittimo atto di auto-difesa».
Nell’ottobre 2003, di fronte a una platea di arabi-americani, l’aveva
descritta come «un ostacolo per la pace, fastidioso e controproducente».
Mister Everything to Everyone, come l’ha chiamato David M. Halbfinger
sul New York Times, è riuscito nel corso della sua carriera a sostenere
tutto e il contrario di tutto. Un elenco dettagliato dei suoi flip flop
sarebbe interminabile, proviamo allora ad esaminare i più clamorosi. Nel
novembre del 2002, Kerry vota a favore dell’intervento americano in
Iraq. Quest’anno, durante la campagna per le primarie democratiche che
lo vede opposto ad Howard Dean, critica aspramente la scelta di
regime-change dell’Amministrazione Bush e vota contro il finanziamento
delle truppe in Medio Oriente. Nell’ottobre del 2001, dopo i sanguinosi
attentati contro le Twin Towers e il Pentagono, vota a favore del
Patriot Act. Nell’ottobre 2002, in un discorso alla Iowa State
University, invoca «la fine dell’era-Ashcroft» e l’abolizione del
Patriot Act. Nel gennaio del 1991, ad un elettore del Massachusetts che
chiede delucidazioni sull’intervento statunitense nel Golfo Persico dopo
l’invasione irachena del Kuwait, l’ufficio-stampa di Kerry risponde con
due lettere diverse: una che critica la decisione di Bush sr. e una che
la difende. Interrogato in merito, Kerry addosserà ogni colpa ai propri
collaboratori, sostenendo di essere contrario alla missione Desert Storm
ma favorevole al sostegno delle truppe presenti nel Golfo.
L’11 marzo del 2003, Kerry dichiara al Boston Globe che non criticherà
le scelte di politica estera dell’Amministrazione Bush durante le
operazioni militari, come segno di rispetto per «i ragazzi che
combattono ascoltando la radio nel deserto». Il 4 aprile 2003, Kerry
dichiara al Boston Globe che «non c’è bisogno di un cambio di regime in
Iraq, ma di un cambio di regime negli Stati Uniti». Nel dicembre 2001,
Kerry vota a favore del No Child Left Behind Act. Nell’aprile 2003
definisce «ridicolo» il piano per l’educazione di Bush. Dal 1995 al
2000, Kerry vota quattro volte contro il prolungamento delle sanzioni
economiche a Cuba. Nell’agosto del 2003, intervistato da Tim Russert
durante il programma Meet the Press della Nbc, si dice favorevole al
mantenimento dell’embargo. Nel novembre del 1993, Kerry vota “sì” al
trattato Nafta per l’istituzione di un’area di libero commercio in Nord
America. Dieci anni più tardi, afferma che si tratta di un accordo in
cui è totalmente assente il rispetto dei minimi standard ambientali e
sindacali. Nel dicembre 2002, di fronte ad una platea di imprenditori,
Kerry si dice favorevole alla revoca della doppia imposta sui capital
gains. Nel maggio 2003, dichiara all’Associated Press di essere
contrario alla proposta repubblicana di abolizione della doppia imposta
sui capital gains.
Basta una veloce visita ad un motore di ricerca per Internet, con le
parole-chiave “kerry flip flop” per scoprire gli altri argomenti su cui
il candidato democratico ha esercitato con creatività la nobile arte di
cambiare idea, spesso a distanza di poche settimane e spesso tornando
precipitosamente sui propri passi. Una lista, assai sommaria, include:
il commercio con la Cina, i matrimoni omosessuali, la pena di morte,
l’Affirmative Action, l’aumento delle tasse durante i periodi di
recessione, l’imposizione fiscale per le piccole imprese, la riforma del
sistema sanitario e del sistema di previdenza sociale, l’uso terapeutico
della marijuana, le sanzioni economiche alla Birmania, l’utilizzo di
donazioni private per la campagna elettorale, il sistema di difesa
anti-missile, la cosiddetta Internet Tax.
Il pantano del Vietnam
Ansioso di distogliere l’attenzione pubblica dal proprio record
senatoriale, Kerry ha affrontato la campagna per le presidenziali 2004
in groppa al suo cavallo da battaglia preferito: i quattro mesi da lui
trascorsi tra il 1968 e il 1969 in Vietnam al comando di una delle swift
boat che pattugliavano il delta del Mekong. Un centinaio abbondante di
giorni passati nel Sud-Est asiatico che gli hanno fruttato una medaglia
d’argento, una di bronzo e tre purple hearts per ferite subite in
combattimento, esattamente quelle sufficienti per tornare in fretta nel
suo amato New England. A più di trent’anni dalla conclusione del
conflitto, si tratterebbe quasi di un dettaglio biografico
insignificante ai fini della valutazione di un candidato alla Casa
Bianca. Se non fosse per le posizioni ultra-pacifiste sostenute da Kerry
al rientro in patria e per i suoi continui, scientifici ed assillanti
riferimenti al Vietnam presenti in ogni comizio, spot televisivo o
intervista.
