All’ombra della Casa Bianca
di Giuseppe De Bellis
da Ideazione, settembre-ottobre 2004

L’unica spiegazione di che cosa sia uno staff elettorale l’ha data James Carville, stratega delle campagne di Bill Clinton e più importante spin doctor degli ultimi trent’anni: «Un gruppo di persone che si muovono nell’ombra. Fanno diventare una persona famosa e poi trasformano il suo essere diventato famoso in un lavoro». È una definizione fredda, distaccata, banale. L’unica, però. Perché anche Karl Rove, l’uomo che si nasconde dietro Bush e ne guida ogni passo, la pensa così. Oggi Carville è fuori, Rove è dentro, immerso in pieno nella corsa alla riconferma del presidente Usa alla Casa Bianca. Si gioca proprio dietro le quinte la partita, come sempre. Uomini ombra contro altri uomini ombra. Rove guida uno staff leggero e collaudato. È pressoché lo stesso del 2000, quello della prima elezione di Bush Jr. Una ventina di persone che ruotano tutte intorno a quest’uomo nato il giorno di Natale del 1950, cresciuto a Salt Lake City, nello Utah. Rove è l’uomo di cui il presidente si fida di più. Meglio di un fratello o del papà di cui George W. sente tutt’oggi il peso. Lo stratega repubblicano è anche un amico di famiglia: nel 1973 proprio George senior lo reclutò per dirigere il College Republican National Committee. All’epoca Bush padre era il presidente nazionale del partito: al giovane Karl affidò il compito di riorganizzare la gioventù repubblicana che vagava nei campus universitari. Ex dipendente della Philip Morris, Rove è stato definito da Jessica Reaves di Time come «la più istintiva mente politica». Non è mai riuscito a laurearsi, lasciando il college che frequentava nello Utah ad appena 21 anni, nel 1971. Di sé gli piace il fatto di essere una «persona molto competitiva», stesso motivo per cui i detrattori l’accusano di essere in grado di fare «di tutto pur di riuscire a vincere». È vero, non ha scrupoli Karl Rove, come non ne ha nessuno degli spin doctor. Non ce l’aveva Bill Safire ora columnist del New York Times, che un tempo guidava le campagne elettorali di Richard Nixon. Non ce l’aveva neanche Carville, che tutt’oggi continua a ripetere ossessivamente uno dei motti che hanno segnato la sua vita accanto a Clinton: «Per evitare la pubblicazione di una fotografia tutto è lecito».

Il genio di Karl Rove dietro le mosse del presidente

«è probabilmente il più influente e importante consigliere politico che un presidente degli Stati Uniti abbia mai avuto», dice Maureen Dowd del New York Times di Karl Rove che oggi ha un compito più difficile di quello del 2000. Rispetto ad allora cambia la strategia. Dopo l’11 settembre fu uno dei promotori della nuova campagna anti-terrorismo degli Usa. Tra le menti che hanno organizzato la guerra in Iraq, il braccio destro del presidente è stato anche il primo a capire che gli Stati Uniti dovevano dare un segnale chiaro alla comunità internazionale dopo lo scandalo delle torture del carcere di Abu Ghraib. A lui, secondo The New Republic, si deve il gioco d’anticipo della Casa Bianca sul ritorno ai pieni poteri di un governo iracheno. La data prevista era il 30 giugno, Rove ha convinto il presidente che farlo qualche giorno prima avrebbe dato uno spessore diverso all’iniziativa. Che si dovesse uscire presto dal “pantano iracheno”, lo stratega di Washington l’aveva capito sin da aprile. Il 17 convocò una conferenza stampa per annunciare che lui era pentito del fatto che, in occasione della visita di Bush sulla portaerei Lincoln un anno prima, fosse comparso uno striscione con la scritta “Missione compiuta”. Dalla portaerei, il presidente annunciò la fine della guerra in Iraq: Baghdad presa. Quello striscione nei mesi successivi venne preso come pretesto dai Democratici per attaccare la Casa Bianca sulla mancanza di armi di distruzione di massa, sul continuo stillicidio di morti tra le truppe Usa. Ad aprile, in Ohio, Rove ha detto ai giornalisti che quello fu un errore: «Avrei preferito che lo striscione non fosse mai stato esposto, è diventato un simbolo elettorale per i democratici da usare contro di noi. Quella scritta faceva riferimento alla missione della portaerei appena rientrata in California e non alla guerra in Iraq, ma era facile fraintenderlo ed è stato frainteso. Dovevamo evitare che accadesse».

