Lucio Colletti. Tra scienza e libertà
di Pino Bongiorno e Aldo G. Ricci
Con il volume su Lucio Colletti - di cui pubblichiamo la prefazione -
Ideazione editrice inaugura una nuova collana editoriale: la “Biblioteca
del pensiero contemporaneo”. La collana, diretta da Alessandro Campi,
raccoglierà una serie di monografie, delle vere e proprie biografie
intellettuali, dedicate ai maggiori pensatori contemporanei (italiani e
stranieri). Tra i volumi prossima pubblicazione: ROBERT NISBET, di Brad
Lowell Stone, WILHELM RÖPKE, di John Zmirak, BERTRAND DE JOUVENEL, di
Daniel J. Mahoney, RUSSELL KIRK, di Marco Respinti.
Vale la pena di scrivere una biografia intellettuale (e, dato il
personaggio, inevitabilmente anche politica) di Lucio Colletti? A questa
domanda, il potenziale protagonista dell’impresa, almeno nei momenti di
pessimismo iconoclasta che prevalevano nei suoi ultimi anni, avrebbe
certamente risposto di no. Ma quanti l’hanno più o meno direttamente
conosciuto, o hanno solo avuto modo di seguire l’evolversi della sua
riflessione nel corso degli anni, risponderebbero, a nostro giudizio, in
modo diverso. E forse, se avessero modo di ragionare pacatamente con
l’interessato (impresa certo non facile) e con un po’ d’ostinazione,
riuscirebbero anche a convincerlo che in fondo, tutto sommato, può
essere utile ripercorrere mezzo secolo di vita politico-culturale
italiana attraverso l’ottica inquieta, lucida e sulfurea di uno degli
uomini di cultura del nostro paese al quale meglio s’attaglia quel
termine oggi logorato, ma un tempo carico di fascino, che è
‘intellettuale’.
Aver «lo mondo in gran dispitto» era l’immagine che Lucio Colletti
rimandava all’interlocutore, abituale o casuale che fosse. Ma
l’interlocutore abituale conosceva le regole del gioco e riusciva, in
genere, a rompere la corazza respingente che aveva rinforzato nel corso
degli anni per tentare di ridurre al minimo quelle che considerava le
seccature della socialità. Una socialità della quale tutto sommato
Colletti sentiva però il bisogno, perché la sua innata curiosità
intellettuale, che non l’abbandonò mai, neppure negli ultimi anni,
quando lo scetticismo sembrava prevalere su tutto, quella curiosità
richiedeva, per alimentarsi, il confronto con l’altro, se l’altro
rispondeva, almeno minimamente, ai suoi stimoli e alle sue provocazioni,
secondo le personali regole di una sua particolare concezione della
maieutica. Questo solitario dell’anima, che spesso affogava nella folla
o in una mondanità improbabile la sua inquietudine o il suo bisogno
d’isolamento, ha conservato tuttavia, nel corso di una vita ricca di
cambiamenti profondi e di autocritiche vere e non rituali, una fedeltà
di fondo a quella che era la sua natura più profonda: l’identificazione
con i valori di libertà e di coerenza scientifica che egli riteneva,
giustamente, essenziali alla professione dell’intellettuale.
Intellettuale Colletti lo è stato per vocazione e per scelta fin dalla
sua gioventù, assorbendo a pieni polmoni la ricchezza di suggestioni e
stimoli, spesso contraddittori, degli anni a cavallo tra Resistenza e
primo dopoguerra. Il suo azionismo, naturaliter liberale, nel senso più
profondo del termine, cominciò a incrinarsi di fronte alla crisi di quel
vaso di coccio rappresentato dal Partito d’azione tra i vasi di ferro
dei partiti di massa. Ma anche sul piano culturale i suoi punti di
riferimento entrarono in crisi a seguito della critica a cui Colletti,
negli stessi anni del dopoguerra, andava sottoponendo la filosofia
crociana, che nella tradizione italiana costituiva il vero e quasi
esclusivo serbatoio ideale del liberalismo. Continuò tuttavia a
resistere intatto in lui un bisogno viscerale di libertà, ribadito in
seguito costantemente, anche negli anni e negli ambienti più dogmatici e
conformisti: bisogno di libertà come conditio sine qua non per la
ricerca (intesa già allora secondo le regole della scienza moderna, cioè
per congetture e confutazioni), ma anche bisogno delle tante libertà
necessarie alla vita, singola o associata che sia, perché possa
conservare un sapore tutto sommato accettabile.