L’eroe di guerra che durante la convention di Boston del partito
democratico si è circondato di un esercito di veterani amici e ha
proiettato uno sconcertante documentario (nel senso che Michael Moore
attribuisce al termine) autobiografico, ritoccato con maestria da un
protégé di Steven Spielberg, ha in realtà con la guerra in Vietnam una
relazione molto più complessa di quanto non voglia far credere. Nel
giugno 1970, infatti, Kerry entra a far parte dei Vietnam Veterans
Against the War, gruppo di veterani pacifisti che milita tra le fila del
Peoples Coalition for Peace and Justice, insieme al partito comunista
statunitense, a reduci delle Black Panthers e a personaggi controversi
della sinistra radicale come Jane “Hanoi” Fonda, Jeremy Rifkin e Mark
Lane (il “principe” delle teorie cospiratorie sull’assassinio di
Kennedy). I VVAW si distinguono per alcune interessanti iniziative
filantropiche: un viaggio nel Vietnam del Nord per portare la
solidarietà del “popolo americano” al governo comunista di Ho Chi Minh,
una serie di trasmissioni diffuse da Radio Hanoi per invitare alla
diserzione i soldati americani e sud-vietnamiti e una serie
interminabile di comizi a sostegno dei vietcong, tra cui merita di
essere ricordato quello di Hanoi Jane alla University of Michigan nel
novembre del 1970, in cui si sostiene che «se gli americani capissero
cosa è realmente il comunismo, pregherebbero in ginocchio per avere un
governo comunista».
Il ruolo di
Kerry nei VVAW balza improvvisamente agli onori della cronaca il 22
aprile 1971, con una testimonianza di fronte alla commissione esteri del
Senato, in cui l’ex “eroe di guerra” accusa l’esercito degli Stati Uniti
di essere responsabile in Vietnam di una interminabile serie di atroci
crimini: «Hanno stuprato donne e bambine, tagliato orecchie, mozzato
teste, amputato braccia, fatto esplodere cadaveri, massacrato civili,
raso al suolo villaggi con lo stile di Gengis Khan». «Non si è trattato
di casi isolati – afferma Kerry – ma di crimini commessi ogni giorno con
la complicità degli ufficiali ad ogni livello della catena di comando».
Storici e analisti dimostreranno, negli anni seguenti, che la
testimonianza di Kerry, nella migliore delle ipotesi, era basata su
esagerazioni di seconda o terza mano. E che l’intera Winter Soldier
Investigation, orchestrata dai VVAW, era stata condotta in gran parte
utilizzando testimonianze false di “veterani” che non erano mai stati in
Vietnam. Ma ormai gli obiettivi mediatici erano stati raggiunti, e la
stella politica di Kerry aveva iniziato a brillare nel cielo della
“Repubblica Socialista del Massachusetts”.
Ordinarie storie di propaganda, meritevoli di finire nell’oblio della
Guerra Fredda, se non fosse che – a pochi mesi dalle elezioni
presidenziali – un gruppo di commilitoni di Kerry, chiamato Swift
Veterans for Truth, ha deciso che il “traditore” non era degno di
ricoprire il ruolo di commander-in-chief e, a colpi di spot televisivi
ma soprattutto attraverso Internet, ha iniziato a pubblicizzare un libro
scritto da John E. O’Neill e Jerome R. Corsi dal titolo Unfit for
Command, in cui si sostiene tra l’altro che le medaglie conquistate da
Kerry in Vietnam sono immeritate (soprattutto l’ultima purple heart che
gli ha permesso di tornare a casa) e che il candidato democratico ha
mentito clamorosamente su una sua presunta incursione segreta in
Cambogia nel Natale del 1968 (un fatto che Kerry ha definito
«cicatrizzato nella memoria» in un discorso tenuto al Senato nel marzo
1986) che gli avrebbe fatto cambiare idea sulla legittimità della guerra
in Vietnam.
O’Neill, comandante di una swift boat che operava nella stessa flotta di
quella di Kerry, aveva già polemizzato con l’ex senatore nel 1971 in una
infuocata diretta televisiva nazionale trasmessa dalla Abc. E a nulla
sembrano essere servite le repliche democratiche che lo accusano di
essere uno strumento, prima di Richard Nixon e oggi della fabbrica dei
dirty tricks di Bush e del suo consigliere Karl Rove. Unfit for Command
è velocemente diventato il libro più venduto on-line su Amazon (lo è
ancora, nel momento in cui scriviamo) ed ha scalato la classifica dei
best-seller del New York Times, provocando un danno di immagine
incalcolabile per le aspirazioni presidenziali di Kerry, che ha
praticamente passato un mese a difendersi dalle accuse e ad “aggiustare”
il proprio curriculum militare per controbattere alle prove testimoniali
raccolte dagli swifties. Il problema, come ha scritto l’ex colonnello
Oliver North su Townhall.com il 27 agosto di quest’anno (anche North ha
meritato una medaglia d’argento e una di bronzo in Vietnam, ma ha
ripetutamente rifiutato la terza purple heart che gli avrebbe fruttato
il congedo), «non è tanto relativo alle medaglie, all’aver fatto
pressioni per tornare a casa o all’essersi perso in Cambogia; il
problema è quello che Kerry ha fatto una volta tornato in patria». E il
libro di O’Neill e Corsi, insieme alla tempesta mediatica che si è
scatenata sull’argomento durante l’estate, ha riportato l’attenzione
dell’elettorato sul dibattito politico che ha diviso l’America e il
mondo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta,
evidenziando le posizioni radicali di Kerry e gettando un’ombra
indelebile sull’immagine di eroe di guerra da lui costruita tanto
faticosamente nel corso degli ultimi decenni.
«Il capitano James Warner – scrive sempre Ollie North – aveva già
trascorso quattro anni in un campo di prigionia vietnamita, quando i
suoi carcerieri gli consegnarono una copia della testimonianza di Kerry
al Senato del 1971. I vietcong gli dissero che si trattava di una prova
inconfutabile della legittimità della sua reclusione. Warner rimase
ostaggio dei comunisti vietnamiti fino al 12 febbraio 1973. [...]
Perfino Jane Fonda ha chiesto scusa ai soldati americani. Farai lo
stesso, John?». Gli Stati Uniti aspettano ancora una risposta. .
23 ottobre 2004
|