La chiacchierata con i giornalisti non è stata un caso. È l’esatta dimostrazione del cambio di rotta voluto dall’uomo ombra di Bush. Perché se da un lato continua la campagna aggressiva contro il rivale John Kerry, dall’altro lato Rove vuole a tutti i costi ridisegnare i repubblicani: l’anima pura dell’America, quelli in grado di ammettere gli errori. Stesso discorso quando la Commissione sull’11 settembre ha pubblicato il rapporto definitivo della sua inchiesta sugli attentati di al Qaeda. Secondo il Washington Post è stato proprio Rove a consigliare a Bush una reazione conciliante e politically correct: «Un rapporto interessante, che offre molti consigli su come gestire nel futuro la sicurezza interna». Ma dello sbaglio confessato ai reporter in Ohio ci sono altri aspetti importanti: data e luogo. Aprile, ovvero piena campagna, Columbus, capitale dello Stato dove probabilmente si deciderà chi sarà l’inquilino della Casa Bianca per i prossimi quattro anni. In Ohio Rove sta spendendo al massimo il suo ingegno: è lui l’ideatore del multilevel marketing repubblicano che dalla fine del 2003 è la strategia guida dell’intero sforzo conservatore. È un porta a porta simile a quello che Al Gore utilizzò nel 2000, ma le forze in campo volute dal consulente del presidente sono molte di più: diecimila persone bussano in ogni villaggio dello Stato per sponsorizzare il partito e «l’uomo che sta riportando la sicurezza nel mondo, che vigila sui giovani americani al fronte, che ridarà lavoro a tutti».

Rove è anche il principale ideatore della campagna mediatica sull’immagine di Bush. Dall’anno scorso ha fatto in modo che per il presidente e contro Kerry lavorassero alcuni tra i più bravi maghi della comunicazione televisiva degli Stati Uniti. In realtà questo è un lavoro che dal 2000 a oggi non è mai stato interrotto. Un esempio è proprio l’atterraggio sulla portaerei Lincoln. Rove spedì a bordo l’ex produttore della Abc Scott Sforza diversi giorni prima dell’arrivo del presidente col compito di organizzare le riprese per il momento della discesa di Bush: dal gruppo dei Top Gun in attesa della foto con Bush, ai colori delle magliette dei marinai, dalla posizione della nave rispetto al sole alla scelta dell’ora più spettacolare (l’inizio del tramonto) per avvolgere il presidente, anche con l’aiuto di alcuni riflettori, di una luminosità magica. Fu un successo clamoroso, prima che apparisse lo striscione «Missione compiuta». Lo stesso team di maghi dell’immagine ha lavorato per la convention repubblicana di New York, altro punto forte della strategia di Rove. Mai nella loro storia i conservatori avevano organizzato una convenzione nella democratica Grande Mela. «Pur sapendo che non potranno vincere qui – ha scritto il New Yorker – Rove ha fatto in modo di venire a New York perché è stata un’occasione per dimostrare l’attaccamento del partito e del presidente alla città ferita l’11 settembre».

Nello staff di Bush ci sono altri tre nomi fondamentali. Uno è Andrew Card, capo dello staff del presidente, che però è spesso cannibalizzato dallo stesso Rove. L’altro è Matthew Dowd. È tra i principali strateghi della campagna elettorale. Soprattutto è l’uomo dei sondaggi. Nel suo ufficio passano tutti i dati relativi alle indicazioni di voto di ogni Stato, ogni contea, ogni città, ogni villaggio. Tutte le settimane, almeno tre volte salvo emergenze, riunisce i suoi collaboratori per aggiornare i risultati e analizzare i diagrammi. È giudicato un realista, ma allo stesso tempo un duro. Quando il Los Angeles Times ha pubblicato un sondaggio in cui Kerry era in vantaggio di sette punti, Dowd ha criticato apertamente il giornale e la società demoscopica: «è un imbroglio». Quello che conta di più per lo staff del presidente, però, è il ruolo pubblico di quest’uomo. Nessun “sondaggista” prima di lui aveva contato tante apparizioni in Tv. Dowd, invece, è molto spesso ospite di trasmissioni di approfondimento, concede interviste, parla apertamente del suo lavoro. È la strategia della trasparenza: «Voglio solo che la gente abbia una visione realistica. Oggi il presidente è in vantaggio, domani sarà in svantaggio e così via. Gli elettori devono sapere, non hanno bisogno che le cose vengano nascoste. Questione di credibilità».