Il percorso politico-culturale di Colletti s’incrociò, sul finire degli
anni Quaranta, con lo scontro a livello internazionale e nazionale tra i
due blocchi, e la sua scelta in favore del mondo comunista, che in
Italia significava il Pci e, per un intellettuale, comportava la
necessità di avvicinarsi a quella macchina da guerra (quella sì possente
e letale!) che era l’organizzazione culturale comunista in senso lato
(riviste, case editrici, università, ecc.), che egemonizzava l’intera
intellighenzia italiana, quella scelta fu una sorta di atto di volontà
più che un atto di fede. A proposito della guerra di Corea (evento
cruciale dei primissimi anni Cinquanta), Colletti, per esempio, dichiarò
di essere stato sempre convinto che l’aggressore fosse la Corea
comunista. E tuttavia l’atto di volontà che lo portò tra le file
comuniste fu una scelta in un certo modo tipica di molti intellettuali,
che non si facevano illusioni sull’Urss, ma pensavano che il vento della
storia soffiasse in quella direzione, che il marxismo potesse
rappresentare la chiave per interpretarne le leggi e che compito
dell’intellettuale fosse quello di assecondare quella tendenza, operando
perché le cose in Occidente procedessero diversamente rispetto a quanto
era avvenuto nell’Est europeo.
Da quella scelta derivarono molte conseguenze destinate a segnare gran
parte della vita professionale di Colletti, in particolare quella lunga
marcia attraverso il marxismo e il movimento comunista, durata con
modalità diverse per un quarto di secolo, al termine della quale di
quella ideologia e delle esperienze storiche compiute in suo nome
sopravvivevano, nell’analisi del nostro, soltanto un cumulo di macerie.
All’inizio degli anni Ottanta, facendo un bilancio del suo lavoro –
prima di approfondimento e poi di decostruzione del monumento costruito
da Marx e dai suoi esegeti, e di polemica sempre più aspra con il
movimento comunista – Colletti ne dava un giudizio fallimentare, quasi
si fosse trattato di una fatica di Sisifo, uno spreco di energie
consumate intorno a un’illusione. Il marxismo gli appariva ormai come
una teoria priva di carattere scientifico e di ogni congruenza con la
realtà del mondo contemporaneo, mentre il comunismo reale si era via via
ridotto – ai suoi occhi – a un mostruoso sistema di Stati totalitari, il
cui unico elemento vitale era una capacità d’espansione che all’epoca
sembrava ancora inalterata.
Naturalmente il bilancio fallimentare che Colletti tracciava del proprio
lavoro era viziato dall’amarezza di un’esperienza vissuta come sconfitta
e dal senso di vuoto conseguente al dissolvimento dell’oggetto di studio
di tanti anni. Ma il bilancio personale era naturalmente diverso da
quello pubblico. Era diverso il significato che il suo lavoro aveva
assunto all’interno di un processo di revisione critica del marxismo e
della storia del movimento operaio, che nell’Italia tra gli anni
Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta aveva rappresentato uno dei
capitoli più vivi del dibattito culturale e politico.
La lunghissima immersione che Colletti aveva compiuto per anni nei testi
di Marx, a un livello di puntualità filologica e di lucidità critica che
rimane esemplare e per molti versi ineguagliato, nel tentativo di
trovare una base scientifica al sistema, costituisce un’impresa
intellettuale che ha richiesto uno sforzo ciclopico, da un lato, e una
grande onestà, dall’altro. Un’onestà che lo ha spinto, quando l’impresa
si è rivelata disperata, ad andare fino in fondo e dimostrare le
insanabili contraddizioni con la stessa veemenza e razionalità con cui
ne aveva prima tentato di sostenere il fondamento, evitando, come era
nel suo carattere, facili scorciatoie o uscite di sicurezza.
Proprio lui, che a partire dalla metà degli anni Sessanta (anni, come
sappiamo, non qualsiasi) era stato per un decennio il più agguerrito
interprete di Marx in Italia, nel corso del decennio successivo, per
tappe progressive, arrivò a dimostrare il carattere ideologico e non
scientifico, in ultima istanza, del sistema marxiano, la filosofia della
storia che stava alla sua base e il supporto intimamente e non
casualmente totalitario che esso aveva offerto al movimento comunista.
Certo, autori di tutt’altra matrice, ma soprattutto nutriti da ben
diversi contesti culturali rispetto a quello italiano, come Weber,
Kelsen o Popper, avevano già in passato avanzato alcune delle critiche
che Colletti cominciò progressivamente a muovere a Marx tra la seconda
metà degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, ma nessuno di
loro era arrivato a formularle avendo alle spalle il percorso che egli
aveva compiuto. Non si trattava di una differenza da poco, perché solo
l’essere passato attraverso quel vero e proprio processo d’iniziazione
che era rappresentato dall’adesione al marxismo (e che in lui aveva
raggiunto un livello di tensione intellettuale assai raro), rafforzato
per di più dalla militanza, comunista prima e nella sinistra eterodossa
poi, consentì a Colletti di formulare una decostruzione del marxismo
quale soltanto uno che ne aveva penetrato i più intimi segreti era in
grado di fare, e sempre per le stesse ragioni gli fu anche possibile
mettere a fuoco il nucleo dottrinario da cui erano potuti discendere sia
il totalitarismo dei comunismi realizzati, sia lo spontaneismo e il
settarismo dei gruppi extraparlamentari, spesso anticamera del
terrorismo.
