Economia, è il momento delle scelte
di Marco Ferrante
da Ideazione, settembre-ottobre 2004

Con la sostituzione di Giulio Tremonti, il presidente del Consiglio ha decretato di aver avocato a sé la direzione della politica economica. Nella sostanza non ci saranno molte cose da cambiare. La strada sembra abbastanza obbligata. Lo dicono le cifre: i 7 miliardi e mezzo di euro della manovra varata quest’estate, i 24 miliardi annunciati nel Dpef per la manovra 2005 e poi c’è l’impegno di ridurre Irpef e Irap, incognita finanziaria che sarà risolta in questi giorni.

Dunque, se il sentiero è così stretto, l’avvicendamento del ministro che aveva dato una copertura anche culturale alla politica fiscale con la quale Berlusconi aveva vinto le elezioni del 2001 è stata solo una cortesia agli scalpitanti alleati, finanziariamente a buon prezzo (costata meno di un ministero economico alla destra sociale di An), ma politicamente controversa: perché Tremonti era la faccia del governo in economia, era in grado di reggere e difendere provvedimenti economici difficili, ed era in grado anche di tenere caratterialmente il confronto con i ministri del governo Berlusconi. Sebbene questo aspetto si sia alla lunga rivelato un punto di debolezza, perché l’asprezza del carattere non gli ha giovato, è difficile pensare che l’uso più garbato nei rapporti personali attribuito al suo successore Domenico Siniscalco possa bastare ad amministrare le relazioni con le altre forze della maggioranza. Alla fine – a meno di miracoli economici, ma all’orizzonte non se ne vedono – tutto lascia pensare che Siniscalco sarà grosso modo il continuatore della politica tremontiana, che era un tentativo di rendere compatibili gli impegni europei (la vera questione italiana continua a essere l’immenso debito pubblico) e la bandiera dei tagli fiscali con l’idiosincrasia maturata da Berlusconi nei confronti dei conflitti sociali.

Il ricorso alle discusse misure una tantum serviva proprio a limitare l’impatto delle esigenze di contenimento della spesa pubblica sulle nostre coriacee, intoccabili abitudini di cittadini viziati dagli sprechi. E su queste abitudini, il governo cerca di tenersi largo. Per tutta l’estate il dibattito sulla politica economica è stato centrato non sul merito dei tagli alla spesa, ma su un punto tutto tattico, la tecnica chirurgica. Alla domanda “come facciamo a fare la finanziaria tenendo sotto controllo la spesa pubblica e le richieste dei partiti della coalizione?”, il ministro del Tesoro ha risposto tirando fuori il metodo del suo collega inglese Gordon Brown (sarebbe per grandi linee la ripartizione predefinita della spesa con un blocco sulla parte comprimibile del capitolo assegnato a ciascun ministero).

Nel nostro sistema, peraltro, è stato obiettato che l’applicazione del metodo GB è difficile, perché non si riparte mai da zero. Ma che il metodo GB sia applicabile o no, è questione secondaria. Tutti i metodi possono funzionare se c’è la volontà politica di procedere nella riduzione della spesa pubblica e di conseguenza della quota di intermediazione pubblica sul Pil. Le promesse riformiste di Forza Italia erano basate su un punto fondamentale: e cioè che, per quanto un decisore pubblico possa diventare più efficiente, nulla è più efficace della restituzione ai privati della capacità di scegliere. Una parte coraggiosa di opinione pubblica ha chiesto a Berlusconi, anche nell’ultimo anno, di procedere comunque: prima abbi il coraggio di tagliare le tasse, poi preoccupati di quali tagli alla spesa puoi fare, e forse riuscirai anche a tagliare la spesa pubblica inefficiente. Su questo punto la posizione di Tremonti sembrava in linea con l’atteggiamento dell’opinione pubblica più disponibile alla sfida delle riforme.

La sensazione è che la gran parte dell’opinione pubblica che aveva creduto a Berlusconi nel 2001 non abbia cambiato idea – vuole la riduzione dell’intermediazione pubblica – ma non è più così sicura che Berlusconi sia in grado di rispettare l’impegno. Come se il capo del governo si fosse intimidito di fronte alla esigenza di modernizzare. Durante l’estate, per esempio, è caduta praticamente nel vuoto un’altra proposta di riforma del nostro sistema economico. Nel Dpef – come ha notato Francesco Giavazzi – c’è un passaggio in cui si annuncia la liberalizzazione dei servizi e la riforma degli ordini professionali. Dovrebbe significare, tra l’altro: limitare i privilegi corporativi, e pertanto ridurre gli oneri finanziari eccessivi che imprese e famiglie subiscono in quello speciale mercato dei servizi affidati alle professioni liberali, dove la concorrenza è abbastanza scarsa, e piccole minoranze organizzate se ne stanno abbarbicate alle posizioni che garantiscono loro rendite economiche e sociali ragguardevoli. Siniscalco crede nella limitazione del corporativismo delle professioni. Berlusconi è ancora abbastanza moderno per condividere una simile necessità?

4 ottobre 2004
 

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