Il terzo nome fondamentale nell’inner circle di George W. Bush è quello di Nicolle Devenish, direttore della comunicazione della campagna. A lei è affidato il compito più cattivo: colpire Kerry mediaticamente. Dirige la cosiddetta War Room, la stanza dove lo staff repubblicano controlla tutte le televisioni, le radio, i giornali e i siti web. Monitorano quello che l’avversario democratico racconta alla stampa. Ogni volta che commette una sbavatura, oppure smentisce se stesso, o ancora inciampa in qualche errore che sia di pronuncia o di sostanza politica, la “stanza della guerra” entra in azione: chiama le testate e spiffera la gaffe. «It’s the hiposcrisy, stupid», è il motto della Devenish. È l’ipocrisia stupido: riprendendo il famoso «It’s the economy stupid» partorito dal team di Bill Clinton nel 1992 e che fece la fortuna del presidente, gli uomini che lavorano nel chiuso di un palazzo di Arlington (Virginia), vicino Washington, trasformano tutto in un messaggio anti-Kerry. «Quando corri contro un avversario che è considerato un liberal, ma è anche un flip-flopper (espressione con cui s’identifica uno che spesso non ha una posizione precisa, ma è oscillante) devi cercare qualcosa contro di lui tutto il tempo», ha spiegato la signora Devenish al New York Times.

Al contrario di Dowd, la direttrice della comunicazione ha una strategia aggressiva. È stato proprio lo staff della Devenish a creare il grande imbarazzo tra i democratici per colpa delle esternazioni di Whoopi Goldberg. L’attrice nera ha attaccato pesantemente il presidente definito «ladro e criminale». Soprattutto, però, la tattica di abbattimento dell’avversario si concentra direttamente sul ticket Kerry-Edwards. A metà luglio, quando l’aspirante presidente e vice hanno cominciato a girare per gli Stati a caccia di consensi prima della Convezione di Boston, il senatore del Massachussets disse: «Sono orgoglioso che John abbia votato come me contro gli 87 miliardi di dollari in più per la missione in Iraq». L’attacco della War Room fu frontale. Il giorno dopo tutti i giornali e le Tv americane avevano l’analisi sull’improvviso sentimento anti-patriottico dei democratici. Kerry ed Edwards avevano votato a favore della guerra in Iraq, rifiutandosi invece di aumentare i fondi per i militari. Non era un mistero, però quella frase tanto orgogliosa non fu certamente felice. Così nel discorso immediatamente successivo, Bush sottolineò l’atteggiamento ipocrita dell’opposizione: «I membri del Congresso non devono votare a favore dell’invio di truppe in qualsiasi parte del mondo e poi votare contro l’aumento dei finanziamenti. In questo modo si lasciano i nostri ragazzi soli a combattere per noi».

La squadra di Kerry

Contro l’aggressività della Devenish, lo staff del candidato democratico John Forbes Kerry ha schierato un plotone. Il suo inner circle è molto poco ristretto. Nello staff lavorano centinaia di persone. Il manager della campagna è Mary Beth Cahill. Ha sostituito Jim Jordan cacciato prima delle primarie, quando il nome di Kerry era molto sotto traccia. A 49 anni, la Cahill è una donna dei Kennedy. È stato proprio il senatore Ted Kennedy a spedirla in soccorso del nuovo JFK. Gli amici del marito, un esperto di pubbliche relazioni di Washington, la conoscono come cuoca eccellente, ma negli ambienti politici di Washington e del New England Mary Beth è nota come una comandante di ferro che non tollera ammutinamenti. Probabilmente è la più temuta dai repubblicani perché ha sempre fatto la fortuna dei candidati con i quali ha lavorato. Negli Stati del Nord-Est americano dove è cresciuta – è nata in Massachusetts, la maggiore di sei figli di genitori irlandesi – ha salvato in extremis numerose campagne elettorali in rotta per il fallimento, tra cui quella del senatore del Vermont Patrick Lehay. Chi la conosce la descrive come una organizzatrice fantastica. Ha un punto debole: il retroterra ideologico, vicino alle cause più progressiste del partito democratico – dai diritti dei gay all’aborto – destinate a spaccare l’elettorato americano di qui a novembre. Prima del suo arrivo la campagna di Kerry stava naufragando in preda a lotte intestine tra esperti di media, strateghi elettorali e organizzatori dell’agenda. «Da quando c’è lei sono finiti i dubbi e le dietrologie. Mary Beth – hanno notato gli osservatori subito dopo la Convenzione di Boston – ha sedato l’ammutinamento dello staff».