Il suo percorso intellettuale e politico lo portò naturalmente in una
rotta di collisione sempre più accentuata con il Pci, ma anche con quei
vastissimi ambienti culturali in senso lato, tipici della realtà
italiana, che non gli perdonarono mai le scelte compiute e ai quali lo
stesso Colletti non perdonò mai, per parte sua, il conformismo e
l’ipocrisia della doppia verità, quella dei salotti, dove si poteva
ostentare dissacrazione e scetticismo, e quella per l’esterno (per
l’operaio di Sesto S. Giovanni, come si diceva una volta tra i
comunisti), dove continuò a imperare un ottimismo storicistico di
maniera, che alternava eurocomunismo, compromesso storico, terze vie e
unioni nazionali, quasi fino al diluvio destinato a spazzare via il Muro
e quanto vi stava dietro.
In questo scontro, gli strali di Colletti – che andava nel frattempo
ritrovando nella filosofia della scienza alcuni, e naturalmente i meno
pretenziosi, dei punti di riferimento metodologici che aveva perso nel
marxismo, ma recuperava anche quella tradizione liberale anglosassone
destinata a rivelarsi più consona alla sua sensibilità laica e
scientifica – si rivolgevano non solo verso l’universo comunista, ma
anche nei confronti di quella parte della Dc e della cultura cattolica
integralista che fin dall’indomani del dopoguerra era stata incline al
compromesso consociativo, più o meno storico, con il comunismo italiano
e non solo.
Si trattava di una battaglia di minoranza, nella quale l’incontro con il
tentativo craxiano di rompere la ‘tenaglia cattocomunista’ (come allora
si diceva) era per Colletti inevitabile, in particolare sui tre fronti
decisivi per l’avvenire del paese: il superamento dello strapotere
sindacale, condizione per un rilancio dell’economia; una grande riforma
istituzionale, in grado di adeguare l’Italia al contesto europeo; il
disgregamento dell’egemonia comunista sul mondo della cultura, premessa
indispensabile per una sprovincializzazione del confronto intellettuale
di casa nostra.
Di queste tre battaglie, solo la prima e la terza diedero qualche
risultato, mentre la seconda si arenò negli accordi del Caf e nella
gestione dell’ordinaria amministrazione, perdendo un’occasione storica
per il paese. Il 1989 avrebbe potuto riaprire la prospettiva del
rinnovamento, ma i protagonisti erano ormai logori e Mani pulite ne fece
tabula rasa, risparmiando soltanto i post-comunisti (ironia della
sorte), ai quali si erano finalmente potuti unire senza più remore, in
un abbraccio a lungo coltivato, i cattolici integralisti. Sembrava la
fine della dialettica politica, sostituita da una sorta di pensiero
unico all’italiana. Si trattava di una prospettiva che Colletti aveva
combattuto per una vita e che lo vide quindi prendere nettamente
posizione sul fronte avverso, incrociando la sua strada, questa volta,
con la nascita di Forza Italia a opera di Silvio Berlusconi: una nascita
che sembrò davvero il prodotto di un’astuzia della ragione per
ristabilire le condizioni oggettive di un pluralismo politico.
Inutile dire che anche in questo caso, come con Craxi, il rapporto di
Colletti con Forza Italia non fu un ‘matrimonio’, per il quale non aveva
più l’età né forse ha mai avuto la forma mentis, ma quella pragmatica, e
spesso conflittuale, convivenza che caratterizza i rapporti maturi, nei
quali prevale una vasta area di convergenza, ma dove si conserva anche
una spiccata autonomia e indipendenza di giudizio: caratteristiche
sempre presenti nel nostro, ma destinate, per forza di cose, ad
accentuarsi negli ultimi anni della vita.
E tuttavia, anche in questa accezione circoscritta e disincantata, non
si trattò di un rapporto superficiale o di circostanza, perché chi legge
i suoi ultimi scritti (saggi o articoli che siano) vi troverà
un’adesione convinta all’ispirazione liberale: un’adesione, d’altra
parte, che era il naturale punto d’arrivo di tutta la sua riflessione a
partire dagli anni Ottanta. Naturalmente non era il liberalismo
antropocentrico e permeato di ottimismo storico della sua gioventù, ma
un liberalismo severo, segnato dal pessimismo e dalla consapevolezza dei
limiti dell’agire umano, e tuttavia convinto dell’essenzialità delle
proprie ragioni come condizioni minime per qualsiasi convivenza o
progresso sociale.
Tutto questo, peraltro, non esauriva l’ultimo Colletti, che cercava
ormai prevalentemente nella storia e nei classici, in autori come
Leopardi, Machiavelli o Lucrezio, interpreti senza sconto del
disincanto, il sostegno quotidiano per alimentare quell’ironia che era
diventata un suo tratto caratteristico, e senza la quale non è possibile
convivere lucidamente con l’angoscia immanente alla condizione umana.
Questa lucida convivenza, insieme alla peculiarità del suo percorso,
fanno anche di lui, a suo modo, un ‘classico’; un classico che ha
segnato una stagione non qualunque della cultura italiana e che come
tale merita di essere conservato nel bagaglio ideale degli spiriti
liberi.
7 ottobre 2004
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