Lo sport sacro e lo sport profano
di Italo Cucci
da Ideazione, settembre-ottobre 2004

Arriva, ogni quattr’anni, l’ora della Staffetta. Fra lo sport sacro e lo sport profano. Fra l’Olimpiade e il Campionato di calcio. E blablabla, luoghi comuni in quantità che indugiano sulla purezza di “Quelli che Olimpia” e la volgarità di “Quelli che il calcio”. Per fortuna, il dibattito dura lo spazio di un mattino: poi, i Giochi Puliti (si fa per dire) vanno in archivio e i Giochi Proibiti avanzano, imperterriti, ad ogni ora d’ogni giorno con il beneficio dell’audience, il plauso dei trinariciuti (quorum ego, saepe), i palinsesti televisivi traboccanti immagini e chiacchiera, e pagine e pagine di giornali non solo sportivi, anzi, questi ormai travolti dalla palloneria dei fogli d’impegno, dal Corriere della Sera, a Repubblica, al Giornale, che spendono firme illustri e finalmente popolari se appena scrivono di Inter, Juve, Roma, Milan, Pizzighettone, secondo traccia lasciata addirittura da Giovanni Spadolini. Sì, lui, il Professore, quello che «lo sport è roba da mentecatti» e che tuttavia tracciò il solco che ancora tutti i direttoroni difendono a spada tratta.

Lasciatemelo raccontare, questo dettaglio vissuto in presa diretta, prima di rituffarci nella vicenda ormai trascorsa – l’Olimpiade di Atene – e quella che va ad iniziare, la Festa Nazionale del Pallone. Agli albori dei Sessanta, Spadolini dirigeva il Resto del Carlino al quale attribuiva – anticipando come sempre i tempi, lui enfant prodige del giornalismo – una forza di comunicazione globale quando, ogni domenica mattina, appariva il suo fondo, che non era rustico, come tanti, ma illuminante e destinato a vasta conoscenza perché la Politica, la Religione, il Costume, la Morale insomma, eran di sua esclusiva pertinenza. Poi il Bologna Football Club tornò a far tremare il mondo e il vecchio Carlino, che alla squadra di città dedicava pagine e pagine, cominciò ad esibire tirature impressionanti. Sì, il calcio tirava, e il Professor Direttore un giorno decise addirittura di far conoscenza con il miracoloso strumento di diffusione: andò allo Stadio Comunale – anzi, al Littoriale – a vedere Bologna-Fiorentina, apparente derby del suo cuore. Ahilui, non resse lo spettacolo di ventidue uomini in mutande né il becerume urlante, e se ne andò alla fine del primo tempo. Meglio: come disse al ritorno in via Gramsci, più infastidito che adirato (e i suoi scoppi d’ira erano famosi e temuti) fuggì dal teatrino calcistico «alla fine del primo atto».
Eppure, quando poco tempo dopo fu chiamato ad occupare la poltrona di Albertini (e di Alfio Russo), Spadolini ricordò le tirature del Carlino e aprì più che mai il nobile Corriere allo sport, affidato – per felice destino – al grande Gino Palumbo. Lo stesso fecero più tardi, pentiti dello snobismo che li aveva spinti a ignorare lo sport alle prime uscite, Indro Montanelli con il Giornale e Eugenio Scalfari con la Repubblica: «Noi non racconteremo le storie di Riva e Rivera...», scrissero; poi si disputarono la penna di Brera a suon di milioni.