Secondo Hanna Rosin che ne ha scritto un ritratto sul Washington Post, la Cahill è il terminale dei lobbisti che hanno finanziato la campagna del senatore del Massachussets e che sono una gran parte della forza su cui conta Kerry. A lei è stato accreditato anche un ruolo fondamentale nella scelta di Edwards come vicepresidente designato. La fama da vincente del campaign manager si contrappone a quella di Robert Shrum, stratega elettorale a cui Kerry si affida per riuscire a vincere la corsa per la Casa Bianca. A sessant’anni, è probabilmente lo speechwriter più efficace dell’area liberal e ha lavorato per tantissimi candidati democratici, sia per il Senato, sia per la presidenza. Il ritratto più approfondito su questo guru che non è mai riuscito a portare uno dei suoi clienti all’indirizzo più importante degli Stati Uniti, l’ha fatto Ryan Lizza per Atlantic Monthly. Lo definisce un populista perdente. Quando decise di entrare nel mondo della politica, lui, idealista fino in fondo, scelse i democratici. Nel 1972 lavorò per George McGovern per il quale scrisse «Come on America», lo slogan principale della Convention di quell’anno. La campagna fu una catastrofe. McGovern perse in quarantanove Stati contro Nixon. Nel 1976 passò a Jimmy Carter: la presenza di Shrum nello staff durò nove giorni, poi con una lettera di dimissioni lasciò l’incarico. Altri clienti sono stati Dick Gephardt e Ted Kennedy. Anche con loro fu sconfitta. Nel 2000 era il capo del team di Al Gore: battuto anche in quel caso. A Washington i suoi discorsi sono apprezzati e nonostante tutti sappiano che Shrum non ne abbia mai azzeccata una veramente, da tre decenni è il più considerato tra tutti gli advisor democratici. Quando è entrato nello staff di Kerry aveva un ruolo di secondo piano. Col passare del tempo la sua influenza è aumentata vertiginosamente: «Ora mi sento davvero bene, nessuno credeva in me, adesso invece le cose girano». Il suo cliente ha cominciato a seguire i suoi consigli. È di Shrum l’invenzione di trasformare il candidato democratico in un duro, con quell’espressione “I’m a fighter”. La strategia del consigliere è tutta schiacciata sui sondaggi. È per questo che i democratici ne sfornano molti di più dei repubblicani. Mister Bob, è convinto che le opinioni della gente, anche le più assurde e poco ragionate, possano convincere altre persone. Sul versante strettamente politico, a Shrum si devono tutti gli accenni del ticket democratico alla situazione economica e allo Stato sociale. Alcuni delegati democratici durante la Convention di Boston hanno fatto notare che l’economia Usa è in ripresa e che la gente comincia a essere meno pessimista sull’opportunità di trovare o non perdere il lavoro. Una critica al lavoro dell’advisor che invece continua a ritenere di secondo piano la sicurezza interna e la politica estera. Shrum è al suo ultimo tentativo: se non porterà Kerry alla Casa Bianca difficilmente potrà avere un’altra opportunità. A quel punto il suo più importante e famoso discorso scritto per Ted Kennedy nel 1980, dovrà usarlo per se stesso: «Per me qualche ora fa la campagna è finita. Per tutti gli altri che mi sono stati vicini il lavoro continua, la causa continua, la speranza è ancora viva e il sogno non morirà mai».

23 ottobre 2004


 

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