Eccolo, dunque, lo sport nazionalpopolare che va ad iniziare la sua centoquattresima stagione, una kermesse secolare che ha conosciuto solo quattro effettive sospensioni decretate dalle guerre mondiali: come dire che è inutile, puerile, sciocca la fervida attesa dei moralisti anticalcio che s’aspettano da un momento all’altro il blocco definitivo del Grande Gioco, la chiusura del Barnum pallonaro ormai devastato dal morbo monetario che ha fatto parlare e scrivere di Calciobusiness. Non chiuderà mai, il calcio, anche se ormai gode dell’attenzione quotidiana dei Carabinieri, della Finanza, della Polizia e – ve li raccomando – dei giudici: questi, infatti, hanno scoperto ciò che prima di loro avevano intuito le Grandi Firme del giornalismo nazionale, ovvero che a trattar di calcio si finisce in prima pagina, si diventa “poppolari” (sì, con due p), si va in tivì, si rilasciano autografi, si scrivono libri. Si va in gol, insomma, come Riva, Rossi, Vieri. è vero: i campionati vengono ormai spesso decisi e strutturati dai tribunali, e le società impudenti falliscono anche se le impunite non mancano, protette da un potere trasversale ispirato dalla politica, dalla finanza, dalle banche, dalle parrocchie e dai Palazzi.

Restò sorpreso, Jena, corsivista del Manifesto, quando lesse che «il calcio è la metafora della vita»; poi se ne fece una ragione e ammise che null’altro rappresenta meglio la società nostrana e i suoi protagonisti illustri e meschini nei momenti più alti e più squallidi dell’italica commedia umana. Due immagini si oppongono – drammaticamente – al momento della staffetta Olimpiadi-Campionato. Da una parte le treccine e lo sputo e di Francesco Totti agli Europei portoghesi, e la pubblica esecrazione che lo infamò e colpì a livello mondiale; dall’altra il sorriso forte e sereno di Stefano Baldini, il Maratoneta che dopo quarantadue chilometri e centonovantacinque metri ha consacrato la fierezza dell’Italia sportiva davanti all’intero pianeta, sollevando per qualche ora il Belpaese al di sopra degli altri duecentodue paesi partecipanti all’Olimpiade: per la gioia di Carlo Azeglio Ciampi, riscopritore di “Fratelli d’Italia”, e di Silvio Berlusconi, cui sarebbero toccate pagine d’infamia se gli azzurri, ai Giochi, avessero fallito l’obiettivo-medaglie.

Già: i disfattisti in servizio permanente effettivo – quelli ch’ebbi il piacere di sconfiggere nell’82, ai tempi dell’Italia calciomondiale – già affilavano le armi per trasformare le sconfitte sportive in débâcle governativa, per gettare anche lo sport nel paniere della sciagure italiche, dell’amara vita che con tanto slancio raccontano e augurano agli italiani euroafflitti. Dite quel che vi pare, ma almeno l’Italia sportiva c’è, e forte più di quel che gli italiani stessi paiono poter promettere e garantire. E male ha fatto Silvio Berlusconi a non appropriarsi di questi momenti di gloria, occasione non perduta – ad esempio – da George W. Bush, il più medagliato dei presidenti. Se è vero che nei tempi solo il Milan gli ha regalato ore liete, ma anche critiche inevitabilmente costruite sul presunto conflitto d’interessi, è incontestabile che i successi olimpici – trentadue medaglie di grande peso tecnico, agonistico, umano e spettacolare – rappresentano un paese socialmente vittorioso, così diverso da quello degli «italianuzzi stortignaccoli» dipinti da Brera nel dopoguerra, tanto vicino al sogno che la gente di sport quotidianamente sollecita: esser figli di una sola Italia, capace di dare di sé al mondo un’immagine compatta e solidale anche se politicamente divisa in casa.

Alla faziosità – la più pura e sincera – è dedicato il Campionato di calcio che va a cominciare nel segno del campanile, nei colori della Juve, del Milan, della Roma, dell’Inter, della Lazio. Nel nome – questo sì evocante la prima Unità d’Italia pallonara – di Alberto Gilardino, il bomber che milita nel Parma ma è proprietà di tutti i calciofili, la speranza azzurra consacrata dal fuoco e dal bronzo d’Olimpia. Vedete: vien voglia di resuscitare il linguaggio dei Padri Narratori. Meglio fermarsi. E augurarsi soltanto “buon divertimento”.

4 ottobre 2004
 

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